𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 13 (Callum)
"𝔏'𝔞𝔩𝔱𝔯𝔲𝔦𝔰𝔱𝔞 𝔢̀ 𝔠𝔬𝔩𝔲𝔦 𝔠𝔥𝔢,
𝔞𝔫𝔠𝔥𝔢 𝔮𝔲𝔞𝔫𝔡𝔬 𝔠𝔞𝔡𝔢 𝔞 𝔭𝔢𝔷𝔷𝔦,
𝔰𝔦 𝔣𝔢𝔯𝔪𝔞 𝔞 𝔯𝔞𝔠𝔠𝔬𝔤𝔩𝔦𝔢𝔯𝔢 𝔦 𝔱𝔲𝔬𝔦"
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Quel pomeriggio mi recai a casa della signora Wurstel. Il cancello arrugginito del vialetto era accostato e dei ciuffi d'erba iniziavano già a spuntare dal ciottolato che si snodava tra le aiuole trascurate.
Probabilmente era ipocrita da parte mia, considerato il mio cognome non proprio comune, ma nel leggere la scritta sul campanello mi venne da sorridere tra me e me.
Oltre ad avermi dato l'indirizzo come le avevo richiesto, Rosalie mi aveva spiegato che l'anziana Ginette era una vedova che viveva da sola da una cinquantina d'anni. Di conseguenza non mi aspettavo di trovare qualcuno che mi aprisse, anche se tentai comunque a bussare un paio di volte prima di ricorrere alle soluzioni alternative.
Non ottenendo nessuna risposta, sgattaiolai furtivo sul retro dell'abitazione. Dopo aver controllato che non ci fosse nessuno nei paraggi, indossai i guanti di pelle, afferrai la maniglia ed esercitai una lieve pressione. La serratura si ruppe all'istante. Aprii la porta quel tanto che bastava per infilarmi dentro, quindi la lasciai socchiusa.
Nell'aria aleggiava una puzza d'incenso. Era vaga, vecchia di giorni, ma io riuscivo a fiutarla così bene da avvertire un bruciore al petto a ogni respiro. Tra i nostri poteri, l'olfatto sovrasviluppato era senza dubbio uno di quelli di cui avrei volentieri fatto meno, soprattutto in certe circostanze.
Il soggiorno era alquanto grazioso, malgrado i puzzle incorniciati alle pareti fossero tutti fastidiosamente storti. Sulle mensole erano sistemate delle bambole di pezza, di sicuro realizzate a mano, con delle pietruzze al posto degli occhi e notai una collezione di soldatini dietro una vetrina.
Sembravano dei giocattoli per bambini, anche abbastanza rovinati, il che era strano perché mi risultava che non avesse avuto figli.
Presi ad aggirarmi per la stanza, senza avere la minima idea di cosa stessi cercando. Ero consapevole che fosse davvero improbabile che riuscissi a trovare qualcosa di utile, eppure non avevo potuto resistere alla curiosità. Forse Kath aveva ragione quando mi definiva più testardo di un mulo.
Appena mi spostai nella camera da letto, rimasi scioccato da ciò che vidi. Era disseminata di post-it attaccati ovunque: l'armadio ne era pieno, ma ce n'erano parecchi incollati anche alle pareti, alla cassettiera, allo specchio e persino alle tende.
Ne staccai uno dalla sveglia sul comodino; sopra era scarabocchiata la frase "Alfred non c'è più. Non serve che gli prepari il caffè alla mattina".
Scorsi in fretta anche gli altri. La maggior parte erano appunti su cose da ricordare, come se temesse di poter dimenticare il codice della carta di credito o addirittura la data di morte del marito. Ma la mia attenzione venne presto catturata dai foglietti con la carta rossa appesi alle ante dell'armadio, ovvero delle note riguardanti un gatto di cui però non c'era nessuna traccia -né ciotole né tiragraffi, neppure una lettiera.
Il micio si chiama Alfa.
Dai da mangiare ad Alfa al massimo una volta al giorno.
Evita di toccare Alfa, altrimenti si spaventa.
Non fare mai uscire Alfa.
Alfa si sentiva solo e lo hai portato nel tuo scantinato, ma non avere paura. È innocuo.
