𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 10 (Kathlyn)
"𝔏𝔞 𝔪𝔢𝔫𝔱𝔢 𝔬𝔯𝔡𝔦𝔫𝔞,
𝔦𝔩 𝔠𝔲𝔬𝔯𝔢 𝔠𝔬𝔪𝔞𝔫𝔡𝔞"
꧁꧂
Ero felice di essere finalmente fuori dal castello.
Dato che gli operai e i muratori erano in pausa, perciò non dovevo controllare che non sconfinassero in aree della casa a cui preferivamo che non avessero accesso, ero stata libera di accompagnare Callum in città e ne ero emozionata. Avevo una gran voglia di esplorare Notturn Hall per la prima volta, dato che da piccoli ci era sempre stato vietato persino di uscire di casa.
Inoltre, anche se avevo meno problemi di autocontrollo rispetto ai miei fratelli, il passato che riecheggiava tra quelle mura a volte sembrava schiacciarmi sotto il peso di tutti i suoi ricordi. Faceva ancora male pensare a quanto avevamo perso, per colpa dei nostri genitori.
Lanciai un'occhiata fugace a Callum, seduto al posto del conducente. Indossava una camicia bianca immacolata, senza neanche una grinza, con una cravatta scura annodata alla perfezione. I capelli, di un nero lucido, erano tirati indietro nella solita maniera impeccabile e si era accorciato la barba di recente. Non c'era il minimo dettaglio fuori posto, persino il gradevole profumo di ribes che emanava era dosato in modo tale da renderlo accattivante, senza però risultare troppo pungente.
Era incredibile come riuscisse a trovare il tempo per una cura così maniacale del proprio aspetto, nonostante fosse pieno di cose da fare.
«Che c'è?» chiese curioso, accorgendosi del mio sguardo.
Sorrisi. «Nulla. Allora, chi hai detto che è questo hacker?»
«Un certo Will Greene. È stata la Bailey a darmi il suo nome, a quanto pare faceva dei lavoretti illegali per suo padre già da quando aveva quindici anni».
Mi mordicchiai una pellicina attorno all'unghia dell'indice, intanto che continuavo a squadrarlo di soppiatto. Il suo viso non tradiva nessuna emozione, solo la distaccata gentilezza che conoscevo bene, eppure non ero convinta. «Non me ne hai ancora parlato da quando l'hai incontrata. Che impressione ti ha fatto?»
Callum scrollò le spalle. «Intelligente, ma sfrontata. Credo che andrebbe d'accordo con un paio di nostri fratelli, in quanto a ego».
«Ti fidi?»
«Per niente».
Dopo aver parcheggiato sul ciglio della strada, Callum scese subito dall'auto e si affrettò ad aprirmi lo sportello. Lo ringraziai, anche se non potei fare a meno di roteare gli occhi divertita. Gli avevo ripetuto fino allo sfinimento che la sua galanteria, per quanto apprezzata, non era necessaria con me, ma avevo dovuto rassegnarmi al fatto che erano gesti così spontanei per lui che non riusciva a farne a meno.
Mentre camminavamo uno accanto all'altro, la mia attenzione venne catturata dalla semplice bellezza della cittadina. Graziosi negozietti, ristoranti con tavolini all'aperto, qualche bottega dall'aria antiquata e persino un centro commerciale ancora addobbato con le decorazioni natalizie davanti al quale rallentai per ammirare oltre le vetrine.
«Se vuoi, facciamo un giro» mi propose Callum.
«No, verrò con Sky un altro giorno». Scoppiai a ridere quando la sua espressione tradì un lampo di sollievo. Malgrado il suo stile elegante, sapevo che detestava essere trascinato a fare shopping. «Ho pietà di te per stavolta».
Arrivammo davanti a una palazzina in fondo alla via. Aveva la vernice dei balconi scrostata e gli stretti gradini che conducevano all'ingresso erano crepati, ma l'atrio compensava con un bellissimo pavimento a mosaico e un lampadario a gocce sul soffitto.
