𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 15 (Skylar)

"ℑ𝔩 𝔠𝔲𝔬𝔯𝔢 𝔫𝔬𝔫 𝔰𝔦 𝔡𝔬𝔫𝔞, 𝔰𝔦 𝔯𝔲𝔟𝔞.
𝔈𝔡 𝔢̀ 𝔩'𝔲𝔫𝔦𝔠𝔬 𝔣𝔲𝔯𝔱𝔬 𝔦𝔫 𝔠𝔲𝔦 𝔳𝔬𝔯𝔯𝔢𝔰𝔱𝔦 𝔫𝔬𝔫
𝔯𝔦𝔠𝔢𝔳𝔢𝔯𝔢 𝔦𝔫𝔡𝔦𝔢𝔱𝔯𝔬 𝔠𝔦𝔬̀ 𝔠𝔥𝔢 𝔱𝔦 𝔢̀ 𝔰𝔱𝔞𝔱𝔬 𝔱𝔬𝔩𝔱𝔬"

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Cacciai un urlo frustrato e sbattei con foga l'anta dell'armadio, che all'impatto traballò pericolosamente per un istante. Mi voltai, le mani puntellate sui fianchi. Il letto a baldacchino era sommerso da una montagna di vestiti, nessuno dei quali mi sembrava adatto per una festa di compleanno. O almeno così credevo, non avevo abbastanza esperienza per sapere cosa indossassero di solito le adolescenti a eventi del genere.

Mai come in quel momento rimpiangevo il mio vecchio guardaroba che avevo dovuto lasciare a New York.

Più che una partenza, la nostra era stata una fuga rocambolesca, tanto che avevamo avuto a malapena il tempo di portare via il minimo indispensabile. Quando Callum era tornato indietro, per occultare le nostre tracce, ne aveva approfittato per recuperare alcune delle nostre cose. Il mio galante fratellone però, pur avendo un sacco di pregi, in quanto a gusti femminili ne capiva meno di un monaco e così i miei capi d'abbigliamento preferiti erano rimasti lì a prendere polvere.

A quel punto, un'idea si accese nella mia mente. Forse era la peggiore che potessi avere, ma mi bastò immaginare lo spirito di mia madre che si rivoltava nella tomba nel vedere la propria figlia che si appropriava dei suoi abiti e dei suoi gioielli per provocarmi un moto di appagante soddisfazione.

Uscii dalla camera, svoltai l'angolo e camminai fino all'enorme sala comune da cui si diramavano come tentacoli i corridoi che conducevano alle stanze dei miei fratelli, tranne per l'accesso principale chiuso da un robusto portone. Solo Nicholas dormiva spesso in una di quelle per gli ospiti, al pianoterra, in modo da potersi divertire senza problemi con la ragazza o il ragazzo di turno. La privacy era merce rara, se nella tua famiglia avevano tutti un udito sovrasviluppato.

Avvertii una fitta di nostalgia, ma la scacciai con rabbia. Non mi mancava quel bastardo psicopatico, né ero preoccupata che fosse a Las Vegas da giorni ormai. Però ogni tanto affiorava prepotente il pensiero che, l'ultima volta, eravamo stati separati per sei dolorosi anni. E noi De'Ath non eravamo bravi a stare lontani gli uni dagli altri.

Feci una deviazione e varcai una delle arcate, giungendo di fronte alla porta col numero otto inciso nel legno. Bussai, per poi aprire prima ancora di ricevere il permesso.

Chino sulla scrivania, Alexander non si girò nemmeno. Con una mano reggeva la matita, l'altra era impegnata ad accarezzare il gatto nero sulle sue ginocchia. «Non avrebbe più senso entrare direttamente?» chiese con una sfumatura ironica nella voce.

«No, altrimenti che sorellina fastidiosa sarei?»

Non rispose.

Mi avvicinai di soppiatto e sbirciai da sopra la sua spalla. Sul foglio era abbozzato il volto di una ragazza, dai contorni ancora poco definiti. «Chi è?»

