𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 33 (Arya)

"𝔄𝔪𝔞 𝔠𝔥𝔦 𝔱𝔦 𝔞𝔰𝔠𝔦𝔲𝔤𝔞 𝔩𝔢 𝔩𝔞𝔠𝔯𝔦𝔪𝔢,
𝔫𝔬𝔫 𝔠𝔥𝔦 𝔱𝔢 𝔩𝔢 𝔣𝔞 𝔳𝔢𝔯𝔰𝔞𝔯𝔢"

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Avevo fatto l'ennesimo casino.

Nessuno lo diceva, ma leggevo quel pensiero sulle facce dei miei amici. Dopo ciò che era successo al dipartimento di polizia, io ed Ethan avevamo deciso di raccontare loro tutta la verità su ciò che avevamo scoperto sull'Olympus e sulla morte di mio padre.

Avevamo omesso un unico trascurabile dettaglio, ovvero il piccolo De'Ath che stava crescendo nel mio grembo e che mi rendeva un altro possibile bersaglio di quella folle organizzazione. Per il resto, però, eravamo stati sinceri.

«Hai chiesto aiuto ad Alexander?» esclamò Mac, passandosi una mano nei capelli neri. Il berretto pendeva dallo schienale della sedia. «Alexander lo stalker?»

Layla mi fissò perplessa. «Non volevi parlarne con Remiel?»

Mi strinsi nelle spalle. «Non è che abbia avuto molta scelta».

Dovevo ammettere che non riuscivo ancora a fidarmi di Alexander, né tantomeno della sua inaspettata gentilezza nei miei confronti, ma non ero sicura che avrei avuto un'altra occasione di avere un De'Ath dalla mia parte.

Lui sembrava convinto che Remiel non sarebbe stato contento di sapere che indagavo sulla loro famiglia, e continuavo a chiedermi a quale sarebbe stata la sua reazione. Ero già incinta di suo fratello. Non volevo rischiare di dargli un altro motivo per allontanarsi, non ora che avevo trovato il coraggio di invitarlo a uscire con me.

Era una logica infantile. Tuttavia, era la prima volta che ero attratta da un bravo ragazzo e non avevo intenzione di rovinare tutto.

«Non mi piace». Deena inclinò il capo di lato e mi rivolse un'espressione eloquente. «Alexander ha un brutto carattere. È a scuola da meno di due mesi e ha già quasi scatenato due risse. Devi stare attenta».

Suonava molto come un "È un po' troppo il tuo tipo" e dovetti fare del mio meglio per non offendermi, pur essendo consapevole che non aveva torto.

Ethan prese una manciata di patatine. «Bisogna contestualizzare, però. Ha pestato Josh e Justin. Io dico che sono punti a suo favore».

«Sempre violenza rimane» replicò Deena ostinata.

Appoggiai i gomiti sul tavolo e affondai il mento sulle nocche. Eravamo nel soggiorno della casa dei gemelli, in attesa che i loro genitori si sbrigassero ad andare a festeggiare l'anniversario di matrimonio.

Fremevo dall'impazienza di rivedere Keegan. Non ne avevo ancora avuto l'occasione, da quando lo avevo liberato dalla cella, e nutrivo la remota speranza che nel frattempo potesse aver ricordato qualcosa di utile. A quanto pareva, ero la sola che riuscisse a cavargli qualche parola.

Mac si alzò e si avvicinò al frigo. «Inizio a pensare che dovremmo coinvolgere John. Se questa gente ha davvero ucciso tuo padre, è ovvio che sia nella nostra stessa squadra».

Abbozzai un sorriso. «Squadra? Ethan ti ha contagiato?»

«Claro que si. Noi siamo la squadra dei buoni» annuì Ethan, gonfiando il petto con orgoglio. «L'Olympus i cattivi».

Layla corrugò la fronte. «E i De'Ath?»

«Non saprei. Una zona grigia nel mezzo?»

Deena emise uno sbuffo frustrato. «Vi rendete conto che non è un gioco? Stiamo infrangendo la legge». Indicò il soffitto con un dito e aggiunse in un sibilo: «E proteggendo un evaso».

Mi raddrizzai di scatto. «A essere pignoli, Keegan non ha fatto nulla di male».

«Ha aggredito il personale dell'ospedale».

«Okay, escluso quello» concessi controvoglia. «Ma John lo ha trattenuto per due settimane, senza neanche dargli un avvocato. Anche questo è illegale».