Controllai l'ora sull'orologio a muro appeso vicino alle buchette della posta. «Dovrebbero aver finito di pranzare, ormai. È strano che io sia in ansia per il loro primo giorno?»
Callum arcuò un sopracciglio. «No, è strano che tu non sia terrorizzata».
«Smettila!» esclamai, cominciando a salire le scale. «Dovresti avere più fiducia in loro».
«Io ho tantissima fiducia in loro, ma mi piace essere pronto a quando la deluderanno. Cosa che di solito fanno».
Gli diedi un pugnetto sul braccio a mo' di rimprovero. «Puoi nasconderlo quanto ti pare. Tanto so il vero motivo per cui li hai mandati a scuola».
«Prevenire un massacro?» replicò ironico.
«Dare a loro le possibilità che non abbiamo avuto noi».
Callum ammutolì e prese a sistemarsi i polsini della camicia. Anche se la sua espressione era indecifrabile, lo conoscevo così bene che potevo indovinare i pensieri che gli passavano per la mente.
Avrei voluto ripetergli per l'ennesima volta di smettere di colpevolizzarsi di tutto, ma sarebbe stato inutile. Era fatto così.
«Parlando delle nostre palle al piede» riprese il mio gemello. Lo fulminai con un'occhiata torva, anche se non trattenni un sorrisetto. «Hai saputo niente di Nicholas? È da stamattina che non ho sue notizie».
«Mi ha mandato un messaggio. Ha detto che ha bisogno di un paio di giorni per conto suo e di raccomandarsi con il rompiballe di non cercarlo». Poi aggiunsi in un tono di innocente curiosità: «Idee su chi possa essere il fantomatico rompiballe?»
«Quel ragazzo sta diventando ingestibile».
Evitai di commentare che quel ragazzo aveva solo un anno in meno di noi. Capivo la sua preoccupazione, e la condividevo, ma Nik non era il tipo che accettava di essere tenuto sotto una campana di vetro o che era disposto a starsene buono ad aspettare in panchina.
«È sopravvissuto senza di noi per quasi sei anni. Se la caverà» lo rassicurai, ostentando una sicurezza che non avevo. «E comunque sono piuttosto certa che sia con Seth».
Lui abbozzò un sorriso sarcastico. «Adesso sono molto più tranquillo, grazie».
Arrivati al terzo piano, imboccammo un corridoio pieno di porte e ci fermammo davanti all'interno 7C. Callum chinò il capo, raddrizzò con la punta della scarpa lo zerbino di benvenuto su cui spiccava la scritta "Se devo pagare, non sono in casa", poi bussò.
Ridacchiai. «Sei incorreggibile».
Ad aprirci fu un ragazzo che doveva avere all'incirca la nostra età, sebbene i suoi lineamenti fosse ancora acerbi e la statura minuta non lo aiutava ad apparire più grande. Una zazzera di folti capelli castani, tendenti al nero, gli incorniciava il volto allungato.
Malgrado fosse stato avvertito del nostro arrivo, sgranò gli occhi verde smeraldo con evidente stupore e rimase imbambolato a fissarmi come se fossi una divinità scesa in terra.
«Will Greene?» esordì Callum con una punta di fastidio.
Lui trasalì. Ebbi la sensazione che si fosse accorto a malapena della sua presenza. «Sì, eccomi, sono io. Cioè, so che sapete che sono io. È ovvio che sia io, dato che qui ci abito solo... io». Si schiarì la gola, imbarazzato, quindi si scansò per farci passare. «Prego».
Callum mi cedette il passo, permettendomi di entrare per prima, quindi mi seguì e richiuse la porta dietro di sé. Lo vidi irrigidirsi appena il suo sguardo iniziò a esaminare con circospezione il soggiorno, che era immerso nel caos totale tra vestiti buttati sul pavimento, montagne di libri barcollanti e apparecchi elettronici sparpagliati ovunque.
