𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 7 (Joel)

"𝔈 𝔰𝔢 𝔱𝔲 𝔳𝔬𝔯𝔯𝔞𝔦 𝔩𝔞 𝔭𝔦𝔬𝔤𝔤𝔦𝔞,
𝔬𝔯𝔡𝔦𝔫𝔢𝔯𝔬̀ 𝔞𝔩 𝔠𝔦𝔢𝔩𝔬 𝔡𝔦 𝔭𝔦𝔞𝔫𝔤𝔢𝔯𝔢 𝔭𝔢𝔯 𝔱𝔢"

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Essere ciò che eravamo comportava molti di quelli che la gente comune avrebbe considerato degli svantaggi, ma c'erano dei lati positivi che avrebbero fatto invidia persino ai moralisti: eravamo attraenti.

E no, non solo dal punto di vista estetico, noi letteralmente attiravamo le persone.

La nostra presenza fungeva da calamita che, volenti o nolenti, catturava l'attenzione degli umani come la falena era richiamata dalla luce, anche se poi riuscire a sfruttare il nostro fascino naturale era una dote soggettiva.

Alcuni miei fratelli la ritenevano una tortura, altri una goduria; io rientravo nella seconda categoria. O almeno di solito mi piaceva, ma gli sguardi che ci inseguivano in ogni corridoio e in ogni angolo della scuola avevano cominciato a irritarmi già dopo una decina di minuti. Mi facevano sentire un fenomeno da baraccone ed era una sensazione che conoscevo così bene da esserne disgustato.

Promisi a me stesso che, al prossimo che mi avrebbe indicato, gli avrei spezzato le dita a una a una. A meno che non fosse stata una ragazza intenta a lodare la mia bellezza, in quel caso avrei potuto fare un'eccezione.

«C-ci guardano tutti» balbettò Isaac a fil di voce. I suoi occhi verdi traboccavano di terrore e continuava a stritolare la bretella dello zaino dal nervosismo.

Emisi un verso sarcastico, appoggiandomi con la schiena contro il muro fuori dalla segreteria. «Grazie per l'illuminazione, Nostradamus, non ce n'eravamo accorti».

«Ignoriamoli». Remiel consegnò a ciascuno il foglietto con gli orari delle lezioni che aveva appena ritirato. «La metà delle cose che sanno su di noi sono cavolate ed è meglio così».

Sorrisi, pensando a quanto fosse ironico. La storiella che era stata rifilata alla stampa e all'opinione pubblica era una versione molto edulcorata del nostro passato, eppure era bastata a scatenare uno scandalo. Chissà come avrebbero reagito, se avessero scoperto che la verità era di gran lunga peggiore.

«Che rottura» gemette Sky. «Dovrò stare da sola tutta la mattina».

Era vero. Poiché aveva un anno in meno, era l'unica che non avrebbe condiviso alcun corso con noi. Per il resto avevamo tutti e cinque la stessa età, una cosa che sarebbe stata difficile da spiegare senza spifferare gli affari nostri, ma era un problema che avrei delegato agli altri.

Mi avvicinai alla mia sorellina e la cinsi con un braccio. «Ehi, non dirmi che la piccola Barbie ha paura degli umani brutti e cattivi» le sussurrai dispettoso all'orecchio.

Sky mi scansò con una gomitata, rivolgendomi una smorfia truce che mi fece ridacchiare. Quando si arrabbiava, la sua bocca assumeva una piega buffa che me la ricordava un po' da bambina ed era adorabile.

Remiel assunse un'espressione seria. «Mi raccomando. Stiamo per conto nostro, non diamo confidenza a nessuno e non parliamo più del necessario». Mentre ci squadrava per accertarsi che avessimo capito, ebbi l'impressione che si fosse soffermato in particolare su di me.

Sky rispose con una scrollata di spalle. Isaac annuì due o tre volte, chiaramente sollevato dall'idea che il nostro obiettivo fosse non socializzare, piuttosto che il contrario.

«Certo, capitano» ammiccai. «Ma forse dovresti ricordare le regole anche alla diva laggiù». E accennai un punto dietro di lui.

Remiel si girò, per poi rimanere sgomento.

Gabriel stava saltellando di qua e di là per il corridoio, strillando saluti agli studenti che passavano o stringendo loro la mano con tale foga che mi stupiva che non avesse ancora staccato un arto a nessuno.

