𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 19 (Isaac)
"𝔑𝔬𝔫 𝔯𝔦𝔲𝔰𝔠𝔦𝔯𝔢 𝔞 𝔣𝔞𝔯 𝔰𝔢𝔫𝔱𝔦𝔯𝔢
𝔩𝔞 𝔭𝔯𝔬𝔭𝔯𝔦𝔞 𝔳𝔬𝔠𝔢 𝔫𝔬𝔫 𝔰𝔦𝔤𝔫𝔧𝔣𝔦𝔠𝔞
𝔫𝔬𝔫 𝔳𝔬𝔩𝔢𝔯 𝔢𝔰𝔰𝔢𝔯𝔢 𝔞𝔰𝔠𝔬𝔩𝔱𝔞𝔱𝔦"
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Ero steso sul letto da almeno una ventina di minuti. Rigiravo tra le mani un pietra color corallo, rapito dai riflessi del sole che la facevano brillare in maniera quasi accecante. Secondo alcune credenze, l'aragonite aveva un potere calmante che la rendeva in grado di placare ansia e paure. Si riteneva anche che aiutasse le persone che avevano difficoltà a esprimersi, scacciando i pensieri negativi e portando la pace interiore.
Fino a quel momento non stava funzionando granché. Tremavo e avevo i palmi sudati, nonostante i continui tentativi di asciugarli sulla stoffa dei pantaloni. Un peso simile a un macigno mi gravava sul petto, soffocante e opprimente. Ripetevo quel rituale ogni mattina, ma non pareva sortire alcun effetto, anzi avevo l'impressione che peggiorasse col passare dei giorni.
Ero così teso che sussultai quando qualcuno bussò alla porta. Prima con incertezza, poi più forte. «Isaac» mi chiamò la voce gentile di Kath. «Posso entrare?»
Buttai i piedi sul pavimento, sedendomi rigidamente sul bordo del materasso. «Sì, certo».
Un attimo dopo la testa di mia sorella fece capolino nella camera. Un ampio sorriso le illuminava il volto e, per l'ennesima volta, mi chiesi come riuscisse a essere sempre tanto felice e spensierata. Doveva essere bello riuscire a mettere un piede fuori di casa senza essere tormentati da migliaia di pensieri e di paure, spesso irrazionali, su tutte le cose che potevano andare storte.
«Ti conviene scendere. Di sotto c'è una specie di drammatica riunione di famiglia». Dopo aver scoccato una rapida occhiata alle catene appese ai pali del baldacchino, mi rivolse un'espressione premurosa. «Sei pronto?»
Annuii, forse con un po' troppa foga. Notai subito il cambiamento nel suo sguardo ed ebbi la certezza che non mi avrebbe lasciato scampo finché non avessi sputato il rospo. «No, in realtà, stavo pensando di non andare a scuola per un po'. Se non è un problema. Credo di avere... l'influenza».
Kath aggrottò la fronte, perplessa. «Isaac, noi non ci ammaliamo».
«Ah già». Chinai il capo, imbarazzato. «Ho letto su Internet che è tra le scuse migliori per saltare le lezioni».
Lei entrò e richiuse la porta dietro di sé. «Pensavo che ti piacesse» commentò stupita.
«Mi piace, infatti».
Per qualche secondo ci fu solo il silenzio, interrotto dal frullio dei corvi che svolazzavano gracchiando nel giardino. Alla fine Kath si avvicinò e prese posto sul letto accanto a me, cingendomi la schiena con un braccio. Il gesto mi colse alla sprovvista, ma fu come un soffio d'aria fresca durante un'estate particolarmente afosa.
Nella nostra famiglia era raro che ci mostrassimo affetto nei modi considerati dagli umani convenzionali, tantomeno con abbracci o altri contatti fisici. L'amore che c'era tra di noi era più una promessa silente, un contratto non scritto di cui se ne conosce l'esistenza anche senza nessuna prova tangibile.