A giudicare dall'immagine in pausa sullo schermo della tv collegata a una console, lo avevamo interrotto nel mezzo di una partita a uno di quei giochi sparatutto. Avevo sempre ritenuto bizzarro che gli umani condannassero e punissero la violenza, eppure al tempo stesso ne erano così affascinati da farne larghissimo uso nella finzione per divertimento.
«Wow!» esclamò Will, con le iridi ancora incollate su di me. «Avevo sentito che eravate... insomma... ma non pensavo...»
Mio fratello mi si avvicinò con fare protettivo e sibilò corrucciato, facendolo sobbalzare di nuovo: «Che cosa?»
«Nulla, nulla».
Emisi un sospiro esasperato. Ero abituata a quelle scenate; alla maggior parte dei maschietti della nostra famiglia non importava che sia io che Sky possedessimo i loro stessi poteri, sentivano comunque l'esigenza di farci da guardie del corpo. «Io mi chiamo Kath, comunque. Questo invece è Callum. Ci è stato detto che sei una specie di mago dei computer».
«Ehm sì, abbastanza, me la cavo. Mi sto laureando». Con le guance arrossate, Will aggiunse in un soffio: «In informatica».
Le mie labbra si piegarono all'insù. I suoi modi impacciati mi ricordavano tanto Isaac, probabilmente per questo mi ritrovai a provare un moto di tenerezza. «Sì, l'avevo capito».
Diventato ancora più paonazzo, Will si affrettò a liberare un paio di poltrone dagli scatoloni vuoti delle pizze, ci fece cenno di accomodarci e infine prese posto sul divano, ritto come un palo. Io mi sedetti, invece Callum rimase immobile a guardare la confusione che lo attorniava. Aveva la mascella contratta, le braccia rigide lungo i fianchi e le dita della mano destra che guizzavano in preda a un tic nervoso.
«Allora, per che cosa vi serve il mio aiuto?»
«Dovresti recuperare per noi dei file all'interno di un pc». Mi caricai la borsa sulle ginocchia, la aprii e tirai fuori il portatile che era appartenuto a mia madre. «Questo, per l'esattezza. Puoi farlo?»
Will sbatté le palpebre, perplesso. «Tutto qui? Cinquemila dollari per bypassare un sistema di sicurezza e ficcanasare un po'?»
«In realtà, ci sarebbe un'altra cosa. Una precauzione, niente di che».
«Ah, ecco! C'è sempre la fregatura». Il ragazzo aggrottò la fronte e accennò a mio fratello, che nel frattempo aveva preso ad armeggiare in maniera compulsiva con il nodo della cravatta. «Ehm, sta bene?»
Mi sforzai di mantenere un'espressione pacata. «Sì, solo un momento». Mi alzai e sfiorai delicatamente il gomito di Callum, che si riscosse con un lieve sussulto. «Tutto okay?» bisbigliai apprensiva.
Lui annuì, allargandosi il colletto della camicia come se faticasse a respirare. Non riusciva a smettere di esaminare il disordine della stanza in modo agitato, addirittura impaurito. «Ce la faccio».
«Se vuoi uscire...»
«Ce la faccio» ripeté categorico, più rivolto a sé stesso che a me. Dopo aver preso qualcosa dalla tasca dei pantaloni, mi superò e depositò una boccetta di vetro sul tavolino. «Bevila» ordinò a Will, che scrutava sospettoso il liquido verdognolo nella fiala.
Non mi era sfuggito il tremore nei suoi gesti, né il tono di voce incrinato, ma decisi di non insistere. Per quanto adorassi il mio gemello, ammirandolo a tal punto che fin da bambina il mio obiettivo era stato essere alla sua altezza, era innegabile che fosse peggio di un mulo testardo.