Quest'ultimo biglietto mi fece aggrottare la fronte. Un senso d'inquietudine mi si annidò nel petto. Lasciai la camera e mi avvicinai alla porta sul fondo del corridoio, l'unica rimasta eccetto quella del bagno.
Mi aspettavo di trovarla chiusa a chiave, invece era già stata forzata dall'interno con tale violenza che il pomo era rotolato sul pavimento.
Scesi le scale con lentezza. Sebbene fosse buio, non mi disturbai neanche ad accendere la luce. Tesi le orecchie, ma colsi soltanto un assoluto silenzio e ciò mi aiutò a rilassarmi. In compenso percepii un odore strano, un po' acre, che non riconobbi, però ero certo che non potesse appartenere a un essere umano. E tantomeno a un gatto.
Per il resto, lo scantinato era pressoché vuoto. Un ammasso di coperte era gettato in un angolo del pavimento sporco e c'erano delle cianfrusaglie per il giardino sparpagliate in giro. Nient'altro. La finestra era sbarrata in modo da non far filtrare nemmeno un raggio di sole; la vista delle spranghe mi fece accapponare la pelle.
Mi ricordava una versione poco più confortevole delle celle in cui ci rinchiudevano i nostri genitori. Almeno però noi avevamo delle brandine.
Un rumore proveniente dall'ingresso mi strappò un sussulto. Sentii il fruscio del portone principale, un tintinnio di chiavi e qualcuno che entrava. Femmina, a giudicare dai passi.
Mi tolsi i guanti, tenendomi pronto a sfoderare gli artigli, e presi a risalire le scale.
Appena sbucai nel soggiorno, venni accolto da uno strillo accompagnato da un fracasso di scatoloni che cadevano a terra.
Accigliato, mi ritrovai a osservare una donna sulla cinquantina che si premeva una mano sul petto, tentando di riprendere fiato. Era minuta, con dei boccoli rossi che le ricadevano sulle spalle e gli occhi marroni puntati su di me. Indossava un piumino con cappuccio di pelo e dei leggings foderati per proteggersi dalle temperature che si facevano sempre più rigide.
«Mi perdoni, non volevo spaventarla» dissi in tono cordiale.
«No no, non preoccuparti, caro!» Mi rivolse un sorriso caloroso che mi fece scattare sull'attenti. Avevo smesso da tempo di fidarmi delle persone gentili. «Solo che non pensavo di trovare nessuno. Scusa la domanda, tu saresti...?»
«Callum De'Ath».
Il suo sguardo si posò sul ciondolo che portavo attorno al collo e impallidì di colpo, il sorriso che si incrinava appena. Mi affrettai a chinarmi per raccogliere gli scatoloni vuoti che le erano scivolati, li impilai e glieli porsi.
Lei li prese dopo un attimo di esitazione, ringraziandomi. «Comunque sono Linda Black, una vicina. Mi sto occupando delle cose della signora Wurstel prima che la casa venga venduta».
Black.
Perché quel cognome mi era famigliare?
«Conoscevi Ginette, immagino» riprese Linda. «So che ha fatto da governante per i tuoi genitori e prima ancora per i tuoi nonni, in passato».
«Sì, esatto» replicai, stando attento a ogni suo minimo movimento. «Volevo farle visita. L'entrata sul retro era aperta e così sono entrato».
La sua espressione si addolcì, intanto che mi fissava come se fossi un cucciolo indifeso rimasto troppo presto senza mamma. Io ero sempre stato dell'idea che fosse successo troppo tardi.
«Ma certo. La signora Wurstel era molto affezionata alla tua famiglia, sai? Ha continuato a prendersi cura del vostro castello per anni anche dopo che ve ne siete andati, poi purtroppo si è ammalata».
Increspai le sopracciglia. «Cosa aveva?»
«Demenza senile». Il viso della donna si rattristò e la sua voce si fece più bassa. «A volte era convinta che suo marito fosse ancora vivo, oppure si lamentava che era tanto che Vivianne e i suoi fratelli non andavano a trovarla. Credeva persino di avere un gatto. Noi avremmo voluto aiutarla, ma non era una persona... facile, ecco» concluse imbarazzata.
