𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 11 (Arya)
"𝔈' 𝔭𝔦𝔲̀ 𝔣𝔞𝔠𝔦𝔩𝔢 𝔩𝔞𝔰𝔠𝔦𝔞𝔯𝔢 𝔢𝔫𝔱𝔯𝔞𝔯𝔢
𝔮𝔲𝔞𝔩𝔠𝔲𝔫𝔬 𝔫𝔢𝔩 𝔠𝔲𝔬𝔯𝔢 𝔠𝔥𝔢 𝔣𝔞𝔯𝔩𝔬 𝔲𝔰𝔠𝔦𝔯𝔢"
꧁꧂
I giorni seguenti furono un vero inferno.
Sebbene Josh non fosse ancora tornato, la vicenda della cosiddetta "rissa" si era diffusa a tempo di record in tutta la scuola e, secondo una regola non scritta che vigeva in ogni piccola cittadina, il pettegolezzo era stato man mano arricchito di dettagli fantasiosi per dare un po' di pepe alla storia.
Risultato? La maggior parte degli studenti era sempre più convinta che le dicerie sulla fantomatica pazzia dei De'Ath fossero vere; quindi, se da una parte li evitavano come la peste, dall'altra li guardavano con un misto di paura, curiosità e fascino.
Poco importava che io continuassi a ripetere fino allo sfinimento, a coloro che mi assillavano per avere un succulento resoconto dell'accaduto, che era stato un incidente.
Soprattutto perché la mia credibilità nel difendere la famiglia di Crystal Lake era andata a suicidarsi da quando si era sparsa la voce che la ragione della scazzottata sarebbe stata una scenata di gelosia legata a una mia relazione segreta con uno dei fratelli.
Okay, una microscopica briciola di verità c'era, ma ciò non cambiava che avevo una voglia matta di prendere a calci nel sedere Josh e i suoi amichetti. Perché doveva per forza esserci il loro zampino in quella pagliacciata che era venuta su dal nulla.
Ed era ciò di cui stavo parlando con i miei amici, mentre ci dirigevamo in palestra per l'ultima lezione del venerdì: educazione fisica.
«Appena lo rivedo, giuro che stavolta glielo rompo, il naso» bofonchiai.
Ethan, che camminava al mio fianco, annuì con fare complice. «Ci sto. Dimmi solo dove e quando, così le damos una paliza a quell'idiota». Si voltò verso Mac. «Sei con noi?»
«No, sono contro la violenza. Accontentatevi del mio supporto morale».
«Geniale» commentò Deena esasperata. «Capisco che tu sia arrabbiata, Arya, ma forse dovresti iniziare a pensare almeno mezzo secondo prima di fare qualcosa».
Era un consiglio intelligente, come sempre. Al quale feci orecchie da mercante, come sempre.
Arrivati di fronte agli spogliatoi, ci separammo dai ragazzi ed entrammo in quello femminile. Dovetti compiere un grande sforzo per ignorare le occhiate che mi lanciavano le mie compagne mentre confabulavano tra di loro.
Cominciai a cambiarmi, ma ero talmente sovrappensiero che mi resi conto solo troppo tardi di aver infilato la camicetta al contrario. Feci cenno a Deena di non aspettarmi e, nel momento in cui fu uscita, mi abbandonai sulla panca. Trassi un respiro profondo, la testa appoggiata al muro e lo sguardo al soffitto.
Ero un casino.
Avevo l'impressione che la mia vita fosse un continuo susseguirsi di decisioni sbagliate, spesso prese d'impulso, che andavano a schiantarsi l'una contro le altre a formare una gigantesca frana che travolgeva ogni cosa. E io ci correvo in mezzo, tentando di schivare i massi che mi venivano addosso, in una di quelle folli discese in cui non riesci a fermarti.
Un tocco delicato mi sfiorò la spalla, strappandomi un sussulto.
«Ehi» mormorò Layla. Indossava una tuta color crema che risaltava la tonalità caramello della sua pelle e la treccia le arrivava fino a metà schiena. «Stai bene?»