«È una pozione magica?» chiese Will entusiasmato.
«Non è magica». Soffiai via dalla faccia un ciuffo ramato. «Ha soltanto un effetto stordente, in particolare agisce sulla memoria. Vogliamo assicurarci che tu non possa ricordare nulla di ciò che potresti trovare nel computer, ma non compromette le tue capacità intellettive o motorie».
«È pericolosa?»
Scossi il capo. «Al massimo potrebbe farti venire un po' di mal di testa».
Will però era ancora dubbioso. «Cosa c'è dentro? E se fossi allergico?»
«Hai qualche allergia?» obiettò Callum secco.
«Non che io sappia, ma non ho mai bevuto non-magica pozione inquietante».
Per un istante mio fratello non si mosse, poi afferrò l'ampolla, la stappò e ne riversò a forza metà del contenuto in gola al ragazzo, che tentò invano di dibattersi alla sua presa finché non venne liberato.
Lo sguardo di Will divenne annebbiato. Si studiò i palmi delle mani, schioccò la bocca e commentò in tono cantilenante: «Mi sento così leggero che potrei volare».
"Fantastico, gliene ha data troppa".
Fulminai Callum con un'occhiata di disapprovazione, alla quale rispose con una stretta di spalle mentre riponeva in tasca la boccetta. Era strano. Anche se era sempre stato piuttosto... pratico negli approcci con le altre persone, di solito tendeva a non perdere la calma.
Ci vollero almeno una decina di minuti per convincere Will a mettersi all'opera, e soprattutto a persuaderlo che buttarsi dalla finestra non era la strategia migliore per verificare se potesse davvero volare.
Ma, alla fine, liberò la scrivania dalle cartacce e dai gadget di una saga che non conoscevo -c'erano astronavi, robot e personaggi con spade luminose-, quindi cominciò a maneggiare con il computer, le dita che cliccavano abili sulla tastiera.
A differenza di mio fratello che non lo perdeva d'occhio, non tentai neanche di capire cosa stesse facendo. La mia conoscenza in materia di tecnologia, o qualsiasi cosa che implicasse dei numeri, era penosa. Iniziai a camminare per il piccolo soggiorno, incuriosita.
Notai che sulle mensole c'erano tantissime fotografie, la maggior parte delle quali ritraevano un bimbo che a poco a poco diventava adolescente, spesso insieme a un'anziana signora dall'aria gentile. Erano immagini allegre, spensierate, piene di affetto, come quella in cui la nonna aiutava il nipotino a stendere l'impasto col mattarello.
Esperienze semplici e comuni che tutti vivevano almeno una volta con i propri cari.
Tutti, tranne noi.
«Cattive notizie» annunciò Will, facendomi girare di scatto. «L'hard disk c'è ancora e funziona, ma è stato ripulito alla grande. Non credo di poter recuperare nulla. È rimasto un unico documento, "Hodie mihi, cras tibi"... da brividi».
Io e Callum ci fissammo. Avevamo avuto lo stesso pensiero: quella era la frase incisa sulla lapide di nostra madre.
Mi avvicinai e appoggiai un gomito sullo schienale della sedia di Will, sbirciando lo schermo. Quando il mio gemello si piazzò dall'altro lato, chino in avanti, il ragazzo fece una smorfia e gli disse: «Non è che potresti stare lontano, per favore? Mi fai paura».
Poi si voltò verso di me, con un sorriso da ebete. «Tu no. Sei più gentile».
«Grazie. Glielo dico sempre anch'io» ammiccai scherzosa.
Callum sbuffò. «Apri quel file e basta».
Il documento conteneva un lungo testo. Già dal primo verso riconobbi la filastrocca che ci era stata insegnata da piccoli, ma proseguendo scoprii che era una versione più completa. Invece di terminare con i due innamorati che, massacrate entrambe le loro famiglie, coronavano il proprio amore con il tanto agognato matrimonio, narrava anche della felicità della loro vita coniugale.