Feci un cenno d'assenso, nonostante non l'avessi mai neppure incontrata. «Beh, allora io vado. Scusi per il disturbo, e per lo spavento». Mi congedai con un rispettoso cenno del capo, per poi indirizzarmi verso l'uscita.
«Aspetta».
Mi girai. Linda adagiò gli scatoloni sul tavolo, coperto da una tovaglia di stoffa, e si avvicinò. Mi irrigidii all'istante quando adagiò una mano sul mio gomito con fare premuroso. «Se a voi ragazzi dovesse servire qualcosa, qualsiasi cosa, voglio che sappiate che potete venire da me. La mia porta è sempre aperta».
Rimasi imbambolato a guardarla per un istante. Alla fine la confusione cedette il posto a un altro sentimento, la diffidenza; doveva essere una delle classiche pettegole di quartiere che camuffava con la compassione il suo bisogno patologico di ficcare il naso negli affari altrui.
Specialmente nei segreti dei De'Ath, dato che tutti ci trattavano alla stregua di fenomeno da circo.
Perciò mi limitai a rispondere in un tono di fredda cortesia: «Grazie. Non è necessario» e mi allontanai verso la mia auto.
Durante il tragitto per Crystal Lake, finalmente trovai una risposta al dubbio ossessivo che vagava nella mia mente.
Charles Black.
Così si chiamava lo sceriffo da cui ci aveva portati il dottor Stone, ora ne ero sicuro. Di solito evitavo di pensare a quella maledetta notte, perché farlo significava riportare a galla anche ciò che avevo provato con la stessa intensità di allora.
Avevo quindici anni, avrei dovuto essere il più coraggioso, eppure mi ero lasciato sopraffare dalla paura e dallo smarrimento come gli altri. Se avessi agito nel modo giusto, tante cose sarebbero potute essere diverse.
Nicholas avrebbe potuto essere diverso.
Quando arrivai a casa, il cielo aveva già cominciato a tingersi delle sfumature rosate del tramonto. La linea dell'orizzonte però era striata di nubi dense e grigie, segno che il temporale che i meteorologi annunciavano da giorni stava davvero per arrivare.
Parcheggiai il SUV di fronte al fienile accanto alle serre che Remiel stava rimettendo in sesto a poco a poco, coltivando e annaffiando con scrupolosa costanza. Avrebbe voluto sistemare anche il giardino, ma aveva ben poco senso fino a che non fossero terminati i lavori di ristrutturazione.
Scesi dalla macchina. Un nugolo di corvi gracchiavano sulla fontana, macchie scure appollaiate sul marmo bianco e crepato. Sulla riva del lago c'era Alexander chino sul blocco da disegno, con un gigantesco gatto nero acciambellato sulle gambe incrociate.
Al nostro ritorno a Notturn Hall, Loki -uno degli svariati nomi che gli avevano appioppato- era un randagio smagrito che si era appropriato del castello nel periodo della nostra assenza. In meno di due settimane, i miei fratelli lo avevano fatto ingrassare così tanto che ormai somigliava a un piccolo grizzly.
«Papà orso!» esclamò Joel, prima ancora che varcassi la soglia. Mi circondò le spalle con un braccio, spingendomi nel soggiorno. «Ci sei mancato. Come stai? Sei in forma oggi!»
Gabriel fece capolino da dietro il divano per dargli manforte, annuendo con tale foga da far ballonzolare i riccioli castani. «Vero! È nuovo quel completo? Perché ti sta una meraviglia». Si baciò le dita per enfatizzare il concetto.
«Che sta succedendo?» chiesi perplesso. Non mi salutavano con tutto quell'entusiasmo neanche quando portavo le pizze.
«Niente!» Joel mi batté delle pacche sulla schiena. Gli occhi, uno marrone e l'altro azzurro, gli brillavano in una maniera che non mi ispirava molta fiducia. «Ci siamo solo accorti che non ti diciamo abbastanza spesso quanto ti vogliamo bene, fratellone!»
«Immensamente bene» precisò Gabriel.
«Okay, basta». Mi liberai dalla stretta di Joel e li squadrai entrambi, sospettoso. «Che cosa volete?»
Remiel e Isaac erano impegnati ad apparecchiare, indifferenti alla nostra conversazione.