«Oh, pensavo te ne fossi andata anche tu». Controllai nei paraggi che fossimo rimaste da sole, poi mi piegai in avanti con i gomiti puntellati sulle ginocchia. Rimasi in silenzio per qualche secondo, intanto che la mia amica si sedeva accanto a me. «L'ho coperto con la preside. A Josh. Ho raccontato che stavamo avendo un semplice litigio e che l'ho colpito».
«Arya...»
«Lo so, lo so. Sono stata una stupida». Affondai il viso tra le mani. «È che non voglio metterlo nei guai, e neanche farmi odiare per aver diffamato il campione idolatrato da tutti. Voglio solo che mi lasci in pace».
«Lo capisco. Oltre a essere stati insieme per un anno, lo conosci da una vita, è comprensibile che tu ci tenga ancora. Non ti rende stupida, solo buona». Layla mi circondò con un braccio e si chinò in modo da potermi guardare in faccia. «Ma ricorda che hai già sofferto fin troppo per colpa sua».
Le rivolsi un sorriso colmo di gratitudine.
«Ora è meglio che andiamo, altrimenti il coach Brayer ci uccide entrambe» ridacchiò Layla, alzandosi.
«Risolverebbe parecchi dei miei problemi».
Mi tirai in piedi. Per caso la mia attenzione venne attirata da uno degli specchi attaccati al muro e mi ricordai il motivo per cui ero rimasta indietro. Sfilai la camicetta, imprecando quando rimase impigliata nella coda di cavallo in cui avevo raccolto i capelli corvini, e la rimisi nel verso giusto.
Feci per raggiungere Layla, che mi aspettava vicino alla porta, ma mi paralizzai di colpo.
Una strana sensazione prese ad agitarsi nel mio petto. Non avevo mai provato nulla del genere, somigliava a una sorta di fredda ansia che mi congelava il respiro nei polmoni.
Nella mente mi balenò un'immagine dapprima distorta, poi i contorni divennero abbastanza definiti da permettermi di distinguere un volto che galleggiava nel buio. Era di un bianco marmoreo simile a un teschio, solcato da una cicatrice.
Mi stava fissando con un paio di enormi occhi neri, i più scuri che avessi mai visto, senza nessuna differenza tra iride e pupilla. Un abisso di oscurità che sembrava volermi inghiottire. Eppure non ne avevo paura, anzi sentivo che niente era così giusto quanto lasciarmici sprofondare dentro.
«Arya. Che hai?»
Mi riscossi di soprassalto, quasi mi fossi destata da un incubo. Girai il capo da una parte e dall'altra, il cuore che mi galoppava in gola, ma ero ancora nello spogliatoio e con me c'era soltanto una Layla alquanto preoccupata. Osservai di nuovo il mio riflesso, rendendomi conto che ero un po' pallida.
Sospirai, frastornata. «Niente, niente. Muoviamoci».
Appena entrammo, venni subito investita dal chiacchiericcio che riempiva la palestra. I fratelli De'Ath erano in disparte, isolati dalla classe, non sapevo se per loro scelta o perché tutti fossero troppo intimoriti per avvicinarsi. Tanto per cambiare, erano stupendi persino nelle loro tenute sportive.
Gabriel stava strillando con l'entusiasmo di un bambino di cinque anni mentre ammirava a uno a uno gli attrezzi ginnici, in particolare era affascinato dalla parete d'arrampicata dal quale Isaac doveva ogni tanto tirarlo giù a forza. Alexander era seduto a braccia conserte sulla panchina, la t-shirt bianca che ne evidenziava i bicipiti e le cuffie sulle orecchie, all'apparenza estraniato dal resto del mondo.
In piedi accanto a lui, vestito con una canotta, Joel era intento a scompigliarsi i capelli biondi con dei gesti così plateali che era evidente che lo facesse solo per far sbavare le ragazze.
Quando mi notò, il solito ghigno gli comparve sulla faccia e disse qualcosa a Remiel, che si voltò di scatto verso di me. La maglietta azzurra era abbastanza aderente da mostrare un fisico che, sebbene mingherlino, vantava degli addominali niente male.