Era durata alcuni anni, ma poi il mancato arrivo di un figlio aveva fatto cadere la sposa nella disperazione.
Il marito allora, desideroso di risollevare l'animo dell'amata, aveva pregato gli dèi affinché concedessero quella benedizione. Ma essi erano adirati per i peccati compiuti dalla coppia pur di stare insieme e, indignati che avesse osato rivolgersi a loro, lanciarono una maledizione.
Il grembo della donna divenne fertile, ma vi venne piantato il seme di un mostro.
Man mano che l'essere suppurava dentro di lei, divenne sempre più debole e malata finché all'ottavo mese di gravidanza morì. L'uomo, che credeva di aver perso anche il bambino, rimase stupito e orripilato dal vederlo uscire da solo dal corpo morto della moglie, dilaniandole la pancia con gli artigli.
Compreso di aver generato un mostro, egli tentò di affogare il neonato nelle acque del Tevere. Dato che però era immune alla morte, poiché dalla morte era nato, decise di abbandonarlo negli anfratti più remoti di una caverna poco distante e -munito di piccone- provocò una frana per sigillarne l'entrata.
Secondo delle oscure leggende, ancora era possibile udire i lamenti della creatura provenire dalle viscere della terra mentre attendeva di essere liberata dalla sua eterna prigionia.
«Che storiella allegra» commentò Will scioccato. «E io che non ho ancora superato il finale di How I met your mother».
Aggrottai la fronte ma, prima che potessi domandargli di cosa stesse parlando, Callum indicò il monitor. «Kath. Leggi questo».
Nella seconda pagina, in fondo, erano state aggiunte delle frasi che non sembravano collegate al resto.
Alla mia comparsa, gli dèi non poterono che tremare.
Loro che eppure si credevano onnipotenti.
Con code, pinne e piume ho fatto scappare.
-Chi sono?
«È un indovinello».
Callum posò gli occhi grigi su Will. «Sei intuitivo, eh».
Sbuffai. Ero consapevole che non fosse colpa sua, che non potesse farci niente; il disordine lo innervosiva e riuscire a mantenere il controllo doveva costargli una fatica immensa, ma a volte diventava davvero antipatico.
Anche se tollerare il suo malumore era comunque meglio dell'alternativa, certo...
«Ne discuteremo a casa» tagliai corto. «Ora dobbiamo andare. Grazie di tutto, Will».
Il ragazzo doveva essere ancora intontito dall'infuso che gli avevamo somministrato, a giudicare dall'espressione sognante che si dipinse sul suo volto. «Posso baciarti?» mi domandò d'un tratto, stralunato. «Tanto lo scorderò».
Nell'istante in cui vidi la faccia di Callum rabbuiarsi, capii che sì, era proprio ora di andare. Non mi pareva il caso di mettere ulteriormente alla prova la sua pazienza.
Dopo aver fatto una copia del file su una chiavetta, rimisi il portatile nella borsa, ringraziai di nuovo Will e uscimmo.
Appena fummo fuori dal palazzo, all'aria aperta, Callum esalò un respiro profondo come se fosse stato in apnea fino a quel momento. Sebbene fosse ancora piuttosto teso, aveva smesso di rassettarsi in maniera maniacale i vestiti e stava recuperando un po' di colorito.
«Potevi risparmiarti la parte del fratello geloso» lo rimbeccai.
«Protettivo, non geloso». Mi fece un mezzo sorriso. «Sono pur sempre il più grande, no?»
«Siamo gemelli».
«Sono nato prima».
«Di sette minuti» replicai esasperata.
Il mio telefono prese a vibrare nella tasca. Lo afferrai e mi accigliai nel leggere di una chiamata in arrivo da un numero sconosciuto. Mi fermai.
«Pronto?» risposi con cautela, facendo cenno a Callum di aspettare.