«Che succede?» mi chiese in tono comprensivo.
Rimasi ricurvo in avanti, la pietra stretta nel pugno che mi si conficcava nella pelle. «Niente. È che mi sento spesso solo, a scuola. I nostri compagni ci fissano sempre e credono che siamo pazzi, a volte mi sembra di essere un'attrazione turistica. Non riesco a parlare con nessuno, non così». Deglutii. «So che sono dei problemi stupidi, scusa».
«No, invece!» Kath rafforzò la presa sulla mia spalla. «Isaac, avere delle difficoltà a integrarsi è una cosa normalissima persino per chi non ha trascorso gran parte della propria infanzia in un laboratorio, o in una cella. Figurati per noi».
Mi strinsi nel maglione. «E perché per i nostri fratelli è così facile? Gabe conosce praticamente l'intero istituto ormai, Joel è diventato una specie di celebrità tra le ragazze, anche Remi ha già un'amica e Sky...»
«Ecco, questi paragoni invece sì che sono stupidi» mi interruppe, accarezzandomi i capelli ramati con dolcezza. «Sei più timido di loro e ti serve più tempo, non c'è nulla di male. Se ti avesse battuto Alexander, allora ti avrei dato ragione a preoccuparti».
Ridacchiai alla sua battuta.
«Magari devi solo trovare la persona giusta. Qualcuno con cui sei a tuo agio».
«Mac». Quel nome mi scivolò dalle labbra con una facilità disarmante. Un calore intenso mi incendiò le guance. «Lui mi sta abbastanza, ehm, simpatico. Mi aveva invitato a casa sua per fare il compito di letteratura, ma Callum non accetterebbe mai. E comunque non voglio disturbarlo, è molto impegnato ultimamente».
Kath roteò gli occhi. «Se vuoi andare, fallo. Hai il mio permesso».
«Davvero?» Mi girai a guardarla. «E Callum?»
«Il brontolone lo gestisco io. Lo adoro, ma è socievole quanto un procione».
Abbozzai un sorriso. «I procioni sono molto socievoli, in verità».
Mia sorella rispose con una risata divertita e si alzò. La imitai, osservandola uscire dalla stanza. Riposi l'aragonite in una delle boccette di vetro che erano disseminate sugli scaffali insieme ai libri, ciascuna accuratamente etichettata con il nome della pietra o del minerale che conteneva.
Avevo iniziato la collezione ai tempi in cui vivevamo in comunità con il dottor Stone, ma si era arricchita parecchio negli ultimi tre anni trascorsi a viaggiare in giro per il mondo. Anche se Joel mi prendeva spesso in giro per quella mia passione, non mi importava.
Mi accertai che le maniche del maglione fossero abbastanza lunghe da nascondere i segni attorno ai polsi, come al solito, poi mi infilai le scarpe e mi incamminai verso il soggiorno con lo zaino caricato su una spalla. Al mio ingresso mi accorsi che la tensione nell'aria si sarebbe potuta tagliare con un coltello, malgrado il sottofondo della sigla dei Simpson allentasse l'atmosfera.
Nicholas stava guardando la televisione, sdraiato sul divano con la testa posata sulle ginocchia di Seth, le palpebre che si socchiudevano quando quest'ultimo gli accarezzava i capelli biondi.
Negli ultimi giorni era stato male per aver usato i suoi poteri telepatici e ciò lo aveva reso particolarmente irritabile: non faceva altro che lamentarsi, sbraitare e insultare chiunque. I miei fratelli concordavano sul fatto che stesse sfruttando le sue condizioni per impietosire il suo migliore amico, e ottenere così il suo perdono. Adesso era ancora pallido, ma sembrava molto più tranquillo (per i suoi standard), quindi dedussi che fosse guarito. O che il piano avesse funzionato.