Sky, che si stava mettendo lo smalto sulla poltrona davanti a uno dei caminetti, sollevò la testa e scoppiò in una fragorosa risata. «Questa sceneggiata è perché vogliono il tuo permesso per andare a una festa di compleanno».
Joel le puntò contro un indice accusatorio. «Bugiarda! Ci vuoi venire anche tu!»
«La risposta è no».
Gabriel balzò in piedi. «Obiezione, Vostro onore!» esclamò con atteggiamento solenne. «Non dovresti prendere una decisione senza avere i dettagli. Sarebbe un'ingiustizia».
Trassi un respiro profondo. Mi consideravo una persona paziente, ma loro avevano una capacità fuori dal comune di mettermi a dura prova. «D'accordo. Datemi questi dettagli».
«È una cena con delitto».
Cogliendo il mio sguardo torvo, Gabriel strillò: «MA REMI CI HA ASSICURATO CHE È UN DELITTO FINTO, EH».
«Con voi presenti non so quanto finto sarebbe» obiettai.
Sky incrociò le braccia sotto il seno, corrucciata. «Però Nik lo hai fatto andare a Las Vegas»
«Vero! Perché Nik può divertirsi con il suo amichetto dall'altra parte del Paese e noi dobbiamo starcene segregati qui?» protestò Joel infervorato. Era chiaramente compiaciuto che nostra sorella avesse giocato quella carta. «Tu fai favoritismi».
Basta, era davvero troppo.
«Fate come vi pare. Ma se combinate qualche casino, ve lo risolvete da soli stavolta». Lanciai un'occhiata a Remiel, che aveva alzato un dito. «Hai qualche lamentela anche tu?»
«Ehm, no. Una domanda. A scuola ci hanno assegnato un compito da svolgere a coppie...»
Inarcai un sopracciglio. «Non dovete dare confidenza a nessuno. E poi rimarremo al massimo un mese o due, quindi un brutto voto non farà nessuna differenza».
«Ci fermiamo così poco?» Un lampo di delusione balenò sul viso di Isaac, che era intento a disporre i bicchieri sulla tavola.
Scrollai le spalle. Essendo un ragazzo molto abitudinario, era sempre quello che soffriva di più in ognuno dei nostri numerosi traslochi. Anche se un po' mi sentivo in colpa, sapevo che era necessario; rimanere a lungo nello stesso luogo sarebbe stato poco prudente, sia perché significava diventare dei facili bersagli sia perché c'era il rischio di affezionarci.
New York era stata un'eccezione azzardata, un errore che non avrei commesso di nuovo.
Mi voltai ed entrai in cucina, dove Kath stava armeggiando con pentole e padelle mentre ogni tanto sbirciava tra le pagine del suo ricettario. Sembrava che dovesse sfamare un intero esercito.
«Oh, sei tornato» commentò con un sorriso.
Cucinare era la sua grande passione, insieme allo yoga e al jogging mattutino. Niente la rendeva più felice e diventava una vera e propria belva quando qualcuno si offriva di aiutarla, o peggio ancora di sostituirla. Quindi la lasciavamo fare, tacendo sul fatto che -malgrado tutti i corsi su Internet e i libri gastronomici che aveva divorato- fosse assolutamente negata.
Sul serio.
Sbagliava i dosaggi degli ingredienti, spesso addirittura sbagliava gli ingredienti, tant'è che una volta aveva confuso lo zucchero col sale nella preparazione di un dolce. Aveva anche la tendenza a non cuocere abbastanza il cibo o in alternativa a bruciarlo, non esistevano vie di mezzo.
Remiel sosteneva che con la pratica sarebbe migliorata, nell'attesa che accadesse tra di noi vigeva il patto di sopportare in religioso silenzio pur di non ferirla.
Il nostro rapporto era così. Passavamo le giornate a insultarci ed eravamo in grado di litigare persino per decidere quale canale guardare in televisione, ma non toccavamo mai le cose veramente importanti. E, per qualche motivo, per lei quello lo era.
«Sì, adesso. E sono già sull'orlo di una crisi di nervi» sbuffai esasperato. «Comunque dovresti parlare con Alexander. Credo che gli farebbe bene».
Kath mi guardò, tenendo il coperchio della pentola a mezz'aria. «Perché non lo fai tu?»
«A quanto pare, non sono gentile».