«Kathlyn De'Ath? Scusi per il disturbo». Era una voce femminile, dal suono cordiale. «Chiamo dalla segreteria della scuola. Dovrebbe venire il prima possibile».
Un groppo mi si incastrò in gola. «Oh, certo». Mi allontanai di qualche passo sul marciapiede, esitando. «I miei fratelli hanno fatto... qualcosa di grave?»
Come uccidere un insegnante, o un compagno.
Ero sicura che per gli umani l'omicidio rientrava nella definizione di qualcosa di grave.
«No, non si preoccupi. Solo una piccola lite, ma i suoi fratelli stanno tutti bene».
Nessun dubbio su questo.
Riattaccai e ritornai da Callum, che scosse la testa. «Avevo sul serio quasi pensato che sarebbero resistiti per un giorno intero».
Senza proferire parola, allungai una mano e gliela passai con foga tra i capelli mori. C'erano poche cose al mondo che odiava di più di venire spettinato.
Callum si ritrasse. «Perché? Che ho fatto?» protestò stupefatto.
«Hai detto alla scuola di contattare me. Traditore». Non aggiunsi altro e mi incamminai da sola verso la fermata dell'autobus, nella direzione opposta alla sua.
«Non vuoi che ti accompagni?» mi gridò dietro Callum. Era ovvio che stesse reprimendo a stento una risata.
Gli rivolsi un cipiglio torvo. «Se non ti volessi così bene, ti odierei».
La preside mi osservava con uno sguardo indagatore da dietro i suoi occhiali a mezzaluna, le braccia incrociate sul petto e i capelli biondi raccolti in una crocchia sopra la nuca. Malgrado il barlume di solidarietà che era trapelato dal suo tono mentre mi esponeva i fatti avvenuti all'ora di pranzo, continuavo a sentirmi piuttosto in soggezione di fronte a lei.
La vaga somiglianza con mia madre, perlomeno nell'atteggiamento, di certo non contribuiva a tranquillizzarmi.
«Sono profondamente dispiaciuta per quello che è successo» esordii, muovendomi irrequieta sulla sedia. «I miei fratelli purtroppo hanno delle esigenze particolari...»
«Sì, sono stata informata dei loro problemi».
Una risatina alle mie spalle interruppe la nostra conversazione e sentii Joel che sussurrava, neanche troppo piano: «Non credo che ne conosca neanche la metà».
«Taci» sibilò Remiel a denti stretti.
«Che noia che sei. Ecco perché Nik è il mio preferito».
«E io? In che posizione sono?» chiese Gabriel con una sfumatura eccitata.
«Come dicevo». La preside scoccò a tutti e tre un'occhiata di fuoco. «Comprendo che la vostra situazione famigliare sia molto difficile...» Joel ridacchiò di nuovo, ma ebbe la decenza di stare zitto. «Questo però non giustifica il loro comportamento. Nessuna forma di violenza è ammessa nella mia scuola».
Gabriel si protese in avanti, la mano alzata. «Vale anche per le macchinette, giusto?»
A quanto mi era stato riferito, lui era il solo a non essere coinvolto nella rissa. Lo avevano convocato per aver distrutto un distributore automatico di merendine, lasciando poi un biglietto di scuse con tanto di firma "Xoxo Gabe" accanto al disegnino di un teschio.
Come si potesse combinare una simile quantità di casini nell'arco di poche ore rimaneva un mistero.
La donna lo ignorò e proseguì: «Ho accettato l'iscrizione dei suoi ragazzi e darò loro tutto il sostegno psicologico di cui necessitano, ma ciò non deve andare a discapito dei miei altri studenti».
Annuii. Anche se sapevo benissimo che aveva ragione, dovetti lottare con me stessa per impedire al mio istinto protettivo di prendere la meglio. Con scarso successo. «Però lei ha ascoltato soltanto una campana. Magari non è stata tutta una loro responsabilità».