«Nessuno. Me la sto inventando». Adesso il suo tono era annoiato. «Che vuoi, Sky?»

«Sappi che non me la bevo». Mi sedetti sullo spigolo della scrivania e gli abbassai le cuffie dalle orecchie. Eravamo in pochissimi a sapere che erano quasi sempre scollegate, dato che le teneva più per indurre la gente a non parlargli, piuttosto che per ascoltare la musica. «Vuoi venire con noi alla festa di compleanno?»

Alexander sollevò gli occhi di ghiaccio su di me. «Compleanno di chi?»

«Una smorfiosetta». Arricciai il naso. «Non ha importanza, è solo per divertirci. Ti va?»

Scosse il capo e ritornò a concentrarsi sul disegno. Loki si stiracchiò sulle sue gambe, facendo le fusa ancora più forte.

Gli sfilai la matita con un gesto repentino e, appena mi scoccò un'occhiataccia, esibii un labbruccio sporgente. «Per favore!» insistetti. «Remi non ci sarà. Non mi puoi abbandonare con il team dei fratelli idioti».

«In realtà prima Gabriel stava cercando di convincere Isaac. Credo che fosse per questo e, considerato quanto è assillante, le probabilità che ci sia riuscito sono alte».

«Anch'io so essere molto assillante, sai?»

«Ma dai?» Alexander riprese la matita, cancellò la riga che gli avevo fatto tracciare per sbaglio e, soffiate via le briciole della gomma, si rimise all'opera.

Sorrisi maliziosa. «La conosco?»

«Difficile, visto che non esiste».

«La stai disegnando con molta cura, per essere una ragazza che non esiste» lo punzecchiai.

«Non devi andare a prepararti?» mugugnò lui seccato.

Ridacchiai, gli diedi un buffetto affettuoso sulla guancia e tornai nella sala comune. Gli appartamenti dei miei genitori si trovavano nell'ala opposta del castello, attraverso un dedalo di gallerie, passaggi serpeggianti e saloni colonnati. C'erano anche le stanze di Lucius, ma non mi azzardavo a metterci piede.

Quando entrai, l'ambiente era il riflesso della personalità di mia madre: freddo, asettico... e raccapricciante. Le pareti di scura pietra erano impreziosite da affreschi a tema mitologico, perlopiù con scene di caccia o di morte. Sui mobili era esposta una ricca collezione di armi medievali -spade, daghe, pugnali e mazze- e nell'angolo era posto uno scheletro presumibilmente finto.

Ignorando il senso d'inquietudine, presi a rovistare nella cabina armadio e ne tirai fuori una camicetta di velluto abbinata a una lunga gonna dai bordi sfrangiati. Mentre mi cambiavo, scoccai un'occhiata al ritratto di mia madre che sembrava rivolgermi uno sguardo carico di disapprovazione.

Le feci la linguaccia. «Ben ti sta, megera».

«Ehi, che stai facendo qui?»

Mi voltai. Kath era in piedi sull'uscio, gli occhi grigi che mi esaminavano man mano che le labbra le si piegavano all'insù.

«Allora?» Allargai le braccia e commentai con una punta minacciosa: «Non dirmi che le somiglio, eh».

«Non le somigli, non nelle cose importanti». Mia sorella aprì il cofanetto intarsiato sul cassettone. Un tesoro di anelli, braccialetti e collane scintillò di riflessi d'oro e d'argento alla luce del tramonto. «Ma, se devi depredare la mamma, fallo bene».

La osservai frugare per qualche secondo finché estrasse una spilla tempestata di diamanti. Si avvicinò e me la infilò con delicatezza tra i lunghi capelli biondi, al lato destro della fronte.

Il sorriso le si allargò, soddisfatta. «Sei bellissima».

Feci una smorfia sarcastica. «Oh beh, è facile quando hai il potere soprannaturale di attrarre la gente. Mi cercavi per qualcosa?»

«Volevo avvertirti che Nik sta tornando insieme a Seth. Per stanotte dovrebbero essere a casa».