«Salve, bella fanciulla!» gridò, prodigandosi in un profondo inchino che fece oscillare il ciondolo sul suo petto. «Io sono Gabe. Sono nuovo in questa scuola, anzi in realtà non sono mai stato in una scuola in vita mia e sono emozionatissimo. Tu come ti chiami? Scommetto un nome tipo... Mary. Hai la faccia da Mary. Ti va di diventare amici, Mary?»

«Dovremmo essere ancora in tempo per fingere che non sia nostro fratello. Possiamo dire che lo abbiamo raccattato per strada» proposi.

Sky smise di fissare Gabriel, che adesso stava dando degli opinabili suggerimenti a un ragazzo sul colore migliore da abbinare al suo maglione bordeaux, e mi scoccò un'occhiata. «Assurdo. Sono d'accordo col rompiscatole».

Il suono della campanella fece sobbalzare Isaac come una molla e si tappò le orecchie con i pugni. Avere un udito sensibile era parte della nostra natura, ma sapevo che lui aveva le sue ragioni per essere spaventato dai rumori forti.

Remiel si affrettò ad andare a recuperare Gabriel, lo acciuffò per il polso e lo trascinò via a forza, ignorando le sue lamentele. «Dove si sarà cacciato Alexander?» domandò, dopo essere tornato indietro.

«Non importa. Sa che dobbiamo riunirci nella mensa per il pranzo. Non mancherà... spero». Sky si mise la borsa a tracolla, liberando i ciuffi biondi che si erano impigliati sotto la cinghia. «Io vado. Non fate troppi casini, maschiacci».

La vidi esitare per un istante, quindi prese ad allontanarsi. Nonostante la determinazione sul suo volto, ero sicuro di aver percepito una punta d'ansia nel suo tono. Doversi separare da noi la preoccupava... o magari ero io a detestare di non poter essere nei paraggi per proteggerla.

«Secondo voi ci saranno davvero i classici atleti bulletti che provano a ficcarci la testa nel water? O che ci minacciano di rinchiuderci nell'armadietto, se non accettiamo di fare i compiti per loro?» obiettò Gabriel, trotterellando sul posto per l'eccitazione. «Che si fa in quel caso? Ci facciamo pestare o li man...»

«Zitto!» ringhiò Remiel. «Muoviamoci. Alla prima ora abbiamo letteratura in comune».

«Andate. Io vi raggiungo». Senza dargli il tempo di protestare, mi indirizzai nella direzione opposta alla loro e svoltai l'angolo dietro il quale era sparita Sky.

Seguire il suo odore fino all'aula fu semplice, più complicato invece era tenermi a una distanza tale da evitare che fosse lei a fiutare me. Aveva appena varcato la soglia, fregandosene di avere tutti gli occhi puntati addosso. Pareva piuttosto tranquilla e ciò mi rassicurò abbastanza da convincermi ad andarmene, anche se il ragazzino con una felpa gigantesca accanto a cui si era seduta mi fece storcere il naso.

Mi augurai che non ci provasse con mia sorella, altrimenti Nicholas avrebbe giocato a golf con la sua testa. Dovevo ammettere però che la prospettiva era allettante, almeno avrebbe spezzato la noiosa quiete di Notturn Hall.

Quando raggiunsi la mia classe, trovai Remiel e Isaac appostati fuori dalla porta socchiusa. All'inizio credetti che mi stessero aspettando, ma poi li udii sussurrarsi a vicenda: «Vai tu. No, non voglio, prima tu».

«Muovete le chiappe, fifoni!» sogghignai, spingendoli dentro con non troppa delicatezza.

Entrai a mia volta. Subito venni accolto dal chiacchiericcio insopportabile dei nostri compagni che, già sistemati ai loro posti, si comportavano come se fossimo animali da zoo finiti magicamente al loro liceo.

Li odiavo.

Avrei voluto divorarli uno dopo l'altro. Poi però Callum mi avrebbe fatto una delle sue interminabili ramanzine e non ne avevo proprio voglia, perciò mi limitai a borbottare in modo che mi sentissero: «Sì, siamo belli. Non è una novità».

Superai i miei fratelli e andai a buttarmi nel banco all'angolo in fondo, vicino alla finestra. Remiel abbozzò un sorriso imbarazzato, sussurrando un debole "ciao" rivolto a nessuno in particolare, intanto che si affrettava a venirmi dietro.