Callum invece era irrequieto. Appoggiato al bancone, si sistemava compulsivamente il nodo della cravatta e aveva uno sguardo serio dipinto sul volto. Joel, Gabriel e Sky erano seduti di fronte a lui come bambini in punizione. Remiel seguiva la scena in disparte con un cipiglio confuso mentre Alexander coccolava Loki sulla poltrona. Mi si gelò il sangue nelle vene al pensiero che avesse scoperto ciò che era successo al compleanno.
«Vorreste sul serio farmi credere che è una coincidenza?» commentò Callum corrucciato. «Quel ragazzo è sparito alla stessa festa a cui eravate voi. Pensate che sia un idiota?»
Seth sollevò il mento. «Posso esprimere la mia opinione?»
«Certo che no, fratellone». Il sorrisetto di Joel era il ritratto dell'innocenza. «Ma, se avessimo ucciso o mutilato qualcuno, saresti il primo a cui lo diremmo. Per farti rimediare al nostro casino, ovvio».
Sky annuì con forza. «Esatto. E poi neanche lo conosciamo questo Gary Albertson».
«Andrew Stevenson» la corresse Gabriel. Nostra sorella gli lanciò un'occhiataccia e si sbrigò a precisare: «L'ho sentito nominare. Non sono neanche sicuro che si chiamasse Andrew. Gary Stevenson suona molto meglio. Forse era davvero Gary».
Scossi la testa e corsi a rintanarmi vicino a uno dei caminetti. Eravamo spacciati.
«In ogni caso, non avevamo nessun motivo per farlo» proseguì Sky ostinata.
Nicholas ridacchiò, allungandosi verso la mano di Seth per esortarlo a continuare con le carezze. «A me ne viene in mente uno. Quattro lettere, inizia con "F" e finisce con "ame". Chi indovina?»
Gabriel prese a saltellare, emozionato. «Posso dirlo io? Posso?»
«So che non sei sufficientemente evoluto per capirlo, Nik, ma c'è anche chi ragiona prima di sbranare a caso la gente». Sky lo fissò con una smorfia sprezzante. «Non vogliamo tornare segregati in questa maledetta baracca, e siamo in un paesino di vecchi pettegoli. Che senso avrebbe avuto nutrirci, sapendo che ci avresti di certo beccati?»
«La piccola Barbie ha ragione, mica siamo così stupidi. E poi dove sarebbe il corpo?» insistette Joel. «Non abbiamo mai seppellito un cadavere in vita nostra. Quante volte ti sei incavolato per questo, eh?»
Callum esitò per un istante, pensieroso. «Isaac» disse, facendomi trasalire. «Eri con loro. Voglio la verità».
Un brivido mi fece accapponare la pelle. Odiavo mentire, non ne ero nemmeno capace, ma avvertivo la pressione delle mute preghiere di Joel e Sky. Gabriel si era distratto e ora la sua attenzione era puntata sul cartone animato.
«Non hanno fatto niente». La voce bassa e roca di Alexander era venata da una sfumatura di noia. «Lo sceriffo che si occupa del caso è convinto che sia soltanto andato a fare baldoria».
«Smettila con questo interrogatorio, Callum! Prova a fidarti della tua famiglia, ogni tanto». Kath ritornò dalla cucina, reggendo una tazza di cioccolata calda. Emanava un buon profumo, ma anche da quella distanza era evidente che fosse piuttosto liquida. «Nik, tieni. Ti ho preparato questa».
«La tua specialità più zucchero che cacao? Mi sento già molto meglio». Nicholas ignorò il colpetto alla nuca che gli diede Seth e si protese per prendere la tazza. La assaggiò cautamente, con la punta della lingua. Kath aspettava ansiosa il verdetto. «Ottima. È ingiusto, però. Dovresti farla anche per gli altri».
Joel balzò in piedi. «Accidenti, noi dobbiamo andare a scuola».
«Siamo già in ritardo» concordò Sky.
«Non possiamo aspettare?» Gabriel indicò lo schermo della tv. «Non hanno ancora rivelato chi è il responsabile dell'attentato al signor Burns».