Ethan concordò con un cenno. «E poi mica potevamo lasciarlo in pasto ai cloni».

Feci un finto colpo di tosse. «Ti ricordo che lo volevi lasciare in cella».

«Ci ha salvato le chiappe. Mi sento in dovere di difenderlo».

Mac ritornò seduto con un bicchiere di succo di frutta in mano. «Per quanto tempo dovremo tenerlo qui? Di norma non mi lamenterei di avere un ragazzo bono nascosto in mansarda, ma non credo che a mamma e papà farebbe piacere se lo venissero a sapere».

La nostra conversazione venne interrotta dall'arrivo della signora Maclean. Era una donna solare e amichevole, anche se un po' invadente. In passato aveva cercato in ogni modo di incoraggiare una possibile relazione tra me e Mac, dato che ci conoscevamo fin da piccoli ed era convinta che fossi la fidanzata perfetta per lui. Poi avevo quasi fatto saltare in aria il loro garage e da allora mi aveva etichettata come una minaccia alla sua incolumità.

«Noi stiamo uscendo» ci comunicò con un sorriso. Si avvicinò a Mac e gli diede una carezza affettuosa. «Se stasera andate fuori da qualche parte, copriti bene che fa freddo, tesoro. E mandami un messaggio per avvisare dove siete».

Lui si spalmò sul tavolo e batté la fronte sul legno. «Non sono più un bambino».

«Non scherzo, Krzysztof. Lo scorso inverno ti sei preso una bronchite, perché non mi ascolti mai».

Lanciai un'occhiata a Deena, che stava scrutando la madre con una smorfia. Avevano un rapporto complicato, soprattutto a causa della morbosa iperprotettività di quest'ultima verso suo fratello. Sapevo quanto si sentisse trascurata e l'avevo rassicurata un sacco di volte su come la gelosia non la rendesse una cattiva sorella, al contrario di ciò che pensava.

Appena la signora Maclean e suo marito uscirono, Ethan si fiondò davanti alla finestra. Udii il motore dell'auto accendersi e svanire a poco a poco in lontananza. Schioccò le dita. «Via libera, chicos».

Mac si aggiustò l'apparecchio acustico attorno all'orecchio, sospirando. «Non so cosa sia più umiliante. Essere trattato come se avessi cinque anni o essere chiamato col mio nome completo».

«Il nome» rispondemmo in coro io ed Ethan.

Layla ridacchiò. «Ha il suo fascino, dai. Peccato che ancora non abbia la più pallida idea di come si scriva».

«Neanche il nostro Krzysztof». Ethan sogghignò, per poi sussultare quando Mac si allungò per rifilargli un calcio agli stichi.

Deena si scansò una ciocca corvina dalla faccia. Le labbra erano serrate in una linea dura. Capii che era meglio cambiare argomento. «A proposito di Keegan» ripresi, balzando in piedi. Tentennai un istante. «Prima che lo porti giù, volevo sapere una cosa. Non è che avete notato qualcosa di... ehm, strano?»

Ethan fece per ribattere, ma intercettò il mio sguardo e ammutolì.

La notte in cui avevamo liberato Keegan, essendo troppo scossi per dormire, eravamo rimasti per ore insieme sul letto a discutere. Ci eravamo scervellati nel tentativo di capire come avesse potuto aprire la porta degli archivi in quel modo.

Nessuno dei due aveva trovato una spiegazione plausibile alla facilità con cui aveva rotto la serratura, quasi senza accorgersene, così lui si era slanciato in teorie improbabili basate sui fumetti di cui era appassionato. Adesso era convinto che potesse essere stato morso da un ragno radioattivo o che fosse un alieno abbandonato sulla Terra.

Erano sciocchezze e probabilmente stava solo scherzando, eppure mi turbavano comunque. Mi riportavano alla mente la voce di Alexander, che mi diceva che forse avrei dovuto credere alle inquietanti leggende sui De'Ath.

Mac increspò le sopracciglia. «Ti riferisci allo stesso Keegan che è sbucato dai boschi e si meraviglia per le lampadine?»

Layla mi posò una mano sulla spalla, ammiccando. «So che lo hai preso sotto la tua ala protettrice, ma devi ammetterlo: lui è strano».

«Ed è anche ricercato» puntualizzò Deena seria. «Da gente disposta a uccidere dei poliziotti, pur di trovarlo. Giusto per farvelo presente».