Lo salutai e mi affrettai a seguire Layla che si era già riunita al nostro gruppetto. Prima di raggiungerli, mi concessi di sbirciare solo per un altro istante in direzione di Remiel. Aveva un'espressione delusa che accentuava ancora di più la dolcezza dei suoi lineamenti, con il ciuffo moro che gli si piegava al lato della fronte.
Dal giorno della rissa, non ci eravamo scambiati nemmeno una parola. Anche volendo sarebbe stato impossibile, dato che durante le lezioni e nella mensa lui rimaneva sempre insieme alla sua famiglia.
In pratica avrei dovuto appostarmi fuori dai bagni per beccarlo da solo e, tralasciando quanto sarebbe stato inquietante, comunque non trovavo un valido modo per iniziare la conversazione.
"Oh, ciao. Mi chiedevo: perché l'ultima volta sei scappato via come se fossi una puzzola umana?"
"Ah! E perdonami se ho messo nei guai te e i tuoi fratelli, pur di proteggere quel cavernicolo del mio ex, quindi adesso tutti sono convinti che siate dei folli violenti".
Sarei andata alla grande.
Eleanor mi affiancò, indicando i De'Ath con un sorrisetto compiaciuto. «Con quale di loro sei andata a letto?»
Feci una smorfia sarcastica. «Simpatica».
«Che c'è? Era per sapere! Mica ti sto giudicando». Lei scrollò le spalle, altezzosa. «Ma il bel tenebroso con cui dovrai scontare la punizione è mio, chiaro?»
Stavo per risponderle che le avrei volentieri spedito Alexander in un pacco regalo per il suo imminente compleanno, ma Deena si avvicinò e mi prese a braccetto. «Eleanor, fatti un po' gli affari tuoi» commentò sprezzante, per poi trascinarmi dai nostri amici.
Nel frattempo, Ethan e Mac erano impegnati in una conversazione nerd che il mio fratellino avrebbe di certo apprezzato. A quanto riuscii a capire, cercavano di stabilire chi fosse più forte tra Hulk e Capitan America.
«Ha mosso il martello di Thor. Lo ha anche impugnato una volta. Hulk lo ha mai fatto? Non mi pare».
«Il tuo ragionamento non ha senso» replicò Mac, scuotendo la testa. «Chiunque sia degno può prendere Mjolnir. Non necessariamente il più forte».
Layla guardò me e Deena con fare implorante, pertanto decisi di darci un taglio. «Dai, basta. E comunque Capitan America è più figo».
«Perché tu hai un debole per los rubios» mi stuzzicò Ethan.
Mac si raddrizzò il berretto. «Josh Cervello-di-gallina le piaceva e non è biondo. Direi che ha gusti variabili».
Mi girai verso Ethan e gli diedi un calcio alla caviglia, non così forte da fargli male, ma abbastanza da provocargli un gemito. «Uffa, perché a me sì e a lui no?»
Feci spallucce. «Mi ha fatto copiare in storia. Sono moralmente obbligata a non colpire la sua persona».
I trilli assordanti di un fischietto presero a sferzare l'aria in rapida successione, proseguendo finché il silenzio assoluto non fu calato nella palestra.
Il coach Brayer ci venne incontro. Era un uomo smilzo, sempre corrucciato e grande sostenitore di qualsiasi teoria complottistica che riguardasse gli alieni.
Ah! E aveva un chihuahua bianco che portava con sé ovunque perché, se lo lasciava da solo, gli devastava la casa e la disseminava di regalini. O almeno quella era la scusa che rifilava a tutti, perché in realtà era più probabile che fosse lui a soffrire di sindrome dell'abbandono, piuttosto che il suo cagnolino.
«Allora, state zitti e ascoltate» sbraitò l'insegnante, fracassandoci di nuovo i timpani con il fischietto.
Nella mano libera intanto reggeva Rocky che, avvolto in un giubbottino militare e con un collare a borchie, sembrava volersi spacciare per un pitbull che non ci aveva creduto abbastanza.
Nel vederlo, Gabriel lanciò un gridolino emozionato. «Ma che carinooo! Posso accarezzarlo?»
«Puoi provarci. Ma ti avverto: morde, sbrana e balla sul tuo cadavere».