«È senza dubbio colpa della baby psicopatica». Nicholas bevve un sorso dalla tazza e storse il naso. Udii i granelli di zucchero crepitare sotto i suoi denti. «Per fortuna sono immune al diabete, altrimenti...»
Seth lo acciuffò per la felpa e lo attirò di nuovo a sé, avvolgendolo tra le sue braccia. «Stai zittino e goditi la tua buonissima cioccolata».
Anziché protestare, lui scrollò le spalle e gli si rannicchiò docile contro il torace.
Il loro rapporto era strano. Nessuno di noi sapeva come si fossero conosciuti, erano entrambi piuttosto schivi sul loro passato insieme ed evitavamo tutti di intavolare l'argomento, ma era chiaro che avessero un legame molto profondo. In effetti, Seth era probabilmente l'unico che avrebbe potuto dare un ordine a Nicholas in quel modo, senza rischiare di essere fatto a pezzi.
«Per quanti la cioccolata, dunque?» offrì Kath sorridente.
Remiel aprì il portone. «È tardi. Ci vediamo».
Callum ci scrutò truce e sospirò, rassegnato al proprio destino.
Salimmo sulla Maserati rossa appartenuta a nostro padre, eccetto Joel che preferiva la moto che era stata di Lucius, e partimmo. Durante l'intero tragitto Gabriel lesse a voce alta alcune delle battute del libro di barzellette che stava scrivendo, per avere una nostra opinione. Io fui l'unico a sforzarmi di ridere, Remiel e Sky si limitarono ad annuire con delle facce perplesse e Alexander tenne la fronte premuta contro il finestrino per tutto il tempo.
«Oh oh, questa è stupenda!» Gabriel si schiarì la gola per dare enfasi. «Che cosa salta, ma non ha le gambe?» Fece una breve pausa e gridò: «LA CORRENTE».
Mi costrinsi a sorridere, provando un moto di sollievo nel constatare che eravamo finalmente arrivati. Dato che a scuola avevano indetto un'assemblea d'istituto per un discorso della preside, ci unimmo alla folla che sciamava verso una gigantesca aula con un palco sopraelevato in fondo.
La confusione era assordante, tra sedie che raschiavano il pavimento e il vociare di centinaia di studenti. Un senso di vertigini mi assalì e mi immobilizzai, tappandomi le orecchie. I timpani mi fischiavano e facevo fatica a respirare. Per un attimo mi parve di tornare rinchiuso in quella cabina, con la luce abbagliante che mi trafiggeva gli occhi e il tintinnio metallico che rimbombava sempre più forte fino a farmi urlare.
Se Sky non mi avesse afferrato la mano, stringendola con delicatezza, probabilmente sarei svenuto. Fece un cenno ai nostri fratelli e ci posizionammo in una delle ultime file, nei posti più esterni, isolati dagli altri. Solo allora mollò la presa su di me, ma non prima di essersi accertata che stessi bene.
«A quanto ho capito, il motivo dell'assemblea è che il sindaco vuole organizzare delle squadre di ricerca per quel ragazzo scomparso». Remiel continuava a girare la testa in tutte le direzioni, perlustrando la sala con lo sguardo. «La scuola ha dato la sua disponibilità per trovare dei volontari, in cambio di crediti».
«Morto» sussurrò Joel, stravaccandosi a gambe larghe.
«Eh?»
«Ragazzo morto, non scomparso».
«Non puoi...» Remiel si paralizzò, poi ricadde pesantemente sulla sedia e ci rivolse un'espressione severa, abbassando il tono. «Ditemi che quelle che avete rifilato a nostro fratello non erano delle balle».
Alexander inarcò un sopracciglio. «È evidente che fossero delle balle. E lo sa anche Callum».