Roteai gli occhi e mi incamminai in corridoio. I sensi di colpa presero ad attanagliarmi lo stomaco, mentre le stilettate al cranio si facevano più acute. La consapevolezza di averli messi tutti in pericolo era schiacciante, come un macigno legato alla gola che mi trascinava nel profondo degli abissi.

Poi però salii i gradini e abbassai la botola che conduceva alla mansarda. Era un ambiente grazioso, illuminato da una finestrella quadrata con una tendina arricciata che si abbinava ai muri color panna. In un angolo c'era il bagno e sui mobili erano impilate le scatole con le decorazioni natalizie.

La tenaglia dei rimorsi si allentò alla vista di una figura magrolina distesa sul divano, sepolta sotto una coperta di pile. Un braccio gli ricadeva sul parquet in una posa scomposta e la sommità della nuca spuntava sul bracciolo.

Un sorriso mi si formò sul volto. «Ehi».

Nonostante il mio tono fosse dolce, Keegan si svegliò di soprassalto. Si districò dalla coperta in una maniera alquanto buffa e si rizzò a sedere, appoggiato sui palmi. Mi guardò con un'espressione assonnata, i muscoli che iniziavano a rilassarsi. «Ehi» ripeté, con una punta d'incertezza.

«Come ti senti?» chiesi, avanzando nella stanza.

Keegan sbadigliò e buttò le gambe sul pavimento. Indossava i vestiti che gli aveva prestato Mac, una maglietta bianca spiegazzata e dei pantaloni da ginnastica. Malgrado gli stessero decisamente larghi, avevo l'impressione che si fosse irrobustito nel periodo trascorso in cella. «Non male. Questo coso è molto più comodo di quello che avevo prima. Mi sembrava di stare per terra».

«È un divano». Scavalcai il mucchio di pezzi e strisce di puzzle disseminati sul tappeto e, chinando la testa per non urtare le pareti inclinate, presi posto al suo fianco. «Sono felice che ti trovi bene».

Quando per caso il mio gomito sfiorò il suo, Keegan trasalì. Divenne rigido come un baccalà, ma non si spostò. Emise un vago mugolio d'assenso.

Lo sbirciai di traverso. «Devo darti delle cattive notizie».

L'angolo della bocca gli si piegò all'insù, distorcendo la cicatrice sulla guancia. «Ne sono sorpreso».

«La polizia ti sta dando la caccia. Potresti essere sospettato di...» Mi mordicchiai il labbro. «Plurimo omicidio, ecco».

Keegan si limitò a guardarmi. «Non suona bene».

«No, infatti».
«Non ero accusato di un incendio?»
«Anche di quello».

Lui rovesciò il capo all'indietro, afflosciandosi contro lo schienale del divano. «Non potrebbero accusarmi di cose che riesco almeno a capire?»

«I dottori che hai ferito all'ospedale» suggerii.

«Ah, sì. Lì sono stato io». Esalò un respiro sconsolato e incatenò i suoi occhi ai miei, facendomi rabbrividire. Sembravano dei frammenti di cielo strappati a una notte buia e solitaria. «Per questo mi tieni rinchiuso?»

Fu come essere trapassata in pieno petto da una freccia. «Non sei rinchiuso!» D'istinto cercai di sfiorargli la mano e lui si ritrasse, sfuggendo al mio tocco. Inghiottii a vuoto, la gola secca. «Sei libero di andartene in qualsiasi momento, Keegan. Non ti costringerei mai a restare contro la tua volontà. Non devi neanche pensarlo».

«Davvero?»

Annuii. «Sto cercando di tenerti al sicuro, non prigioniero».

Keegan sbatté le palpebre e abbassò lo sguardo sulla mia mano, a pochi centimetri dalla sua gamba. Aveva un'aria scettica. «Perché ti importa?»

«Io...» Ebbi un attimo di esitazione. «Credo che tu possa aiutarmi. È complicato».

Un'ombra di delusione gli balenò sul volto. Annuì, si sollevò e andò ad affacciarsi alla finestra. La luce del sole lo avvolse come un mantello dorato. Il panorama non era niente di che, una semplice stradina di villette a schiera con staccionate bianche e qualche alberello e un cielo terso spoglio di nuvole. Eppure, Keegan lo ammirava con lo stupore genuino di un bambino.