«Josh Howard stava avendo un bisticcio con la sua ex fidanzata, un tipico dramma adolescenziale. E suo fratello Alexander lo ha aggredito, con l'appoggio degli altri due qui presenti. Adesso lui non ha un graffio, invece il signorino Howard è in ospedale con una costola fratturata». La preside mi rivolse un sorriso bonario, che tuttavia mi apparve alquanto derisorio. «È chiaro chi sia dalla parte del torto, non trova?»
«In pratica siamo una gang di delinquenti irrecuperabili» commentò Joel con un sospiro melodrammatico. «Per la cronaca, tecnicamente io sono l'unico che non ha fatto nulla».
Remiel si accigliò. «Giusto, sei solo stato arrampicato su un albero a goderti lo spettacolo!»
«È l'esatta definizione di non fare nulla, reginetta della pace».
«Secondo me, state considerando la cosa da una prospettiva troppo negativa» disse Gabriel solenne. «Non è morto nessuno! Oggi è stato un successone!»
Mi voltai di scatto. «La volete smettere?» sbottai spazientita, facendoli ammutolire di colpo.
Spaparanzato con le gambe distese davanti a sé, le cuffie calate attorno al collo, Alexander sollevò appena la testa, poi tornò a dedicarsi all'interessantissima attività di girarsi i pollici.
Non sperai nemmeno per un secondo che sarebbe stato disposto a fornire una sua spiegazione a quello che aveva fatto -ammesso che ne avesse una valida. Lo conoscevo troppo bene.
Mentire non era nella sua natura, quindi qualsiasi cosa fosse uscita dalla sua bocca sarebbe stata senz'altro la verità... ma sarebbero servite delle pinze belle grosse per cavargliela fuori. E io non le avevo.
Tornai girata verso la preside. «Scusi» mormorai, avvertendo il calore che mi si propagava sul viso. «E la ragazza coinvolta, invece?»
«Sostiene che sia stato un incidente». La donna fece un movimento brusco con la mano. «Ma non è molto affidabile. Ha da sempre la tendenza a cacciarsi nei guai e, rimanga tra di noi, non brilla per la sua sincerità».
Con la coda dell'occhio scorsi Remiel che, impettito, sembrava in procinto di obiettare. Per fortuna si trattenne, rilasciandosi cadere all'indietro contro lo schienale.
«Siccome era il loro primo giorno, stavolta non prenderò provvedimenti né per il distributore né per chi non ha avuto un ruolo attivo nella rissa. Per quanto riguarda Alexander, i genitori di Josh Howard hanno deciso di non sporgere denuncia, ma pretendono che venga punito com'è giusto che sia».
Alexander si irrigidì, dardeggiando le iridi di ghiaccio sulla preside. In maniera meccanica Remiel e Gabriel si erano stretti un poco a lui, mentre Joel aveva assunto un'espressione di sfida del tipo "Dovete solo provare a toccare uno di noi".
«Punire?» ripetei diffidente. Mi era facile immaginare quali ricordi avesse innescato nelle menti dei miei fratelli quella parola, perché erano gli stessi miei.
«Qualche ora di lavori socialmente utili che dovrà scontare insieme alla signorina Black...»
«Arya non ha fatto niente di male!» esplose Remiel sulla difensiva.
«Ha colpito anche lei il signorino Howard». La preside emise un sospiro scocciato. Era evidente che noi De'Ath l'avessimo portata ormai al limite della sopportazione. «In alternativa, i genitori del ragazzo sono aperti anche alla possibilità che Alexander chieda pubblicamente scusa, in tal modo il suo curriculum scolastico rimarrebbe immacolato».
Scoccai uno sguardo fugace ad Alexander, il quale reagì inarcando un sopracciglio. Feci un sorriso forzato alla donna e risposi: «Vada per i lavori socialmente utili».
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top