𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 2 (Nicholas)
"𝔇𝔦𝔠𝔢𝔳𝔞𝔫𝔬 𝔠𝔥𝔢 𝔢𝔯𝔬 𝔲𝔫 𝔪𝔬𝔰𝔱𝔯𝔬.
𝔏𝔬 𝔯𝔦𝔭𝔢𝔱𝔢𝔳𝔞𝔫𝔬 𝔬𝔤𝔫𝔦 𝔤𝔦𝔬𝔯𝔫𝔬.
𝔓𝔬𝔦 𝔩𝔬 𝔰𝔬𝔫𝔬 𝔡𝔦𝔳𝔢𝔫𝔱𝔞𝔱𝔬 𝔢 𝔪𝔢
𝔫𝔢 𝔥𝔞𝔫𝔫𝔬 𝔣𝔞𝔱𝔱𝔬 𝔲𝔫𝔞 𝔠𝔬𝔩𝔭𝔞"
꧁꧂
«Buongiorno, raggio di sole!»
Di tutte le certezze che avevo nella mia schifosa esistenza, una di queste era che la voce strillante di mio fratello Gabriel nelle orecchie non era la prima cosa che volevo sentire appena sveglio. Tantomeno quando ero reduce da una sbornia colossale.
Non avevo postumi, non potevo averne, ma ciò non mi rendeva completamente immune agli effetti dell'alcol: ad esempio, ero così intontito che per poco non mi schiantai contro il muro nell'entrare in soggiorno, scatenando l'ilarità generale della mia simpatica e fin troppo numerosa famiglia.
«Qualcuno si è divertito ieri notte, eh?» mi punzecchiò Joel, seduto sul bancone. Prese una manciata di cereali dalla confezione e se la gettò in bocca. «Se mi avessi avvisato che ci saresti andato, Nik, sarei venuto anch'io. Adoro le feste piene di fauna femminile».
Gli scoccai un'occhiataccia. «Allora sai perché non ti ho avvisato».
«Ma hai portato Gabe, che è praticamente un riccio nelle mutande!»
«Per l'esattezza, l'ho beccato mentre usciva e mi sono infilato nel bagagliaio». Disteso sul divano, Gabriel abbassò la rivista di moda che stava sfogliando. I riccioli castani gli ricadevano sul volto truccato con un mascara verde che gli metteva in risalto gli occhi nocciola. «Ragazzi, mi è appena venuta una barzelletta sui samurai cinesi. Volete ascoltarla?»
«I samurai sono giapponesi» obiettò Isaac dalla sua poltrona.
«Ecco, grazie! Mi hai rovinato il finale della barzelletta!»
Isaac scosse il capo e riprese a leggere il libro, allungando le gambe sul tavolino di fronte a sé.
Con passo barcollante mi diressi in cucina, dove c'erano entrambe le mie sorelle. Sky, la più piccola, stava rovistando in tutti gli sportelli in modo piuttosto frenetico e arricciava il naso insoddisfatta ogni volta che ne richiudeva uno senza trovarci quello che cercava.
Kath invece era la maggiore, sebbene spesso i suoi atteggiamenti la facessero somigliare a una mammina apprensiva. Fin dalla nostra infanzia non proprio idilliaca, lei e Callum si erano spartiti i ruoli di genitori e, per quanto la ritenessi una cosa piuttosto irritante, dovevo riconoscere che avessero fatto un lavoro migliore di quelli veri. Non che fosse difficile.
Mi accolse con le braccia incrociate sul petto, ritta come una statua. Pur avendo dei lievi problemi di empatia, capii subito dalla sua smorfia corrucciata che non era proprio allegra. «Avevi promesso che ti saresti comportato bene».
«Per i miei standard, direi che mi sono comportato decisamente bene». Le feci un sorriso sardonico e aprii il frigo, solo per scoprire che era quasi vuoto eccetto che per un paio di birre avanzate dalla cena.
«Non ci resta che sperare che Remi sia andato a prendere la colazione, o moriremo di fame» borbottò Sky, sbattendo l'anta del mobile con un calcio.
«Menomale che sarei io il melodrammatico» commentai sarcastico.
«Remiel è uscito?» Kath emise uno sbuffo frustrato. «Non date mai retta, maledizione! Mai!» E sfrecciò fuori dalla cucina con i capelli ramati, tagliati corti, che le ondeggiavano sul collo.