«Fantastico. I piccioncini sono riuniti» borbottai acida. Eppure qualcosa dentro di me si smosse; fui assalita da una sorta di strano sollievo, come se mi fossi appena liberata di un sassolino fastidioso nella scarpa. «Peccato. Si stava così bene, senza quel cane randagio».

Kath esitò un istante. «So che sei arrabbiata, e hai ragione. Ma ricorda che Nik ti vuole bene...»

«Non vuole bene a nessuno. Solo a sé stesso». Dato che non avevo voglia di ascoltarla prendere le sue difese, mi affrettai a stroncare l'argomento. «Ora vado. Non ti preoccupare, baderò io ai selvaggi».

«Sì, ma prova anche a divertirti». E mi strinse in un abbraccio che, sebbene fosse abbastanza goffo, aveva un che di materno.

Anche se si staccò quasi subito, ebbi l'impressione che il mio cuore si fosse alleggerito un po'. I nostri genitori erano convinti che l'affetto dovesse essere riservato soltanto agli umani, e forse era vero che dei mostri senza nome non avevano alcun diritto di pretenderne, ma avevo imparato che ogni tanto persino noi ne avevamo bisogno.

Quando poco dopo scesi in soggiorno, i miei fratelli erano impegnati a battibeccare. Nulla a cui non fossi abituata.

«Non è giusto! Non mi fate mai guidare!» si lamentò Gabriel immusonito. Il suo dolcevita color carota faceva a botte con i pantaloni attillati di un verde sgargiante e aveva gettato una spruzzata di tinta viola sui riccioli castani.

Joel, vestito con una camicia bianca, si scompigliò i capelli biondo cenere. Era un gesto che faceva spesso, soprattutto per mettersi in mostra. «Perché fai schifo a guidare. Sembri una gallina starnazzante e sbandi da tutte le parti. Non vogliamo uccidere nessuno... non durante il tragitto almeno».

Lo raggiunsi e gli strappai di mano le chiavi della macchina. «Fate entrambi schifo a guidare».

«Uuh, ma che carina che sei! Mi ricordi tanto la...» Gabriel colse la mia occhiata omicida e corresse subito il tiro: «Qualcuno che non è la mamma. Nossignore. Più tipo Jennifer Lawrence».

Lo ignorai. «Comunque guido io. Fine della discussione».

«Non guardi i film, piccola Barbie? Le donzelle non stanno mai al volante, se hanno dei cavalieri con loro».

Stavo per cancellargli il ghigno odioso che mi rivolse con un pugno, ma la voce di Callum mi trattenne. «Comportatevi bene, bambini». Ci squadrò con uno sguardo severo. «E se dovessero esserci problemi, chiamatemi».

«Ah ah!» Gabriel assunse un'espressione tronfia. «Lo sapevo che non era vero che avremmo dovuto arrangiarci da soli! Sei un tenerone!»

Tenendo la spalla appoggiata al muro, Callum incrociò le braccia sul petto. «Solo in caso di vita o di morte, intendo».

«Tranquillo, vecchietto». Joel abbozzò un sorrisetto. «Ci assicureremo che Isaac faccia il bravo».

Il diretto interessato trasalì, aggrottando la fronte. Fino a quel momento era rimasto in silenzio, fermo accanto a uno dei camini scoppiettanti. «Ma siete voi che fate sempre casino!» protestò debolmente.

Callum non aveva un'aria troppo convinta quando uscimmo dal castello, ma non si oppose. Joel e Gabriel persero tempo in un'animata disputa per accaparrarsi il posto sul lato del passeggero, poi finalmente partimmo.

Viaggiare con quei due non era piacevole, tant'è che più di una volta ebbi la tentazione di buttarli a calci fuori dalla macchina e farli proseguire a piedi. Il primo continuava ad alzare al massimo il volume della musica e a mettere le scarpe sul cruscotto mentre il secondo salutava gli altri conducenti dal finestrino cantando a squarciagola.