Ethan sghignazzò e mi sussurrò all'orecchio: «Balto se lo mangerebbe a colazione con un contorno di croccantini».
Mi sfuggì una risatina, che però mi si strozzò in gola. Alexander mi stava fissando con il suo sguardo glaciale, il viso coperto da una maschera inespressiva.
Per qualche ragione mi rammentava vagamente il ragazzo che avevo sognato (immaginato?) nello spogliatoio, nonostante quest'ultimo avesse gli occhi neri come la pece mentre i suoi erano di un impressionante azzurro cristallino.
Mi costrinsi a interrompere quel contatto visivo, anche se non bastò a liberarmi dalla sensazione che il ghiaccio delle sue iridi mi stesse bruciando.
«Oggi saltiamo il riscaldamento» riprese il coach. «Siccome uno dei miei migliori giocatori ha avuto la geniale idea di farsi pestare, e manca poco alla prossima partita del campionato, devo trovare tra di voi un rimpiazzo temporaneo che non faccia troppo schifo».
«E il topo a che serve?» chiese Joel, le braccia incrociate dietro la nuca.
Il coach lo guardò torvo, stringendo Rocky con fare protettivo. Poi aggrottò la fronte e passò in rassegna ciascuno dei fratelli, soffermandosi su Gabriel che era impegnato a scalare la parete d'arrampicata. «Voi perché siete qui?»
«Siamo i De'Ath. Ehm, signore» spiegò Remiel impacciato, scacciando Isaac che tentava di nascondersi dietro di lui.
«Sì, grazie. Portate dei ciondoli raccapriccianti a forma di teschio sul petto, è evidente che siate i De'Ath» ribatté Brayer acido. «Intendevo perché siete qui in cinque. Cos'è, una riunione di famiglia? Vostra madre riceveva dei buoni spesa in proporzione al numero di gemelli che sfornava?»
Remiel esitò per un attimo, quindi Gabriel ne approfittò per prendere la parola, strepitando dall'alto: «Non proprio! In verità siamo adottati, ma abbiamo...»
«Non ha chiesto il nostro albero genealogico, idiota» soggiunse Joel contrariato.
Gabriel replicò con una pernacchia.
«Spero che abbiate tanto talento nello sport quanto ne avete nel litigare». Il coach depositò a terra Rocky, che si dimenava nella sua presa, si raddrizzò e batté le mani. «Forza, dividetevi in due squadre. Chi è consapevole di essere una schiappa si faccia da parte... esatto, club degli esclusi, parlo con voi» aggiunse, rivolto a me e ai miei amici.
Io, Ethan e Mac andammo a sederci sugli spalti senza protestare. Al contrario Layla e Deena vollero partecipare alla partita; la prima perché era davvero brava a basket, a discapito di quanto pensasse il professore, la seconda invece per puro orgoglio.
Entrambe finirono nella squadra di Eleanor, che pareva irritata di essere riuscita ad accaparrarsi soltanto un De'Ath, Gabriel, dato che Joel era l'altro capitano e aveva scelto subito Remiel. Isaac invece aveva colto al volo l'occasione di tirarsi indietro, al pari di Alexander che non si era nemmeno mosso dalla panchina.
«Avevo ragione. Sono adottati» gongolò Mac, aggiustandosi l'apparecchio acustico.
Scossi la testa, incredula. «Sì, ma è assurdo. Come possono somigliarsi così tanto?»
«Non saprei. Forse è una coincidenza, o hanno qualche parente in comune».
Lanciai un'occhiata di sfuggita alla panca e rimasi a bocca aperta. Alexander era ancora seduto lì, con quello che avrei giurato essere l'accenno di un sorriso sulle labbra.
Era intento ad accarezzare Rocky che si era accoccolato sulle sue ginocchia, il che era ironico. Di solito quel cane non si faceva mai toccare da nessuno, talvolta ringhiava addirittura al suo padrone, ora invece se ne stava beato a farsi grattare le orecchie da un perfetto sconosciuto.
Anche Ethan si era accorto del miracolo. «Incredibile! E io che pensavo che fosse un robot privo di emozioni».
«Rocky o Alexander?»
«Tutti e due».