«Assaggia».
Ebbi a malapena il tempo di aprire la bocca che Kath mi ci ficcò dentro un mestolo con il sugo. Masticai lentamente i pezzi di salsiccia, reprimendo una smorfia dovuta alla quantità esagerata di pepe. E di olio. Soprattutto di olio.
«Allora?» mi chiese speranzosa.
Deglutii. «Buono. Un tantino saporito, ma buono».
La sua espressione divenne minacciosa. «Stai mentendo? Hai quel tic all'occhio che ti viene quando menti».
«No no».
Kath mi studiò guardinga ancora per un istante, poi le sue labbra si incurvarono all'insù. «Perfetto» commentò esultante. «Sto facendo la pasta. Magari mi viene come quella che mangiavamo in Italia. Era fantastica, ricordi?»
Risposi con un mezzo sorriso.
All'improvviso venni investito da un attacco di vertigini e, appena mi aggrappai allo spigolo del mobile, mi resi conto che avevo le mani intorpidite. Venni travolto da un caldo soffocante, quasi la temperatura fosse salita di colpo di una ventina di gradi.
«Torno subito» farfugliai a Kath, che era così affaccendata da non aver notato nulla.
Prima che potesse replicare, piombai fuori dalla cucina e mi precipitai su per le scale ignorando gli sguardi dei miei fratelli.
«Ehi, vecchietto, perché...»
Mi fermai a metà della rampa e zittii Joel con un'occhiataccia. «Ho bisogno di stare cinque minuti per conto mio. Rompetemi e quella festa la vedrete con il binocolo».
Salii gli ultimi gradini a due a due e percorsi spedito una serie di corridoi fino ad arrivare nella mia camera. Sbattei la porta con un tonfo e girai la chiave nella toppa con le dita sudate. Ansimante, mi strappai via la cravatta nella speranza di liberare le vie respiratorie, ma anche così continuava a mancarmi il fiato.
Estrassi dalla tasca della giacca un tubetto di plastica, lo aprii e ne rovesciai il contenuto sul letto. Presi una pastiglia e la inghiottii. Era uno dei farmaci messi a punto da mia madre, creati apposta per adattarsi alla nostra natura pressoché immune alle medicine umane.
Aveva delle fastidiose controindicazioni come l'insonnia, ma non avevo esitato a racimolarne una scorta quando lo avevo scovato durante la perquisizione nel laboratorio.
Nel frattempo che aspettavo che facesse effetto, mi rannicchiai in un angolo della stanza e premetti la fronte sulle ginocchia sollevate, sforzandomi di respirare. Tremavo come una foglia, dalla testa ai piedi.
Per fortuna nessuno poteva vedermi. Non volevo neanche pensare a quanto ridicolo dovessi apparire dall'esterno in quello stato.
Mi afferrai i capelli e li tirai con violenza, lottando contro il senso d'angoscia che mi graffiava la gola. Avrei voluto urlare, piangere o distruggere tutto ciò che mi capitava sotto tiro, invece mi costrinsi a rimanere immobile senza emettere neanche un suono.
Gli spasmi che mi scuotevano il corpo non accennavano a diminuire, il peso che mi schiacciava il torace era asfissiante. Mi morsi il labbro fino a sanguinare e quella fitta di dolore fu talmente catartica che serrai ancora di più i denti.
Non mi preoccupavo dei tagli. Sarebbero guariti, mi sarei ricomposto prima di scendere e i miei fratelli non si sarebbero accorti di niente. Dubitavo che l'avrebbero fatto in qualsiasi caso, in realtà.
Probabilmente non gliene sarebbe fregato affatto, non finché non avessero avuto bisogno che stessi abbastanza bene da rimediare ai loro guai. Servivo soltanto a quello.
Ero solo, ero dannatamente solo.
Un bambino biondo si materializzò accanto a me, quasi a volermi smentire. Mi strinse forte e sussurrò al mio orecchio con una vocina candida: "Contiamo insieme, va bene? Dai, conta con me".
"N-non sappiamo contare, Zero" balbettò il bambino moro, scuotendo il capo terrorizzato.
"Ecco, bravo. Poi c'è uno, che sei tu..."
Mi lasciai sfuggire una risatina nervosa. "E quando arriviamo a otto?"