Isaac invece non si mosse. Sembrava che stesse misurando la distanza che lo separava da noi, una manciata di metri pieni di gente che lo scrutavano e parlottavano tra di loro. Deglutì e prese ad avanzare a passo di lumaca, ma inciampò in uno zaino posato a terra.

Ci fu una risatina generale a cui mi unii anch'io. A mia discolpa, era davvero assurdo che riuscisse a essere così imbranato e goffo, nonostante fosse dotato di riflessi sovrasviluppati.

«La pianti?» mi rimbeccò Remiel, alzandosi. «Vado ad aiutarlo».

Ma non fu necessario. In quello stesso momento, infatti, un ragazzo moro con un berretto in testa sgombrò la sedia alla sua destra dalla pila di libri e la indicò. «Qui è libero, se non ti dà fastidio stare in prima fila».

Isaac colse l'occasione al volo e, tremante e paonazzo, ci si gettò sopra senza proferire parola.

Per sua fortuna qualcuno non tardò a rubargli la scena, facendo il suo ingresso con una montagna di snack e pacchetti di patatine tra le braccia. Appena si rese conto di essere al centro dell'attenzione, trillò allegro: «Buonsalve, amici! Io mi chiamo Gabe e questo è il mio primo giorno in assoluto!»

Depositai il mento sul pugno chiuso e osservai divertito Gabriel che si destreggiava a fatica tra i banchi mentre tentava invano di non disseminare il pavimento di merendine. All'improvviso si bloccò e si voltò verso una ragazza, che ricambiò il suo sguardo.

Dall'angolazione in cui mi trovavo la vedevo soltanto di profilo, ma pensai che fosse molto carina. Una cascata nera di capelli le ricadeva in onde morbide sulle spalle e sul suo viso aleggiava un alone di fierezza racchiuso tra dei lineamenti precisi e dolci.

Gabriel aggrottò la fronte, pensieroso. «Io e te ci conosciamo, donzella?»

Un lieve rossore si dipinse sulle guance della ragazza. Il tipo ispanico alla sua destra, forse un suo amico, aveva l'aria di chi si stava trattenendo dallo scoppiare a ridere a crepapelle.

«Impossibile. È il tuo primo giorno in assoluto, no?» ribatté lei, forzando un sorriso.

«Sicura sicura?»

Remiel scattò in piedi. «Gabe!» lo chiamò, e gli fece cenno con il capo di sbrigarsi.

La ragazza si girò verso di lui. Per un secondo, ebbi l'impressione che lo guardasse in maniera strana e avrei giurato che avesse mimato un grazie con le labbra, anche se non ne compresi il motivo.

Titubante, Gabriel riprese a camminare. «Eppure ha qualcosa di famigliare» brontolò, quando si fu seduto di fronte a Remiel.

«Ti sbagli» tagliò corto quest'ultimo in un sussurro, chinandosi in avanti. Accennò al bottino di leccornie che nostro fratello stava riversando nella cartella. «Mi spieghi che diavolo hai combinato?»

«Ho avuto un... ehm, problemino. Chi si immaginava che le macchinette prima vogliano essere pagate, e poi ti danno da mangiare? È un furto, perché poi se lo tengono loro!»

Sghignazzai. Nemmeno io avevo mai usato un distributore automatico, ma avevo visto abbastanza film da avere almeno un'idea su come funzionassero. «Ti prego, dimmi che hai rotto il vetro».

Gabriel si raddrizzò. Aveva scartato una barretta di cioccolato e la stava ciucciando come un bambino col biberon. «Le ho solo dato un colpettino! Pianissimo, ve l'assicuro! Ma non vi preoccupate: ho lasciato i soldi e un biglietto di scuse».

Remiel affondò il volto tra le dita, stropicciandosi gli occhi. «Non dureremo un giorno» sospirò esasperato.

«Buongiorno, ragazzi!»

Il professore si chiuse la porta alle spalle e adagiò una pesante valigetta sulla cattedra, nel frattempo che un coro di saluti fiacchi si levava dalla classe. Indossava una camicia beige, un paio di jeans e un sorriso comprensivo che me lo fece stare antipatico fin da subito.

«Innanzitutto, voglio dare il benvenuto nella nostra scuola ai nuovi arrivati. Io sono Clay Winkler, il vostro docente di letteratura per quest'anno, e vi avviso fin da ora che non mi piacciono le bugie, perciò se non fate i compiti o non studiate optate per la sincerità e potreste anche passarla liscia». Il suo sguardo cominciò a vagare tra gli studenti, indugiando su ciascun membro della mia famiglia. «Quattro De'Ath. Non è che potreste...»