Isaac era l'unico che se ne stava tranquillo, schiacciato sul sedile, cercando di proteggersi i timpani dai loro cori stonati. Ringraziavo il cielo che non ci fosse anche Nicholas, o sarei davvero impazzita.

Di conseguenza, non c'era da stupirsi che arrivai a villa Myers piuttosto nervosa. Non mi soffermai nemmeno ad apprezzarne il design ultramoderno, anche se dovetti trascinare via Gabriel dal gigantesco acquario ospitato nell'atrio.

«Volevo fare amicizia con i pesciolini» si giustificò, intanto che ci facevamo largo tra la folla che occupava il salotto. Non che fosse difficile, poiché al nostro passaggio tutti si ritiravano come se temessero che potessimo attaccargli il gene della follia solo sfiorandoli. «Ce n'era uno, Timothy, che pareva molto simpatico».

«Perché Timothy?» obiettò Isaac in un sussurro. Si guardava attorno con frenesia, gli occhi smeraldo sgranati, e si stropicciava i lembi del largo maglione che inghiottiva il suo fisico robusto.

«Era un pesce palla. Chi non chiamerebbe un pesce palla Timothy?»

Joel ridacchiò, scuotendo il capo. Ammiccò a una ragazza che lo stava fissando, seduta su un pouf, e quella arrossì fino a diventare violacea, per poi mettersi a confabulare con il suo gruppo di amichette. Lui tese le orecchie nella loro direzione e il suo torace si gonfiò al pari del suo ego. «Per tua informazione, mi hanno appena definito uno strafigo spaziale».

«Solo perché non sanno che devi compensare il vuoto della scatola cranica».

«Ma aspetta! È Mary!» Saltellando, Gabriel prese a sventolare la mano con tale foga che quasi mi rifilò una gomitata. «Ciao, Mary! Come va?» E, prima che avessi il tempo di bloccarlo, si era già tuffato nella mischia.

«Siete riusciti a venire!»

La smorfiosetta, il cui nome ricordavo vagamente fosse Eleanor, ci venne incontro. Il suo abito cremisi era abbastanza scollato da non lasciare granché spazio all'immaginazione e portava una tiara da reginetta sulla testa. Le sue iridi verdi erano a caccia, alla ricerca di una preda che fu evidentemente delusa di non trovare. Ma fu svelta a spostare le sue mire su Joel.

«Tanti auguri alla festeggiata» commentò quest'ultimo, elargendole un sorriso. «Non mi sono perso l'omicidio, vero?»

«Il delitto è all'ora di cena. Ancora è presto». Eleanor finse di non notarmi e salutò a malapena Isaac, che faceva del suo meglio per nascondersi dietro di me. Quindi tornò a concentrarsi su Joel. «Ma ho trafugato dell'ottimo alcol dalla cantina di mio padre. Se vuoi...»

Emisi un verso disgustato. «Ho visto anche troppo di questa scenetta patetica».

Noncurante dello sguardo truce di Eleanor, mi diressi verso la cucina e mi abbandonai sullo sgabello, seguita da Isaac. Il bancone era stato trasformato in un buffet imbandito di leccornie, stuzzichini e bibite gassate, sebbene ci fossero pure alcune bottiglie di vini pregiati e persino una di tequila. Attorno a noi regnava il caos; agli schiamazzi e alle grida si aggiungevano le casse stereo piazzate ovunque che sparavano canzoni da discoteca.

«Stai bene?» chiesi a mio fratello, che si stava premendo le mani sulle orecchie con fare sofferente.

Da anni aveva sviluppato una paura morbosa per i rumori forti a causa di una particolare sessione di esami a cui ci aveva sottoposto nostra madre, e avere un udito sovrasviluppato non migliorava la situazione.

«Non molto».

Mi accigliai. «Ti sei fatto costringere da Gabe, vero? Seriamente, prima o poi dovrò insegnarti a dire di no».

«Ho accettato io di venire» si affrettò a balbettare Isaac. «Speravo di... ehm...» Divenne paonazzo di colpo. «Cioè, volevo farti compagnia».