"Boh. Ricominciamo". Il piccolo Nicholas sorrise. "Ma tanto ti sarai già calmato".
E contai.
Era appena l'alba quando uscii dal castello. Avevo passato la notte sveglio, chiuso nell'ufficio che era stato di mia madre, sfogliando i vecchi documenti che avevo trovato nella sua scrivania pur sapendo che fossero inutili.
La cosa più interessante di cui riportavano erano degli scavi archeologici da qualche parte in Inghilterra a cui lei e Lucius avevano partecipato, oltre venticinque anni prima. Appunto, inutili.
Alle sei del mattino circa, avevo ricevuto un messaggio da Rosalie in cui affermava di avere delle informazioni importanti. Mezz'ora dopo stavo entrando nell'ala riservata del Coin, il suo night club, che vista l'ora era ovviamente deserto tranne che per un manipolo di uomini di ronda all'esterno.
Dato che ero stato invitato dal loro capo, nessuno provò a fermarmi, anche se percepivo l'ostilità delle occhiate che mi lanciavano da lontano.
Al mio ingresso, Rosalie stava combattendo sul ring al centro. Il suo avversario era la guardia del corpo dall'aria arcigna che avevo visto al nostro precedente incontro, grosso come un armadio. Nonostante la differenza di stazza, però, non riusciva nemmeno a sfiorarla.
Incuriosito, mi sedetti su uno sgabello del bar e rimasi a osservare. La donna gli volteggiava attorno con l'eleganza di una ballerina per sfiancarlo, sgusciando da una parte e dall'altra, rapida come una serpe. Aveva il vantaggio di essere molto più agile, avendo un fisico snello ed elastico, e sapeva sfruttarlo alla perfezione.
Pertanto, non mi stupii granché l'esito dello scontro, con l'omone steso a terra e Rosalie che incombeva trionfante su di lui. Dopodiché, la sua attenzione si spostò su di me.
«Hai fatto presto, pezzo di ghiaccio» esordì ansimante.
Mi venne incontro. I capelli castani erano raccolti in una treccia scompigliata, aveva le guance arrossate e sembrava sfinita, ma sulle sue labbra era impresso il solito sorrisetto sfrontato che mi irritava profondamente. Anche se non ne capivo la ragione.
«Hai detto che era importante». Presi l'asciugamano abbandonato sul bancone e glielo porsi. «Cosa fai in questo posto? Boxe clandestino?»
«Una cosa del genere. Tra qualche giorno ho un incontro, sono la campionessa in carica». Rosalie prese ad asciugarsi il sudore che le imperlava il torace, visibile grazie al top scollato che le lasciava scoperta la pancia. Notai che aveva un piccolo tatuaggio in prossimità del seno, semicoperto dalla spallina sinistra, ma mi imposi di non guardare. «Ti va di allenarci insieme mentre parliamo?»
«Non sarebbe leale» replicai ironico.
«Ti rifiuti perché sono una donna?»
«No, perché sei umana».
Rosalie aggirò il bancone, riempì un bicchierino di scotch e lo vuotò in un solo sorso. «Scommetto una cena che riesco a buttarti al tappeto». Si sporse in avanti, accostando il viso al mio. I miei muscoli si tesero, ma non mi ritrassi. «Non avrai mica paura? Pensavo che voi, invincibili De'Ath, non poteste averne».
La fissai nei suoi occhi scuri, accesi di malizia, poi mi lasciai scivolare giù dallo sgabello. «Facciamo a modo tuo». Sfilai la giacca, la ripiegai con cura e presi ad arrotolare le maniche affinché non fossero d'intralcio.
Rosalie accennò alla camicia. «Speravo ti togliessi anche quella, ma dovrò accontentarmi».
«Facciamo così. Se vinco io, cosa che succederà, la smetterai finalmente di flirtare con me».
«Ci sto».
Salimmo entrambi sul ring, circondato dalle sbarre. Quando mi accorsi che stava per chiudere la porta della gabbia, non potei fare a meno di provare una morsa d'ansia; non mi piaceva sentirmi in trappola, ci ero stato troppo a lungo.
Alla fine Rosalie dovette capire da sola che non era una buona idea e la lasciò aperta.