Gabriel schizzò in piedi in un baleno. «Inizio io, inizio io!» Si schiarì la gola con un falsissimo tossito. «Salve a tutti! Come ho già detto, mi chiamo Gabriel. Sono appassionato di teatro, in particolare di Shakespeare, ho grandi doti recitative e sono bravissimo a raccontare barzellette. In effetti, sarei in grado di far sputare i polmoni a un pesce». Fece una breve pausa e aggiunse: «L'avete capita? I pesci respirano con le branchie, non con i polmoni! Okaay, pubblico tosto. Comunque, andiamo avanti...»

«Mi bastava il nome, ma grazie. Ehm, molto dettagliato» lo interruppe Winkler in tono cordiale.

«Ne è certo? Avrei ancora un sacco di cose da...»

Sbuffai. «Gabe, mettiti giù o stanotte ti soffoco col cuscino».

«Sei soltanto invidioso perché la tua presentazione non sarà mai avvincente quanto la mia» replicò lui, facendomi la linguaccia.

L'uomo mi fissò. «E tu sei?»

«Annoiato, ma può chiamarmi Joel».

«Banale. La mia era migliore» bofonchiò Gabriel, studiandosi le unghie smaltate di giallo.

Risposi con una smorfia. Dopodiché fu il turno di Remiel e infine le iridi scure dell'insegnante si posarono sull'ultimo rimasto. Isaac, diventato paonazzo di colpo, aprì la bocca, ma ne uscii solamente un farfuglio indistinto. Ci furono altri risolini da parte dei nostri compagni.

Il professore continuò a sorridere, rassicurante. «Scusa, puoi ripetere?»

«Ha detto Isaac, credo» lo soccorse il ragazzo con il berretto di traverso, probabilmente impietosito dall'espressione d'agonia di mio fratello.

«Dal registro mi risulta che dovreste essere in cinque. Dov'è Alexander?»

Remiel mi scoccò un'occhiata interrogativa. Io scrollai le spalle e risposi: «Boh. Non siamo telepatici».

«Più ti conosco, Joel "Annoiato", più mi convinco che diventeremo ottimi amici».

«L'importante è crederci» bofonchiai.

Winkler si mise a braccia conserte, appoggiato sul bordo della cattedra, e si rivolse alla classe. «Dato che siete tornati da poco dalle vacanze, ho deciso di non sottoporre a uno sforzo eccessivo i vostri fragili neuroni reduci da non voglio sapere quali bravate. Quindi, oggi faremo una lezione meno pesante del solito».

Non aveva finito di parlare che già il mio interesse era scemato. Mi afflosciai sulla sedia, il ginocchio che si muoveva su e giù, guardando di tanto in tanto fuori dalla finestra. Essere costretto a stare fermo mi innervosiva; pur essendo situazioni completamente diverse, la mia mente si divertiva a riportare a galla dei ricordi spiacevoli.

Presi a sfregarmi i polsi fino a grattare via la pelle, tentando di scacciare la sensazione del metallo freddo. Adocchiai Remiel, che invece era concentrato sulla ragazza dai capelli neri con cui aveva parlato Gabriel. Sollevato che non si fosse accorto di nulla, afferrai la lattina che tenevo nello zaino, strappai la linguetta e ne ingurgitai un sorso abbondante per calmarmi.

"Rilassati, Soggetto Cinque".

"So che fa male, ma abbiamo quasi finito".

"Solo un'ultima volta".

«Quella è una birra?»

Un calcio alla gamba mi fece ripiombare con violenza nel presente. Sbattei le palpebre, il cuore che mi tamburellava forte nel petto e gli artigli quasi conficcati nel legno del banco.

Il professore stava guardando verso di me con un cipiglio corrucciato, imitato da molte teste che bisbigliavano tra di loro. Mi resi conto che era stato Remiel a colpirmi e non avrei esitato a ricambiarlo, se non fossi stato troppo occupato a nascondere i tremiti che mi scuotevano il corpo.

«Sì, certo» risposi, sforzandomi di suonare indifferente. «Ne vuole un sorso?»

«Non si possono bere alcolici a scuola» mi rimproverò Winkler. «Lascio correre perché è il tuo primo giorno. Ma falla sparire».

«Come le pare». Tracannai ciò che rimaneva della birra, accartocciai la lattina e la buttai di nuovo nello zaino. L'insegnante inarcò un sopracciglio e io mostrai le mani con fare innocente. «Sparita, capo».