Afferrai una lattina dal frigo. Mi avrebbe aiutato a liberarmi dello stordimento lasciato dalla sbronza, in fondo per me era quasi l'equivalente di un'acqua amara a base di luppolo. «Sbaglio, o il ritorno a casa ha messo tutti di ottimo umore?»
Sky mi fulminò con le sue iridi celesti che, abbinate alla chioma bionda e al fisico slanciato da modella, le erano valse il soprannome di Barbie da Joel -aveva la mania di affibbiarne a chiunque. «Con te non parlo, bastardo!»
«Visto? Di ottimo umore».
Un lampo le balenò nello sguardo. Per un momento, pensai che avrebbe sguainato uno dei coltelli da bistecca nel cassetto e me l'avrebbe lanciato addosso, invece non si mosse. Non sarebbe stata la prima volta che lo faceva.
Scrollai le spalle, stappai la linguetta metallica e tornai in soggiorno. Gabriel faceva ancora confusione, dando consigli d'abbigliamento a un Isaac che gli avrebbe volentieri mollato un pugno, se non avesse avuto la pazienza di un santo.
Crollai sulla poltrona di pelle davanti a uno dei caminetti scoppiettanti e, intanto che sorseggiavo la birra, mi persi nei ricordi. Ne avevo tanti legati al castello, la maggior parte dei quali avrei preferito dimenticarli, ma ce n'erano anche un paio che custodivo nel cuore e che a distanza di anni mi provocavano ancora le stesse sensazioni.
Era la fortuna e la condanna della nostra natura: nulla spariva.
Ogni emozione rimaneva impressa a fuoco nella memoria, riemergeva con prepotenza al minimo stimolo e la si riviveva sulla propria pelle come il nastro di un film che veniva riavvolto. La nostra esistenza era un giradischi che ripeteva all'infinito il medesimo vinile, e a ciascun ascolto la canzone suonava nuove note con un ritmo destinato a diventare sempre più macabro.
«Ehi, Nik!» Tirando su l'orlo della gonna, Gabriel si appollaiò sul bracciolo accanto a me. «Vuoi sapere qual è il colmo per un sacco da boxe?»
Lo fissai torvo. «Potrei usarti come sacco da boxe e scoprirlo da solo».
«Perdere colpi» concluse ignorandomi. Cominciò a sghignazzare, per poi ammutolirsi quando notò che non stavo ridendo. «Oh, dai! Ti manca il senso dell'umorismo, fratello!»
«E a te l'intelligenza, ma che vuoi farci? A chi troppo, a chi niente».
«Il mondo è un palcoscenico dove ognuno deve recitare la sua parte». Gabriel gonfiò il petto, orgoglioso. «E comunque la tipa che hai rimorchiato ieri mi trovava simpatico».
Aggrottai la fronte. Nella mia mente affiorò una vaga immagine della ragazza a cui si riferiva: sui diciotto anni, attraente, con un misto di audacia e dolcezza stampato sul viso. L'unico dettaglio che riuscivo a visualizzare con chiarezza del suo aspetto erano gli occhi, di un verde intenso che assumeva sfumature addirittura violacee al chiarore delle stelle. Ne ero rimasto rapito, a tal punto che sospettavo fossero il motivo che mi aveva spinto a offrirle da bere.
Il resto lo avevo rimosso, ma il tubino strappato sul pavimento della mia camera e i miei vestiti scomparsi erano validi indizi su cosa fosse successo dopo.
«Eppure è finita nel mio letto, non nel tuo» replicai, bevendo un sorso di birra.
«A proposito, Nik. Non ti sarai convertito, vero?» Joel ridacchiò, continuando a sgranocchiare. «Il tuo amichetto non ne sarebbe molto felice, ammesso che non ti abbia scaricato».
Un fremito mi attraversò la schiena, il sangue che mi ribolliva nelle vene, ed ero già pronto ad alzarmi per andare a rompergli qualche osso del corpo.
In quel momento però comparve Sky, che urlò a Joel con l'indice puntato contro: «Tu! Dammi quei cereali!»
«Quali sono le paroline magiche? L'educazione è importante, sorellina».