«Per chiarire». Aggrottai la fronte. «Mi hai invitato solo per giocare o le hai davvero delle informazioni?»
Rosalie cominciò a camminare in cerchio, le gambe flesse e la guardia alzata. «Ovvio che le ho, Mister Rapporto-Strettamente-Professionale».
La seguii con lo sguardo, muovendomi quanto bastava per mantenerla nel mio campo visivo. «Ti ascolto».
«C'è stato un omicidio, un certo Sean Baker. In una stazione di servizio, fuori da Notturn Hall». Rosalie mi sferrò un gancio destro, che schivai tirandomi indietro, e tentò di sorprendermi con una gomitata al costato. La parai senza il minimo sforzo. «Ho delle talpe affidabili nel distretto che mi hanno riferito che la polizia lo vuole tenere segreto per adesso. Ordini del sindaco per non rovinarsi la campagna elettorale, ma dovrebbe tornare comodo anche a voi».
«Hai intenzione di accusare la mia famiglia per ogni morte non naturale nell'arco di cento chilometri?»
«No, solo quelle che prevedono una giugulare squartata e segni di artigli». Un guizzo sarcastico le balenò sul volto. «Questo è un po' di più nello stile del tuo dolce fratellino?»
Prima o poi giuro che ti lego, Nicholas.
«Temo di sì» sospirai rassegnato. «Mi dispiace. Ti prometto che non si ripeterà».
Rosalie continuò a piroettare attorno a me. Ogni tanto mi assaliva con una raffica di colpi, e dovevo riconoscerle che era parecchio veloce per un essere umano, ma ovviamente non poteva battere i miei riflessi. Dal canto mio mi limitavo a respingere i suoi attacchi, evitando il più possibile qualsiasi contatto tra di noi.
Non volevo rischiare di ferirla, qualora non fossi riuscito a dosare bene la mia forza. Non che mi interessasse, in fondo l'avevo anche avvertita dei pericoli. Solo che eravamo alleati, la sua incolumità faceva parte dell'accordo. Tutto qui.
«Per essere una criminale, ti importa molto di chi muore».
Rosalie si incupì, e capii di aver toccato un tasto dolente. «Mi occupo di contrabbando, di gioco d'azzardo, all'occasione anche di frode. Ma non uccido nessuno, soltanto chi vuole uccidere me».
Intercettai il suo pugno a pochi centimetri dalla mia guancia. Lei reagì con la mano libera, ma la bloccai afferrandole il polso. Anche se non stringevo così forte da farle male, era abbastanza per impedirle di divincolarsi.
«E tu?» Rosalie si protese verso di me fino a che i nostri nasi si scontrarono. Il suo odore mi avvolse in un misto di sudore, muschio e bergamotto. «Sei un De'Ath. Non dovresti essere più cattivo?»
Impiegai qualche secondo a rispondere, dato che il mio cervello aveva deciso di punto in bianco di prendersi una vacanza. «Fidati, non vuoi vedere il mio lato cattivo» sussurrai infine.
Il sorriso di Rosalie si allargò e abbassai involontariamente lo sguardo sulla sua bocca.
Fu un errore.
Mi ero distratto talmente tanto da allentare la presa e lei ne approfittò per liberare la mano destra. Il pugno mi colpì in faccia, facendomi arretrare per la sorpresa. Ne assestò un altro alla pancia, ma stavolta ero pronto e riuscii a scartare di lato. Mi concessi di farle un sgambetto, mandandola in ginocchio.
Sorrisi, appagato per quella specie di vendetta. «Beh, se non hai altro per me...»
Rosalie spiccò subito un saltello per rialzarsi. La grazia e la leggerezza con cui si muoveva mi faceva pensare che avesse studiato danza. «Ci sono delle taglie su di voi, te e tutti i tuoi fratelli».
A quelle parole mi paralizzai. «Taglie?»
«Oh sì. Ho scoperto che si sono tenute delle vere e proprie aste». Mi ammiccò con fare giocoso. «Siete una merce preziosa sul mercato nero».
Il sangue mi si era gelato nelle vene. «A quanto ammontano?»
«Cifre esorbitanti, e in continuo aumento. Se ti consegnassi, avrei abbastanza soldi per farmi un giretto sulla Luna». Rosalie scattò, svelta come una frusta.