«Ti va di scendere?» Accennai alle scale collegate al ripostiglio. «Voglio presentarti i miei amici. Erano con me nel furgone, quando ti abbiamo portato via. Ti stanno ospitando».

Keegan si girò. Era di nuovo sulla difensiva, le spalle tese e i pugni chiusi. La prospettiva di conoscere altre persone non doveva entusiasmarlo. «C'è anche quella che voleva colpirmi con un bastone?»

Impiegai un secondo a capire a chi si riferisse e mi scappò una risata. «No, Eryn non c'è. Promesso».

«Ti fidi di loro?» mi incalzò, ancora titubante.
«Assolutamente sì».

Lui rimase a scrutarmi in silenzio, poi sospirò. «Mi basta».

Lo accompagnai giù per gli stretti gradini, camminando al suo fianco. Sebbene il contatto fisico lo turbasse, avevo il sospetto che cominciasse ad apprezzare quantomeno la vicinanza. Forse lo faceva sentire meno solo, meno sperduto in quel mondo di cui non conservava nemmeno un ricordo.

Alla nostra comparsa, i miei amici si voltarono all'unisono. Keegan si inchiodò sul posto, così all'improvviso che per poco non mi scontrai con la sua schiena. Deglutì e mi lanciò un'occhiata.

«Tranquillo» lo esortai.

Mi seguì nel salotto a piccoli passi. Presto però la diffidenza venne vinta dalla sua insaziabile curiosità e prese a guardarsi attorno, ignorando gli sguardi che aveva puntati addosso. Osservò a una a una le piantine e i fiori colorati nei vasi di ceramica, giocherellò con le foglie e i petali, per poi essere completamente abbindolato dalla grande scoperta del carillon. Lo apriva e lo chiudeva di continuo, intimorito dalla melodia che ne scaturiva e dalla ballerina danzante all'interno.

«Che figata» sussurrò Ethan, scacciando il ciuffo castano dalla fronte. «È praticamente un neonato nel corpo di un adolescente».

Mac bevve un sorso di succo. «Un po' come te, quindi. Con la differenza che lui ha la scusa di aver perso la memoria».

Layla si sporse verso di me. «A titolo informativo, per me questo è fare cose strane».

«Siamo sicuri che non sia pericoloso?» commentò Deena.

Keegan depositò il carillon e si girò verso di noi. «Sapete che vi sento?» La sua voce tradiva un'incrinatura nervosa.

Presi dallo zaino le fotografie che avevo staccato dall'album, trovato tra gli averi della signora Wurstel, e le misi sul tavolo. «Keegan» lo chiamai per catturare la sua attenzione. «Potresti dare un'occhiata a queste immagini? Magari c'è qualcosa che ti risulta famigliare».

Lui spostò il peso da una gamba all'altra, gli occhi che saettavano senza sosta su ciascuno dei miei amici e tornavano poi su di me, in cerca di rassicurazione. «Te l'ho detto. Non ricordo nulla».

«Solo un tentativo» insistetti.

Non lo voleva fare, era evidente. Si rabbuiò e per un attimo pensai che si sarebbe rifiutato, invece annuì. Si avvicinò con cautela e scivolò sul bordo della sedia che gli avevo indicato, come per tenersi pronto a schizzare via al primo movimento sbagliato.

Quando il silenzio venne rotto da un rumoroso sgranocchiare, fece un piccolo saltello e ruotò il capo di scatto.

Ethan si bloccò con la patatina tra i denti. «Scusa, muchacho» farfugliò, mostrandogli un pollice all'insù.

«Mu... cosa?»

Layla gemette. «Ethan, non mi sembra il caso di parlargli in spagnolo».

«Sì, non distruggiamo anche le sue poche certezze» le fece eco Mac, ficcandosi il berretto sulla testa.

«Questa è una bella domanda, però». Deena strinse le palpebre, accusatoria. «Non sai neanche di essere in America, ma conosci le basi dell'inglese. Comunichi bene. Quindi devono avertelo insegnato, giusto?»

Keegan si grattò i capelli rasati. Si erano allungati un poco dal nostro primo incontro, e ora riusciva quasi a farci passare le dita in mezzo. «Immagino di sì».

«Una cosa per volta». Picchiettai un dito sulle foto. «Guardale, per favore».