Aggrottai la fronte, torcendomi le dita sudate. Individuai in lontananza un berretto famigliare e, sporgendomi, vidi Mac che si sedeva con il suo gruppetto di amici. Stava ridacchiando con il ragazzo ispanico al suo fianco, Ethan. Qualcosa di indefinito si mosse nel mio petto e mi sorpresi a pensare che fosse particolarmente carino quando rideva. Mi ributtai all'indietro contro lo schienale, arrossendo.
L'idea di andare a casa sua era sempre meno allettante. Anche se la sua compagnia non mi dispiaceva affatto, anzi era forse uno degli aspetti più belli di frequentare il liceo, rimaneva un grosso problema: ero spaventato dall'effetto che mi faceva. Non avevo mai provato nulla del genere e avrei tanto voluto liberarmi di quella cosa... qualsiasi cosa fosse.
«Ma tu ci hai coperti» obiettò Sky interdetta.
Alexander fece spallucce e si mise le cuffie, eppure ero sicuro che le sue iridi cristalline mi avessero sbirciato per una frazione di secondo. Ci aveva aiutati perché sapeva che non ero bravo a dire bugie?
«Non ci credo». Remiel scosse il capo incredulo e, piegato verso di noi, bisbigliò: «Che cazzo ne avete fatto del... voi-sapete-cosa».
Joel sogghignò. «Parliamo anche in codice adesso? Il prossimo step sarà inventare un alfabeto farfallino dei De'Ath?» Quando lui lo fulminò con un'occhiata torva, ricambiò con un sorriso sornione. «Tranquillo, figlio dei fiori. È nella cripta. Per l'esattezza, nelle celle frigorifere in cui la mamma conservava il cibo speciale».
«A casa nostra? L'avete portato a casa nostra?»
«Non preoccuparti, Remi» lo rassicurò nostra sorella. «Alla festa abbiamo approfittato del momento in cui gli invitati si sono radunati per risolvere il delitto, quello finto, per portarlo via gettandolo dalla finestra. Lo abbiamo caricato nel bagagliaio e ce la siamo filata. È stato un lavoro pulito, a parte per i bellissimi cespugli che abbiamo rovinato».
«Neanche una goccia di sangue». Gabriel gonfiò il petto con orgoglio. «Alla faccia vostra che mi accusate sempre di essere un pasticcione».
Remiel affondò il viso tra le mani. «Non ci credo» ripeté per l'ennesima volta, esalando un respiro esasperato. «Perché? Perché non riuscite a non fare stronzate?»
«I-io non c'entro» balbettai in un sussurro.
«E comunque quell'Andrew se lo meritava». Gabriel si rabbuiò, guardandosi attorno con circospezione. «Faceva i giochi brutti, Remi. Come Lucius e gli altri del Tartaro. A noi non piacevano, ho immaginato che non sarebbero piaciuti neppure a Mary».
Dei tremiti mi scossero il corpo e serrai forte i pugni. Non voglio ricordare, non voglio ricordare, non voglio ricordare...
Remiel impallidì. «Aspetta. Layla sa che cosa avete fatto?»
Joel si scompigliò i capelli, ma era un movimento più teso rispetto a quando lo faceva per sedurre qualche ragazza. «Ne dubito, sennò sarebbe venuta a ringraziarci».
«È scappata via subito dopo che l'ha allontanato da lei. Non dovrebbe aver visto nulla». Sky fece spallucce. «O così sostiene Gabe, almeno».
«Gli ho dato una spintarella e il suo collo ha fatto crack. Non l'ho fatto apposta» si difese lui con un broncio infantile. «Ho tentato di essere gentile, ma è stato molto maleducato. Ha criticato il mio gusto per i vestiti»
«La sola cosa su cui non aveva torto, in pratica» soggiunse Joel.
«Remi». Sky gli sfiorò il gomito per attirare la sua attenzione. «Devi promettere che non lo spiffererai a Callum. Se lo farai, nella migliore delle ipotesi ci segregherà nel castello. Nella peggiore, ce ne andremo e non torneremo mai più. E non è ciò che vuoi, giusto?»