«Tradotto: hai una cotta per qualcuno». Scoppiai in una fragorosa risata. «Ero certa che sarebbe venuto anche il tuo turno. Forza, confidati con la consulente sentimentale della famiglia».

A giudicare dalla sua faccia, sembrava che avesse appena ingerito una manciata di peperoncini esageratamente piccanti. «N-non ho nessuna cotta».

«Ah, sei ancora nella fase di negazione. Capito».

Osservai dei ragazzi che sorreggevano un loro amico per le gambe, facendolo bere a testa in giù da un grosso fusto. Pensai che a Nicholas sarebbe piaciuto quel giochino, essendo un amante della birra.

Mi resi conto che stavo accarezzando la pietruzza azzurra incastonata nel mio anello e, stizzita, ritrassi la mano. Il piccolo zircone era stato un suo regalo, anche se non avevo mai scoperto dove lo avesse trovato. E nonostante continuassi a ripetere che ero furiosa con lui, che lo detestavo, non riuscivo a rinunciarci.

Mi ricordava il fratello che mi stringeva la mano prima dei test, che con la fantasia trasformava le torture in giochi per non farmi avere paura e che canticchiava dalla sua cella durante i temporali per aiutarmi ad addormentarmi. Poteva anche essere diventato irriconoscibile, ma quel bambino dolce e innocente che era stato non meritava di essere dimenticato.

«Ehi, ragazzi! Voglio presentarvi la mia nuova amica!»

Lo ammetto: rimasi perplessa di constatare che si riferiva a una persona in carne e ossa. Di solito, si presentava con qualche animaletto o addirittura delle paperelle di gomma, quindi non riponevo grande fiducia quando diceva quella frase.

Invece, stavolta era una ragazza. E anche piuttosto carina. Aveva la carnagione scura, i capelli raccolti in lunghe treccine e un'espressione imbarazzata stampata sul volto. Probabilmente Gabe l'aveva rapita contro la sua volontà.

Arcuai un sopracciglio. «Tu saresti... Mary?»

«Layla» mi corresse lei. «In verità non so chi sia Mary».

«Ci sono le tartine! Adoro le tartine!» Gabriel ne prese una dal vassoio, lanciando un urletto di giubilo. Parlò con la bocca ancora piena. «Comunque, prima stavo chiacchierando con Layla...»

Lessi tra le righe: lei si stava facendo i fatti propri ed era piombato lì con la sua tipica irruenza.

«E, tra una barzelletta e un'altra, mi ha dato un'idea fa-vo-lo-sa».

«Trovare un'altra passione?» suggerii speranzosa.

Ma Gabriel non mi sentì neanche, troppo eccitato. Diede una spintarella a Layla, che timidamente prese la parola. «Io gli ho solo proposto un corso di teatro. Quest'anno, con la scuola, faremo una rappresentazione di un'opera di...»

«SHAKESPEARE, SKY! IO AMO SHAKESPEARE!» strillò Gabriel, applaudendo euforico.

Non lo avevo mai visto così felice. E non era poco, perché lui era letteralmente sempre felice. Era un peccato che Callum avrebbe di sicuro infranto i suoi sogni. Dubitavo infatti che avrebbe mai acconsentito.

«Layla, sei qui!» Un'altra ragazza, dalla chioma corvina, si accostò a noi. Il suo sorriso tradiva una malcelata diffidenza e intuii che non nutrisse grande simpatia per la mia famiglia. «Deena Maclean».

Isaac rischiò di scivolare dallo sgabello. Sulle prime pensai che fosse la tipa che gli piaceva, ma il modo in cui aveva preso a guardarsi attorno mi fece sospettare che dovesse essere qualcuno vicino a lei. Un'altra sua amica, magari.

Sperai che non avesse anche lui un debole per la moretta dalla quale Remiel era ossessionato. Non mi andava di sorbirmi un triangolo amoroso tra i miei fratelli.

Mi alzai. «Devo andare in bagno. Ci vediamo».