«Visto che sei così perspicace, ti va di fare un riassunto di quello che ho detto finora?»

Accennai a Remiel. «Lui è più perspicace».

«Ho introdotto l'argomento dell'importanza del punto di vista all'interno di una narrazione e di come questo possa variare profondamente la percezione della narrazione stessa». Il sorriso di Winkler si allargò nel cogliere la perplessità che doveva essere apparsa sul mio volto, non avendo capito mezza parola. «Un concetto elementare che sarà alla base del compito che vi assegnerò e che sarà da svolgere a coppie entro una settimana. Prima che vi facciate illusioni, vi anticipo che sceglierò io con chi lavorerete».

Ignorando le proteste della classe, il professore cominciò a spiegare cosa avremmo dovuto fare. Non prestai la minima attenzione, almeno finché non arrivò a elencare gli abbinamenti nei quali, ovviamente, si era premurato di separare me e i miei fratelli.

Remiel sembrò deluso di finire con un certo Ethan Ramos. A Isaac toccò il suo compagno di banco dal nome strano che non compresi, ma che di cognome faceva Maclean.

Alexander, sebbene assente, fu baciato dalla fortuna: una bellezza bionda chiamata Eleanor Myers.

Anch'io però non potevo lamentarmi. Almeno avrei avuto anche l'opportunità di scoprire perché i miei fratelli erano così ossessionati da Arya Black.

«E adesso come facciamo?» commentò Remiel mentre ci sedevamo in un tavolo in disparte. «Callum ci ha chiaramente vietato di avere qualsiasi rapporto con... con gli umani».

Aveva pronunciato l'ultima parola in un sussurro, anche se non sarebbe stato necessario. La mensa era affollata e rumorosa, inoltre eravamo in una posizione strategica, isolata dagli altri. Avvertivo ancora degli sguardi curiosi che ci spiavano, ma la maggior parte dei presenti non badava tanto a noi, distratta dal cibo e dalle chiacchiere con gli amici.

Il profumo succulento che impregnava l'aria mi faceva contorcere lo stomaco -e non mi riferivo a cose come il pollo fritto o le salsicce oleose, che comunque non mi dispiacevano.

«Al diavolo Callum e le sue regole». Con le dita intrecciate dietro la nuca, presi a dondolare pigramente sulla sedia. «Ha voluto che venissimo a scuola e faremo i compiti da bravi bimbi».

«E questo spirito da secchione da dove verrebbe, scusa?» mi chiese Sky scettica.

«Non farti ingannare. Vuole solo provarci con la fanciulla con cui è in coppia». Gabriel continuò a giocherellare con il purè nel vassoio, cercando di usarlo per disegnare un'emoticon sorridente. «E che io sono sicuro di conoscere».

Remiel gli lanciò un'occhiata torva. «La pianti con questa storia?»

«Perché sei così protettivo, fratello?» intervenni con un sorrisetto.

Lui avvampò bruscamente, ma rimase in silenzio.

Piluccando dal suo piatto in maniera distratta, Isaac stava perlustrando la mensa con lo sguardo. A un certo punto, increspò le sopracciglia. «Abbiamo un problema, mi sa» e sollevò la forchetta in direzione della ragazza alta e bionda che stava venendo verso di noi. Camminava come se fosse convinta di stare sfilando su una passerella.

«Salve, ragazzi» esordì in tono compiaciuto, fermandosi accanto al nostro tavolo. «Fra qualche giorno sarà il mio compleanno e organizzerò una sorta di gioco per festeggiare nella mia villa...»

Sky assunse un'espressione confusa. «Tu chi saresti, esattamente?»

«Eleanor Myers. Io e i tuoi fratelli siamo insieme nel corso di letteratura. E di sicuro conoscerete già la famiglia, siamo famosi quasi quanto voi qui».

«Myers?» Mia sorella fece spallucce. «No, mai sentito».

Ridacchiai. Eleanor scoccò a entrambi uno sguardo freddo, poi si ricompose e sventolò sotto i nostri nasi un biglietto rosa glitterato che mandava un forte aroma di fragola. «Questo è l'invito. Valido per tutti, ovvio».

Nonostante le sue parole, sul viso le si leggeva chiaramente che avrebbe volentieri aggiunto la clausola "Eccetto Sky".

«Mi dispiace, ma noi non...»