Remiel lanciò un'occhiata nel punto in cui c'erano Mac e i suoi amici, contraendo la mascella. Sembrava in lotta con sé stesso. «No, non voglio» ammise infine. «Ma, se Layla sa tutto e vuota il sacco, siamo fregati».
«Secondo me, dovreste solo essere sinceri. Callum capirebbe». Alexander sbuffò. «Ma fate come vi pare».
A poco a poco il silenzio calò nell'aula e la preside iniziò a parlare dal centro del palco. Normalmente avrei ascoltato, ma la presenza di così tante persone mi innervosiva e nella mia mente continuavano a rimbombare le parole di Gabriel. I giochi brutti, avevo quasi scordato che chiamavamo così le Terapie.
«Vado in bagno» mormorai a mia sorella.
Mi alzai e incespicando mi precipitai fuori dalla sala. Percorsi i corridoi deserti e, giunto a destinazione, mi appoggiai a uno dei lavandini con entrambe le mani. Inspirai dal naso ed espirai dalla bocca, poi ripetei l'operazione fino a calmarmi, come mi aveva insegnato il dottor Stone.
Un po' mi mancava, malgrado ci avesse traditi. Non era perfetto, ma aveva fatto del suo meglio per prendersi cura di noi ed era sempre stato gentile. Io lo consideravo la figura più vicina a un genitore che avessimo avuto, ed ero certo che anche i miei fratelli lo pensassero.
«Ehi, De'Ath!»
Ebbi a malapena il tempo di voltarmi che mi arrivò un pugno dritto in faccia; con i miei riflessi non sarebbe stato difficile schivarlo, ma non lo feci. Ero consapevole che, se avessi reagito, non sarei riuscito a fermarmi neanche volendolo. Potevo sentire la rabbia che affiorava dentro di me, nonostante i miei sforzi di cacciarla.
Due ragazzi con addosso un giacchetto sportivo si avvicinarono e mi bloccarono le braccia dietro la schiena. Un terzo si piazzò di fronte a me, squadrandomi con uno sguardo ricolmo di disprezzo. Aveva dei folti capelli castani, i lineamenti spigolosi, il naso fasciato e si teneva una mano premuta sulle costole. Pur non conoscendolo, ero piuttosto sicuro di aver intuito chi fosse.
«Che cosa avete fatto al mio amico?» sbottò Josh, agguantandomi per il maglione. «So che siete stati voi, malati di mente del cazzo! Dov'è Andrew?»
Perché non li uccidi, Sei? È facile.
Gli umani sono cibo e tu hai fame, so che hai fame.
Scossi la testa, cercando di respingere quei pensieri. Non volevo fare del male a nessuno. Non volevo. Non l'avrei fatto.
«No? Non siete stati voi?» Josh mi scrollò con violenza e accostò il volto al mio. Mi sarebbe bastato poco per azzannarlo... davvero poco. I canini già spingevano contro le gengive per uscire e trattenerli era quasi doloroso. «E di Arya che mi dici, invece? Eh? Voglio sapere chi della tua famiglia di psicopatici ha scopato la mia ragazza».
Fallo, Sei.
«È stato il tuo fratello sordomuto?»
È nella tua natura.
«Rispondimi, idiota!»
Non c'è niente di sbagliato.
Josh diede un ordine col capo. Il suo compagno più robusto mi sbatté contro il muro, mentre l'altro con la cresta si accingeva a colpirmi. Il mio stomaco gorgogliò, l'istinto pronto a scattare. Sapevo che li avrei uccisi. Non c'erano vie di mezzo, non per me. Li avrei smembrati e me ne sarei pentito, o meglio mi sarei pentito di aver amato ogni singolo istante della loro morte.
«Non azzardatevi a toccarlo!»