Lei lo raggiunse e gli strappò la scatola dalle mani. Nel farlo però un cipiglio si dipinse sul suo volto e ci sbirciò dentro, agitandola un poco, infine gliela gettò in faccia con un gesto rabbioso.
«Ci dovrebbero essere le briciole, se vuoi, Barbie» esclamò Joel, che si stava sbellicando sul bancone.
«Magari ci fossero anche del tuo cervello».
«Smettetela di litigare» li rimbeccò Kath, sbucando dal corridoio. «Callum sta...»
Il portone principale si spalancò. Remiel fece il suo ingresso e rimase un po' perplesso nel ritrovarsi al centro dell'attenzione, anche se per l'esattezza quasi tutti i presenti stavano osservando il sacchetto bianco con un logo marroncino che reggeva sottobraccio.
Kath gli rivolse la stessa espressione severa che aveva usato con me, e che era impossibile da prendere sul serio. «Dove sei stato?»
«Ehm». Remiel mi guardò per un istante, quindi si schiarì la gola. «A comprare da mangiare. Scusa, avrei dovuto avvisarti».
Ebbe a malapena il tempo di posare la busta sul tavolo che gli altri miei fratelli lo assalirono come un branco di lupi famelici, affrettandosi a spartirsi il contenuto.
Gabriel e Joel litigarono per un cornetto alla crema, Isaac se ne intascò uno al cioccolato e batté in ritirata, Sky addentò una brioche alla nocciola mentre un'altra al pistacchio la metteva in disparte. Di sicuro l'avrebbe portata ad Alexander, che dal nostro arrivo era rimasto rintanato nella sua stanza a... boh, coccolare il suo gatto?
Non avevo idea di cosa combinasse.
Non mi unii a loro. Sia perché non ne avevo bisogno, dato che mi conoscevano abbastanza da sapere che toccare il mio cibo era un errore che poteva costare un arto o peggio, sia perché mi era passato l'appetito.
Accartocciai la lattina vuota, mi sollevai dalla poltrona e uscii a prendere una boccata d'aria. Fuori soffiava un vento gelido che mi arruffava i capelli biondi. Il fruscio delle fronde che stormivano, il frullo delle ali degli uccelli e il placido sciabordio delle acque stagnanti del lago mi cullavano, scacciando il silenzio.
Il giardino era in condizioni orribili, al pari del castello: le erbacce che spuntavano tra le crepe del lastricato, la fontana che cadeva a pezzi, i rampicanti che crescevano sulla pietra nera dei muri, il legno dei recinti ormai marcio, gli alberi rinsecchiti, i cespugli aggrovigliati...
Non era mai stato un luogo che ispirasse amore o protezione, nemmeno prima di essere abbandonato a sé stesso. L'incuria e l'abbandono l'avevano soltanto spogliato della sua apparenza di splendore, della sua antica magnificenza, facendo emergere ciò che era in realtà: un ammasso di roccia solitario, vuoto e tetro.
Presi il telefono dalla tasca, selezionai il nome che volevo sulla rubrica e lo portai all'orecchio. Il segnale era debole, ma la chiamata partì. Dopo quattro o cinque squilli, sentii il suono della sua voce dall'altra parte della linea e lo stomaco mi si annodò, prima che mi rendessi conto che era scattata la segreteria.
La verità era che mi mancava, più di quanto mi piacesse ammettere.
«Seth, so che per te Las Vegas è una sorta di paradiso terrestre, ma non ti ucciderebbe controllare quel dannato cellulare ogni tanto. Io al contrario potrei farlo, quindi muoviti a darmi tue notizie o giuro che vengo a prenderti e non sarà piacevole» sbottai furioso. Esitai per un attimo, poi sospirai e aggiunsi in un sussurro: «Per favore».
Agganciai e riposi il telefono nei pantaloni. Quando mi guardai attorno, mi accorsi che i miei piedi mi avevano portato di loro volontà vicino all'imbocco della galleria che conduceva al mausoleo.
I gradini erano scoscesi, irregolari, resi scivolosi dal muschio e dall'umidità. Scendendoli, dovetti chinare la testa per non sbattere al basso soffitto. Goccioline fredde mi picchiettavano sulla nuca e il vento ululava tra le fessure. La luce del mattino che filtrava dalle fenditure non sarebbe stata sufficiente per un comune essere umano, ma io riuscivo a vedere alla perfezione.