Gabriel zittì Remiel con un gesto della mano e si protese in avanti, tutto interessato. «Uuuh! Qui c'è scritto che è una cena con delitto!»

Di colpo, la conversazione accese il mio entusiasmo. Afferrai il foglietto e gli diedi una rapida letta, con il sangue che iniziava a ribollire nelle mie vene per l'eccitazione. «Forte! E chi uccidiamo?»

Eleanor sbatté le palpebre, interdetta. «Allora, verrete o no?»

«Non possiamo. Grazie comunque» si affrettò a rispondere Remiel, strappandomi il biglietto dalle mani.

Provò a riconsegnarglielo, ma io lo ripresi con uno scatto felino. «Perdonalo, è un asociale. Io vengo senza problemi a uccidere qualcuno».

«Pure io» annuì Gabriel, saltellando sulla sedia.

«In realtà, l'obiettivo di una cena con delitto è indagare per scoprire il colpevole».

Mi accigliai. «Ah! Beh, non è male l'idea di stare dall'altra parte per una volta».

Eleanor sembrò sul punto di dire qualcosa, ma si trattenne. «Pensateci». Si girò e si allontanò per tornare dalle sue amiche.

Remiel mi fissò con i suoi taglienti occhi verde acqua. «Hai capito che è un omicidio finto, vero

Sfoderai un ghigno. «Ancora per poco». Mi alzai, tirando fuori il pacchetto di sigarette dalla tasca. «Vado a fumare. E a fare uno spuntino decente».

«Joel!» sbottò Sky, stringendomi la manica della giacca di pelle.

«Scherzavo. Rilassatevi un po'».

Mi liberai dalla sua presa e uscii dalla mensa. Nel corridoio incrociai il professor Winkler che stava armeggiando con la chiusura della sua valigetta. Mi salutò con un cenno del capo, ma non lo ricambiai e proseguii dritto fino alla porta di vetro che conduceva in cortile.

Con mia sorpresa, scoprii di non essere l'unico a voler stare in santa pace. C'era una figura minuta seduta su una panchina, da sola, infagottata in una felpa talmente larga che sembrava inghiottirla. Ricci rossi le sbucavano dai lati del cappuccio sollevato, insieme ai fili delle cuffiette collegate al telefono su cui strisciava il dito di tanto in tanto.

Mi avvicinai, pregustando già il mio pasto. Prima però volevo giocare. «Ehi. Non è che avresti un accendino?»

Anche se stava ascoltando la musica, era evidente dalla sua smorfia che si fosse accorta che le stavo parlando e che mi stesse semplicemente ignorando. Mi arrampicai sullo schienale della panchina e le agitai una mano davanti alla faccia con insistenza.

«Ho capito» borbottò la ragazzina seccata, togliendosi un auricolare. «Io non fumo, tu sì. Perciò se hai delle sigarette e non un accendino, le possibilità sono due: sei un idiota, o la tua tattica di approccio è la più scontata del mondo, il che ti renderebbe comunque un idiota».

Rimasi disorientato per un secondo. Non mi ero aspettato che un esserino così piccolo, che forse non mi sarebbe arrivata al mento neppure in punta di piedi, potesse avere un carattere del genere. «Siamo scontrosetti, eh, nanetta?»

«Mi dispiace se ho ferito il tuo orgoglio da fighetto montato, ma sono sicura che troverai qualche stupida che caschi alle tue avance scadenti per farti consolare». Si rimise la cuffietta e aggiunse, notando che non mi ero mosso: «Addio».

Osservai il suo volto tempestato di lentiggini, i tratti delicati e ancora un po' infantili, le pagliuzze dorate che screziavano le pozze marroni delle sue iridi. Il contrasto tra il suo aspetto e il suo atteggiamento mi incuriosiva per quanto era paradossale e mi sorpresi a pensare che mangiarla sarebbe stato uno spreco.

Con un sospiro, me ne andai e accesi la sigaretta. La stavo portando alla bocca per il secondo tiro, quando una strana sensazione mi attraversò come una freccia.

Mi voltai verso gli alberi che punteggiavano il cortile, frusciando appena sotto le deboli folate di vento. Non c'era nessuno, eppure ero certo di aver percepito qualcosa nell'aria. Era durato soltanto un istante brevissimo, ma non avevo dubbi che non potessi essermi sbagliato. I miei sensi non erano facili da ingannare.

Perché, in quel minuscolo battito di ciglia, non ero stato da solo.

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