All'improvviso Mac si alzò, biascicò qualcosa somigliante a un "Torno subito" e si allontanò di corsa. Rallentò quando giunse a pochi metri da una figura solitaria che si aggirava ai bordi del campo. Nel momento in cui lo chiamò per attirare la sua attenzione, Isaac si girò di scatto e divenne paonazzo ancora prima che lo avesse raggiunto.
«Está colgado por él*» sentenziò Ethan saccente (*ha una cotta per lui).
Gli diedi il cinque. «Sicuro».
«Comunque». Di colpo il mio migliore amico assunse un'espressione preoccupata. «Sembravi turbata quando sei entrata in palestra. Tutto okay? È per la storia di Josh? Perché sappi che se ti sfiora anche solo con un dito...»
«No, tranquillo. Josh non c'entra». Giocherellai con l'estremità della mia coda di cavallo, riflettendo su quello che era successo nello spogliatoio. Ammesso che fosse effettivamente successo qualcosa. «È che in questo periodo mi capita di fare dei... non so, sogni strani. Anche da sveglia. È difficile da spiegare».
«Tipo dei sogni erotici sul De'Ath con cui hai fatto bum bum?»
Mi colse così alla sprovvista che quasi mi strozzai con la mia saliva. «No, figurati!» mentii indignata, rossa come un pomodoro. «Insomma, okay, ogni tanto sogno quel De'Ath, ma nulla del genere».
«Ah ah. Come no» disse Ethan canzonatorio.
«Non è il punto. Stavolta non ho visto lui. Era un altro ragazzo...»
«Un altro ragazzo con cui hai...»
Assottigliai le palpebre. «Finisci la frase e ci sarà un De'Ath senza apostrofo in questa palestra».
Ethan ridacchiò, mi attirò a sé con un braccio e tentò di schioccarmi un bacio affettuoso sulla guancia, ma lo scansai dandogli una gomitata.
Poco dopo Mac ritornò e si buttò sulla sedia con aria imbronciata, il che mi fece dedurre che la sua chiacchierata con Isaac non fosse andata molto bene.
«Non so proprio come faremo il compito di letteratura. Mi parla a malapena e non ha neppure accettato di venire a sedersi con noi» borbottò con una stretta di spalle. «Magari gli sto antipatico. Boh».
«Eh, l'amour» sospirò Ethan.
Mac roteò gli occhi celesti. «Arya, puoi dargli un pugno?»
«Non eri pacifista?»
«Io sì, tu no».
Appena entrai nella centrale di polizia, il tipico odore di caffè mi pervase le narici. Un paio di agenti mi salutarono al mio passaggio e dovetti anche fermarmi ad abbracciare Felicity, che era stata una delle poche colleghe di mio padre a schierarsi dalla sua parte nella questione del licenziamento di Pablo Ramos.
La mia destinazione però era l'ufficio dello sceriffo, contrassegnato da una grande stella dorata dipinta sul vetro della porta.
«Ehi, piccola delinquente» mi salutò John, drizzandosi sulla poltrona.
La scrivania era disseminata di fascicoli, carte e fotografie mentre sullo schermo appeso al soffitto passava silenzioso il telegiornale. Nelle ultime settimane l'argomento principale era sempre lo stesso: una bomba esplosa in un palazzo di New York durante un importante incontro d'affari. Non ne sapevo granché, ma avevo sentito che fossero morte diverse personalità di spicco ed erano emerse delle prove che sembravano confermare l'ipotesi di un attacco terroristico.
Crollai sul divanetto accanto alla bacheca che usava per affiggere le prove dei casi a cui lavorava. «Mamma te lo ha raccontato».
«Eh già». John sfoderò un ampio sorriso. «Lo hai steso, vero?»
«Più o meno. Ho fatto quello che mi hai insegnato tu».
Un lampo fiero gli balenò negli occhi grigi. Malgrado fosse stato un soldato come mio padre, e lo dimostravano sia le piastrine che portava al collo sia il fisico scolpito, neanche la carriera militare aveva smorzato il suo carattere giocoso e un po' infantile.