Le lapidi erano nella grotta che si apriva sul fondo. Steli di granito nero che si ergevano dal terreno, allineate a intervalli regolari, con i nomi dei miei antenati scolpiti in lettere dorate e un teschio inciso al posto della tradizionale croce. Sopra a ognuna di esse era posta la statua di un corvo e, dal becco aperto, pendeva una lanterna di ferro arrugginita. Avevano tutte il vetro rotto, o incrostato di polvere, e le candele ridotte a rimasugli di cera.
Mi avvicinai a passo sicuro all'ultima tomba, la più grande.
Era alta un metro e mezzo ed era l'unica con dei fiori freschi, un mazzo di crisantemi bianchi che già iniziavano ad appassire. Doveva averli portati Remiel; non ne comprendevo la ragione, ma era stato il solo che avesse davvero sofferto per la sua morte.
Mi lasciai cadere sulla panchina posizionata di fronte, i palmi posati sulle ginocchia. Nonostante l'oscurità, non ebbi difficoltà a leggere l'epitaffio in latino sulla lastra: "Hodie mibi, cras tibi".
Sogghignai tra me e me, fischiettando un motivetto che era stata proprio lei a insegnarmi da bambino, come aveva fatto anche con i miei fratelli. Era una canzoncina in forma di filastrocca incentrata su un amore proibito che si concludeva con il massacro di entrambe le famiglie degli innamorati, durante un sontuoso banchetto.
Una favola della buonanotte, insomma.
«Nicholas».
Mi voltai con un movimento pigro, dato che avevo avvertito la sua presenza prima ancora che parlasse. Era immobile, i capelli scuri che si fondevano col buio e le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti. I suoi occhi penetranti mi fissavano, accesi da un brillio.
«Non mi aspettavo di trovarti quaggiù. Cosa stai facendo?» Il suo tono era pacato, ma tradiva una nota di diffidenza.
«Non è ovvio?» Allargai le braccia. «Saluto la mamma».
Il volto di Callum rimase impassibile. Tenne lo sguardo incollato sulla lapide mentre avanzava e si accomodava al mio fianco, portando con sé un profumo così intenso che mi pizzicò le narici. Malgrado dalla sua espressione non trapelasse nulla, la rigidità della sua postura mi suggeriva che era turbato.
«Sei tornato, quindi deduco che sia filato tutto liscio» osservai, giocherellando con il ciondolo della mia collana.
«Ho coperto le nostre tracce. Quando capiranno che ci stanno cercando nel posto sbagliato, saremo già molto lontani da qui». Callum si curvò in avanti sulla panca, probabilmente per evitare il contatto con lo schienale sporco. «Fino ad allora, ti sarei grato se ti comportassi bene».
Scoppiai a ridere. «So che ti sorprenderà, ma fare il bravo bambino non rientra tra le mie priorità».
«Non possiamo permetterci di attirare l'attenzione, Nicholas. Soprattutto non dopo ciò che è successo a New York».
«Lo so» bofonchiai seccato. «Sky ancora mi tiene il broncio per essercene dovuti andare».
«Oh, non credo che sia soltanto per quello». Callum si grattò lungo la mascella coperta da una barba curata. «Potrei aver trovato un modo per tenere impegnati i nostri fratelli, così forse staranno tranquilli...»
«Ti conviene sbrigarti, allora» lo interruppi divertito. «Perché di sopra sembravano sul punto di ammutinarsi».
L'ombra di un sorriso guizzò sulle sue labbra. «Per fortuna, fratellino, sono abituato ad avere un equipaggio poco propenso ad ascoltarmi».
Non risposi, né si aspettava che lo facessi.
Callum si tirò in piedi, spazzolandosi la polvere dai pantaloni. Si girò verso la tomba e accarezzò i petali di un crisantemo, che gli si sbriciolarono sul dito. «A volte mi chiedo ancora cosa saremmo stati, senza di lei come madre» mormorò con voce assente.
«A me basta sapere cosa non saremmo stati». Mi alzai e gli posai una mano sulla spalla da dietro. «Sangue e ossa, giusto, fratello?»
«Sì»annuì, riscuotendosi dai suoi pensieri. «Sangue e ossa».
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top