Era una bugia, ma volevo uscire a prendere un po' d'aria. Il pensiero di Nicholas mi si era avviluppato addosso come una camicia di forza che non riuscivo a togliermi. Odiarlo, o quantomeno provare a odiarlo, era tremendamente difficile. Gli avevo voluto troppo bene. Forse gliene volevo ancora, malgrado facesse di tutto per dimostrare di non meritarselo.

Un ragazzo mi si parò di fronte, in mezzo al corridoio. Sotto il classico giacchetto sportivo, una canotta bianca gli metteva in risalto gli addominali scolpiti. Stringeva un bicchiere con dentro un liquido opaco che, dall'odore, doveva essere un margarita. «Sei un angelo caduto dal cielo, per caso?»

«Questa frase ha mai funzionato?» replicai scettica.

«Scusa, ho dovuto improvvisare. Non è facile beccarti senza le tue guardie del corpo». Mi tese la mano libera, sorridendo. «Andrew Stevenson. Sono nella squadra di basket».

«Ed esattamente cosa me ne dovrebbe fregare?»

La risposta pungente sembrò lasciarlo di stucco.

Tentai di superarlo, ma Andrew posò il braccio contro il muro per sbarrarmi la strada. Il mio sforzo per non strapparglielo di netto dalla spalla fu notevole. «Posso offrirti un drink?»

«Se non ti è chiaro, hai appena preso un palo. Ritenta, sarai più fortunato» bofonchiai, scansandolo con un gesto secco.

Per sua fortuna, non ebbe la malsana idea di seguirmi.

Uscii in giardino e mi appoggiai a braccia conserte alla balaustra del portico coperto. Aveva cominciato a piovere piuttosto forte. Folate di vento gelido mi artigliavano il viso, bagnandomi le guance come lacrime. Ogni tanto un lampo guizzava nel cielo d'inchiostro.

Sorrisi tra me e me. Mi piaceva il profumo della pioggia, anche se i temporali continuavano a incutermi un certo timore reverenziale.

Avevo sempre pensato che avessero un fascino triste, un po' malinconico, ma anche pericoloso. Erano una delle più grandi manifestazioni della potenza della natura e, in quanto tali, sapevano essere terrificanti. Come noi.

«Anche tu qui per deprimerti, chica

Scoccai un'occhiata al ragazzo ispanico afflosciato sul divanetto. Avevo avvertito la sua presenza, ma ero convinta che dormisse; invece, stava sorseggiando della soda in una posizione scomposta con le lunghe gambe distese davanti a sé. Indossava una felpa spiegazzata, il cappuccio tirato sopra la testa da cui spuntava un ciuffo castano che gli ricadeva sulla fronte.

«Una roba del genere». Scrollai le spalle. «Tu sei il fidanzato di quella tipa, Arya, vero?»

«Fidanzato? Cavolo, no!» esclamò lui con un sussulto. «È una sorella per me. Viviamo anche insieme. Sarebbe una cosa troppo... alla gemelli Lannister. Bleah».

A essere onesta, già lo sapevo. La mia era soltanto una strategia per scoprire se rientrasse o meno nel cliché del migliore amico segretamente innamorato, dato che a scuola li vedevo sempre appiccicati uno all'altra. Mi appuntai di riferire tutto a Remiel.

«Mi chiamo Ethan, comunque». Il ragazzo si raddrizzò, facendo spazio sul divanetto.

Esitai, poi mi sedetti al suo fianco. «Skylar De'Ath».

«Sì, lo so». Accennò al ciondolo sul mio petto. «Deve essere forte avere una famiglia così numerosa».

Una risatina scaturì dalla mia gola. «Se conoscessi alcuni dei miei fratelli, non avresti questa opinione. Fidati».

Ethan bevve un sorso dal bicchiere di plastica. «Per questo sei giù di morale? Hai litigato con uno di loro?»

«Perché tutte queste domande?» ribattei sulla difensiva, fulminandolo con lo sguardo.