Non avevo mai dovuto temere di ricevere una sgridata da lui, anzi spesso era stato il mio complice per scampare alle punizioni dei miei genitori quando combinavo guai particolarmente grossi.
Di conseguenza io, Rhys e persino Eryn lo adoravamo. Non c'erano legami di sangue, ma per noi era nostro zio, l'unico che avevamo.
E, nel profondo, mi rendeva orgogliosa pensare che noi fossimo la sua prima vera famiglia, essendo cresciuto in orfanotrofio.
«Affinché tu lo sappia. Se quel ragazzo dovesse darti di nuovo fastidio, ti basta dirmelo». John appoggiò i gomiti sui braccioli. «Sul serio, fammi un fischio e gli faccio trascorrere una vacanza studio in una cella per tutto il tempo che ti pare».
«Non credo sia molto legale».
«Sono lo sceriffo. Decido io la legge».
Scoppiai a ridere. Lo sguardo mi scivolò sulla bacheca e notai che vi era attaccata l'immagine di una stazione di servizio che riconobbi. Si trovava nei paraggi di Notturn Hall, l'avevo intravista quando Remiel mi aveva riaccompagnata a casa dopo il mio risveglio al castello.
Mi riscossi, tornando a guardare John. «Senti, non è che potresti farmi un favore?»
Lui si abbandonò contro lo schienale. «Lo so già. Ma per quanto vorrei, non posso portare Rhys alla fiera del fumetto al tuo posto domani. Devo occuparmi di una faccenda abbastanza spinosa e vorrei farlo in fretta, altrimenti il sindaco Myers continuerà a rompermi le scatole».
Pronunciò quelle parole con un tono pregno di sarcasmo.
Logan Myers era stato un grande amico e compagno d'armi anche suo, oltre che di mio padre, sebbene avesse lasciato l'esercito molto prima di loro per tuffarsi nel mondo della politica. Da allora il rapporto fraterno che aveva con entrambi si era incrinato, in particolare quello con John, sciogliendosi infine pressoché del tutto in seguito alla morte di papà.
«Di che si tratta?» chiesi incuriosita.
«Top secret, pestiferina. Mi dispiace». John sogghignò nel cogliere la mia occhiata scettica. Non aveva mai avuto segreti con me. «D'accordo, ma non andare a spifferarlo ai tuoi amici. Un uomo è stato ucciso non molto lontano da qui, lungo la strada per Crystal Lake».
Mi sistemai meglio sul divano, accigliata. «Cosa? E com'è possibile che ne stiano già parlando tutti?»
«Perché Logan... pardon, il sindaco Myers vuole tenerlo segreto. Dice di farlo per non scatenare il panico, dato che comunque le dinamiche non sono ancora chiare. Potrebbe anche essere stato un animale selvatico, a giudicare dalle condizioni del corpo». John si grattò i corti capelli castani. «Secondo me, però, non vuole mettere a rischio la sua campagna per le rielezioni. Sono anni che non c'è un omicidio a Notturn Hall, gli farebbe perdere voti».
Mi mordicchiai il labbro, restando in silenzio, ma non potei trattenermi a lungo. «Tu cosa sai di ciò che è successo ai genitori dei De'Ath?»
Il suo volto tradì un guizzo di stupore. «Quello che sanno tutti. Perché?»
«Eleanor ha detto che mio padre si è occupato del caso. Eri il suo partner, quindi suppongo che ci abbia lavorato anche tu». Mi tirai in piedi, muovendomi verso la scrivania. «Potresti mostrarmi il rapporto».
«Frena, tornado». John increspò le sopracciglia. «Non c'è niente di interessante su quel caso. Il solo motivo per cui abbiamo mantenuto una certa riservatezza è che erano coinvolti dei minori già piuttosto traumatizzati, e Charles non voleva esporli troppo alla stampa e all'opinione pubblica».
Continuai a fissarlo con un'espressione irremovibile, le mani piantate sui fianchi. Alla fine John rilasciò un fiotto d'aria dalla bocca, fece ruotare la poltrona e iniziò a digitare sulla tastiera del computer, bofonchiando: «Voi Black siete la mia kryptonite».
Sorrisi trionfante. «Rhys ti sta influenzando con i supereroi, eh?»