Aprii gli occhi, che non mi ero nemmeno accorto di aver chiuso. Ansante, osservai attraverso un velo di lacrime Mac fermo sulla soglia del bagno e i miei polmoni tornarono a riempirsi d'aria. La vocina nella mia testa si era ammutolita.
«Dovresti farmi paura?» Josh scoppiò in una risata di scherno. «Vattene, Maclean. Sei ridicolo».
«Vuoi che te lo ripetiamo col linguaggio dei segni?» sghignazzò il ragazzo che mi teneva schiacciato alla parete.
«No, grazie. Ho un orecchio che mi funziona benissimo». Mac si strinse nelle spalle. «Pensavo solo alla punizione che vi darà la preside, quando andrò a riferirle di quello che state facendo. Magari le racconterò anche che avete bucato le gomme della macchina del professor Grant, l'altro giorno».
«Ma non siamo stati noi».
Lui sfoderò un mezzo sorriso. «Ho un curriculum scolastico immacolato, il massimo dei voti in tutte le materie e mia madre beve il tè delle cinque con la preside la domenica. Scommetto che crederà alla mia, di versione».
Josh fece un minaccioso passo in avanti, ma Mac non si scompose. La sua espressione divenne gelida. «Vuoi picchiare un ragazzo con certificati problemi di salute? Provaci! Vediamo quanto ci mettono a espellerti dalla squadra di basket».
Per una manciata di secondi nessuno si mosse. Alla fine, Josh imprecò e uscì dal bagno con una serie di pesanti falcate. Quando Mac si scostò per farlo passare, indugiò e ringhiò a denti stretti: «Puoi anche nasconderlo, ma lo sanno tutti che sei frocio». E se ne andò, dandogli una spallata.
I suoi due amici mi scaraventarono a terra e lo seguirono a ruota.
«Cervello uno, muscoli zero». Paonazzo come un pomodoro, Mac mi venne incontro e si chinò. «Tutto okay?»
Annuii. Studiai la mano che mi stava porgendo, esitai e optai per rialzarmi da solo. Non volevo toccarlo, soprattutto perché il cuore mi stava già tuonando all'impazzata in gola per la sua semplice presenza.
Un lampo ferito guizzò sul viso di Mac, che ritirò subito il braccio. Si aggiustò il berretto sui capelli corvini, evitando di guardarmi. «Ti ho visto scappare dall'assemblea e sono venuto a controllare».
«Oh». Il mio stomaco si contorse di nuovo, ma stavolta per una ragione completamente diversa. «N-non mi piacciono i posti affollati».
«Se non vuoi tornarci, possiamo aspettare in cortile. Non dovrebbe durare ancora molto. Rimango con te, se vuoi».
Tentennai. «Meglio di no» farfugliai poi, stropicciando un lembo del maglione. «I miei fratelli, ehm, mi aspettano. Non voglio farli preoccupare».
Mac sospirò deluso e insieme ci indirizzammo verso la sala. Di tanto in tanto mi lanciava delle occhiate di sbieco, come se volesse pormi una domanda ma non trovasse il coraggio.
Finsi di non notarlo, continuando a camminare a debita distanza. Avvertii il bisogno impellente di rompere quel silenzio. «Tua madre beve davvero il tè con la preside?»
«Eh? No, quella era una cavolata». Lui fece una risatina nervosa. «Comunque, per il compito di letteratura...»
«Non voglio venire a casa tua» risposi d'impulso. Mi morsi la parete interna della guancia, rendendomi conto di essere stato troppo brusco. «Cioè, preferisco non... insomma...»
«Va bene. Capisco». Mac afferrò la maniglia con un gesto stizzito. «Potremmo fare una specie di gruppo di studio. I tuoi fratelli sono in coppia con i miei amici. Fammi sapere».
Non riuscii a emettere un suono che era già sparito dentro la sala, richiudendosi la porta alle spalle con un tonfo. Rimasi imbambolato per un attimo, confuso dal suo comportamento, poi entrai a mia volta chiedendomi che cosa avessi sbagliato.
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