La agguantai all'altezza del gomito e la attirai a me con un gesto brusco. Lei si capovolse e la sua schiena mi premette contro il petto mentre le imprigionavo saldamente entrambe le braccia.
Nonostante fossi io ad avere il controllo della situazione, non sembrava granché spaventata.
«E come faccio a sapere che non è quello che hai in mente di fare?» Non ero stanco, eppure quando parlai mi resi conto di avere il fiatone.
Rosalie piegò la testa per guardarmi, il suo corpo che si rilassava nella mia stretta. «Se volessi venderti, pezzo di ghiaccio, non ti avrei avvisato dell'esistenza delle taglie. E poi sono contraria al traffico di persone, umane o no» E mi leccò il sottile rivolo di sangue sul labbro.
Mi irrigidii. La donna colse l'occasione al volo, rifilandomi una stilettata dritta al fianco.
L'istinto prese il sopravvento e, prima che potessi fermarmi, l'avevo spintonata con tale impeto da farla crollare a terra al centro del ring. Le scoccai un'occhiata preoccupata, il cuore che mancava un battito, ma mi tranquillizzai nel constatare che stava sghignazzando divertita.
Avrei potuto spezzarle l'osso del collo... e rideva. Iniziavo a sospettare che avesse dei seri problemi.
Mi strofinai il punto in cui si era posata la sua lingua. «Chi ha messo le taglie? Qualche indizio?» chiesi in tono serio, allargandomi il colletto della camicia.
«Un gentiluomo quantomeno mi aiuterebbe».
Roteai gli occhi, mi piegai e le allungai la mano. Rosalie la prese... e mi strattonò verso il basso, sferrandomi in contemporanea un calcio alla gamba per farmi perdere l'equilibrio. Un attimo dopo ero disteso sul pavimento e lei mi sovrastava, stando a cavalcioni sul mio addome con le ginocchia che mi schiacciavano gli avambracci.
Quella posizione mi pietrificò, provocandomi una morsa di puro terrore che mi serrò la gola come una tenaglia. D'un tratto non riuscivo più a muovermi.
«Ho vinto» sogghignò gongolante.
La udii a stento. Ero troppo concentrato ad annaspare per non essere sommerso dai ricordi, che avevano preso a scalpitare nella mia mente. Per un attimo mi si affacciò di nuovo l'immagine della stanza bianca e disordinata, ma strizzai le palpebre con forza nel tentativo di scacciarla.
Non volevo tornarci, non in quella stanza.
«Spostati» mormorai con un tremito. Per favore, aggiunsi disperato tra di me.
Rosalie si accigliò e balzò in piedi senza esitare. «Stai bene?» Per la prima volta non c'era nessuna traccia di malizia nella sua voce, solo una sincera apprensione.
Ignorai la domanda, mi sollevai e le diedi le spalle. Inspirai fino a riempirmi i polmoni, poi gettai fuori l'aria, quindi ripetei l'operazione. Anche dopo che i conati furono scomparsi tuttavia, continuavo ad avere lo stomaco in subbuglio e fui grato di non aver già fatto colazione.
«Devo andare» borbottai conciso, uscendo dalla gabbia. Recuperai la giacca dal bancone del bar e feci per andarmene, ma mi fermai a metà strada. Mi girai verso Rosalie, che era ancora sul ring. «Grazie» biascicai. «Per le informazioni».
La donna mi rivolse un'espressione confusa, poi fece spallucce e disse: «Uranus. Le taglie sono state messe da qualcuno che si fa chiamare Uranus».
Fu come una mazzata in pieno petto.
La mitologia era una delle poche cose che nostra madre ci aveva insegnato. Conoscevo la storia di Uranus, padre dei titani che aveva gettato e incatenato i suoi stessi figli nel Tartaro. Era stato uno di loro, Chrono, a sconfiggerlo... e a evirarlo.
Era una metafora inesatta, ma fin troppo eloquente.
Non solo lui era probabile che fosse vivo, ma ci stava anche dando la caccia.
Sfilai il telefono dalla tasca e scrissi un messaggio a Nicholas. Anche se non volevo dirgli che il suo peggior incubo era tornato, dovevo a tutti i costi trovare un modo per riportarlo a casa. Per proteggerlo.
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