«Ci puoi scommettere. Adesso mi sta anche dando in prestito i suoi fumetti e, ogni volta che ci vediamo, mi fa delle domande per accertarsi che li stia leggendo». Scosse il capo. «È diventato un mini-Charles».
Ridacchiando, aggirai la scrivania e lo spinsi di lato per ritagliarmi uno spazio sulla poltrona. Alla fine John si ritrovò obbligato a stare in piedi, con un braccio posato sullo schienale, nel frattempo che esaminavo i documenti sul caso De'Ath che aveva aperto sul monitor.
«Due mini-Charles» si corresse in un sussurro.
Il mio sorriso si allargò, ma lo ignorai. Dal rapporto scoprii che l'amante di Vivianne De'Ath si chiamava Lucius Thorn, era suo fratello adottivo dall'età di sei anni ed erano entrambi degli scienziati al servizio del governo. Era deceduto in ambulanza, dopo che August lo aveva... beh, evirato.
Ma il nome che catturò la mia attenzione fu un altro. «Thomas Stone» ripetei sottovoce. Perché mi suonava così famigliare?
«È l'uomo che ha ottenuto la custodia legale degli orfani De'Ath» spiegò John. «Uno strizzacervelli, penso. So che li ha portati in una comunità per ragazzi problematici fuori dagli Stati Uniti».
Esitai per un istante. «Tu li hai conosciuti da piccoli? Erano davvero così... disturbati?»
«Non ho avuto a che fare con i bambini, ma non mi sorprenderebbe considerato quello che devono aver passato».
Lo sbirciai di traverso. Una morsa di senso di colpa mi attanagliò al pensiero che stavo violando la privacy dei De'Ath, ma dovevo capire il ruolo di mio padre in quella vicenda. Ne avevo bisogno. «August era violento anche con loro?»
«Non ne ho idea. Ma da uno psicopatico che sfracella la testa alla moglie e poi si mette a bere un tè in soggiorno, non mi aspetto che sia stato un genitore modello».
Arricciai il naso disgustata, provando un moto di compassione per Remiel e i suoi fratelli. Rividi nella mia mente il bellissimo ragazzo biondo addormentato nel letto, le orribili cicatrici che gli segnavano la gola e la fermezza con cui mi aveva impedito anche soltanto di sfiorargliele nella doccia.
Non da solo.
«Abbiamo finito, piccola detective?» John mi fece un cenno e si impadronì nuovamente della propria poltrona.
Annuii, un po' amareggiata. Ogni singola prova sul caso De'Ath sembrava essere d'accordo con la versione ufficiale, eppure non ero ancora riuscita a scrollarmi di dosso il dubbio che mi assillava. Mio padre era stato investito poco dopo averlo chiuso, un tempismo che puzzava terribilmente di insabbiatura. Non potevo essere l'unica ad avere quel sospetto.
«John?»
«Mmh» mugolò, senza smettere di sfogliare i fascicoli sulla scrivania.
«Sei assolutamente certo che sia stato un incidente?»
John si bloccò, sollevando lo sguardo su di me. Era impassibile. «No».
Sussultai leggermente, presa in contropiede dalla sincerità della sua risposta. «Se ci fosse qualcosa sotto, indagheresti?»
«Ovvio».
«E me lo diresti?»
«No». Lo osservai truce, ma per la prima volta lo sguardo di John era serio. Molto serio. «E vuoi sapere il motivo? Perché sei la figlia del mio migliore amico, del fratello che avrei seguito anche tra le fiamme dell'inferno. Non ho protetto lui, ma proteggerò voi. Te, tua sorella, Rhys, vostra madre. Anche Balto».
«Ma...»
«Niente ma. Ora vai a fare l'adolescente». John accennò alla porta con il mento. «Ci vediamo domenica, combinaguai. E chiudi la porta, per favore».
Gli scoccai un'occhiataccia e feci per uscire, ma poi mi bloccai. «Perché domenica?»
«Tua madre mi ha invitato a pranzo. Leggasi: ordinato di venire». John sollevò le mani in segno di resa. «Al boss non disobbedisco».
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top