«Scusa, volevo fare conversazione. Sono venuto a questa festa solo per ubriacarmi e mi sto annoiando a morte».

«Ubriacarti con la soda?»

«Non giudicare, hermosa. È l'antipasto, sto solo aspettando che la mia amica Deena se ne vada». Ethan sospirò. «Questo pomeriggio avevo un colloquio di lavoro. Ne sto cercando uno da mesi, ma ehi, è una vera impresa trovarne uno in questa città. Specialmente per uno come me».

Lo guardai per un secondo, stranita. «Che hai che non va?»

Prima che potesse rispondere, Joel sbucò all'improvviso. La camicia mezza sbottonata e i capelli ancora più arruffati del solito mi suggerivano che si fosse divertito, ma captai qualcosa nella sua espressione che non prometteva nulla di buono.

«Barbie, dovresti venire con me». Adocchiò Ethan con un mezzo sorriso. «Accidenti, ti perdo di vista per un'oretta e subito vieni rimorchiata da qualche mascalzone».

«Non credo che blaterare dei problemi della mia vita, bevendo una soda da sfigato, sia una tattica così seducente» fece notare il ragazzo. Nonostante il tono pratico, le sue guance si erano accese alle parole di mio fratello.

«Vattene e non rompere, Joel!» sbottai spazientita.

«Come ti pare. Se sei troppo indaffarata, del cadavere di sopra ce ne sbarazzeremo senza di te».

Sbuffai sarcastica. «Divertente».

Ethan fece una risatina nervosa. «Questa sì che è una scusa originale per salvare la propria sorella dalle mie irresistibili avances».

Ma Joel continuava a fissarmi, le mani nelle tasche. Un luccichio gli aleggiava negli occhi, che al buio apparivano entrambi scuri. Era lo stesso sguardo che gli compariva da piccolo quando affrontava i nostri genitori, dopo aver commesso una marachella o un dispetto. Ogni sua ribellione gli era costata parecchie cicatrici, ma non gli era mai importato delle punizioni.

Mi fu sufficiente a capire che non stava affatto scherzando.

Schiarendomi la gola, finsi di controllare l'orologio. «Oh, si sta facendo tardi, in effetti». Mi tirai in piedi, agguantai Joel per la manica e lo spintonai a forza all'interno della villa. Dopo essermi accertata che fossimo abbastanza in disparte, sibilai furibonda: «Che diavolo avete fatto?»

Lui sogghignò. «Vorrei prendermene il merito, ma stavolta io non c'entro».

Si liberò dalla mia presa e cominciò a guidarmi. Schivando la massa chiassosa di adolescenti che affollava il soggiorno, salimmo le scale e attraversammo un salottino appartato in cui una coppia stava pomiciando con tanto trasporto che nessuno dei due badò a noi.

Joel aprì una porta laterale del corridoio e mi ci spinse dentro, per poi seguirmi e girare la chiave nella serratura. Malgrado fossi cresciuta nella violenza, e ciò mi avesse resa tutt'altro che facilmente impressionabile, la scena che mi si presentò davanti era così grottesca che non potei evitare di rimanerne turbata.

Riconobbi in un baleno Andrew Stevenson, quello che aveva flirtato con me a malapena trenta minuti prima. Il suo corpo giaceva su una poltrona della camera da letto, con le gambe accavallate e le palpebre abbassate. Il colorito roseo aveva già iniziato a scivolargli dal viso, sfumando in un pallore lucido.

Se non fosse stato per l'angolatura innaturale del collo, chiunque avrebbe potuto pensare che fosse immerso in un sonno profondo, grazie alla cura con cui era stato messo in posa.

Ma per natura noi De'Ath riuscivamo a percepire la morte.

Inginocchiato accanto al cadavere, Gabriel era intento a rassettargli la canotta. Al nostro ingresso però sollevò subito la testa, ci sorrise allegramente con i denti imbrattati di sangue e agitò nella nostra direzione una mano con l'indice mangiucchiato, muovendola come se fosse una marionetta.

«Ciao, fratelli! Volete giocare con noi?»

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