Facendo tamburellare un ginocchio sotto il tavolo, ne prese una. Ritraeva una bellissima donna con una crocchia bionda sulla sommità della nuca, alta e snella, gli occhi blu talmente intensi che sembravano brillare persino in un'istantanea sbiadita. La somiglianza con Nicholas era inequivocabile, fatta eccezione per il sorriso.

Il ghigno di quel bastardo era odioso, ma seducente.
Quello di Vivianne De'Ath faceva accapponare la pelle.

«La conosci?» chiesi infine, quando non potei più aspettare.

Keegan si soffermò a fissarla ancora a lungo, poi scosse il capo e passò alla foto successiva.

August aveva la stessa capigliatura dorata e la stessa carnagione pallida che aveva donato al figlio, ma le sue iridi erano di un azzurrino scialbo ed era incredibilmente muscoloso. Non stentavo a credere che fosse stato un generale dell'esercito. Pur essendo molto attraente, l'elegante abito da sposo che indossava sembrava cozzare con il suo sguardo serio e austero.

Stavolta la scartò subito e venne il turno di Lucius, fratellastro e amante di Vivianne. Malgrado fosse stato adottato, non era da meno dei De'Ath in quanto a fascino. Fisico scolpito e bronzeo, corti capelli scuri e lineamenti marcati. La sua espressione sempre dolce e affabile lo faceva apparire il genere di persona che sarebbe riuscito a legare anche con uno yeti. Mi ricordava vagamente Kath, per questo.

Keegan indugiò per qualche secondo, ma non stava osservando l'uomo. Accarezzò con la punta dell'indice il castello sullo sfondo ed espirò profondamente. «Credo...» sibilò accigliato.

Soffocai l'impulso di protendermi in avanti. «Cosa? Ci sei stato?»

«Non lo so. Potrei sbagliare. È tutto così confuso» replicò lui, massaggiandosi le tempie. Toccò l'uccello appollaiato sulla fontana, dietro a Lucius. «Questo. Questo l'ho già visto».

Mi scambiai un'occhiata con Ethan. «Il corvo è il simbolo dei De'Ath» disse quest'ultimo, indovinando i miei pensieri.

Deena fece spallucce. «A Crystal Lake è pieno di corvi. Se è stato nei paraggi del castello, li ha visti per forza. Non dimostra granché».

«Chi sono questi De'Ath?» Keegan adocchiò il tubetto di Pringles che stringeva Ethan. «Tutti non fanno che chiedermi di loro. E quella donna, alla centrale, ha detto che vogliono farmi del male».

«È una famiglia» spiegò Layla.

«Di pazzi» puntualizzò Mac.

«E maledetta» aggiunse Ethan. «Alcuni sono convinti che tu sia imparentato con loro».

Keegan inarcò un sopracciglio, in un modo spaventosamente uguale a Callum e Nicholas. «Ehm... grazie. Sempre meglio».

Forse presentargli subito il mio gruppetto in tutta la sua stupidità non era stata un'idea brillante. Li folgorai con uno sguardo truce e mi affrettai a rassicurarlo: «È solo perché gli somigli un po'. Non stiamo insinuando che sei uno squilibrato».

Deena si lasciò sfuggire un verso sarcastico che interpretai come un "discutibile", ma non proferì parola.

«In che senso gli somiglio?»

«Beh, fisicamente. Tu sei... loro sono...» Un calore mi si propagò sulle guance e mi schiarii la gola. «Un aiutino?»

Layla e Mac scoppiarono in una fragorosa -e ben poco collaborativa- risata, mentre Ethan rispose sghignazzando: «Ti ci sei messa tu in questa situazione, hermana».

Keegan ci guardò spaesato. «Non capisco».

«Lasciamo stare» borbottò Deena, interrompendo quel teatrino.

La ringraziai con un sorriso e tornai a rivolgermi a Keegan, che continuava a sbirciare le Pringles leccandosi il labbro inferiore. «Quella donna alla centrale ha detto che eravate amici. Sembrava conoscerti. Sai chi potrebbe essere?»

«No, boh, non lo so. Non mi ricordo». Un lampo di rabbia gli guizzò sul volto e serrò un pugno fino a sbiancarsi le nocche. Per la prima volta, qualsiasi traccia di tenerezza era svanita. «Quante volte devo ripetere che non ricordo niente?»

Rimasi disorientata dalla sua reazione. Fino a quel momento era sempre stato talmente spaventato e dimesso che non mi ero aspettata che alzasse la voce. In fondo, però, non potevo biasimarlo. Aveva perso la sua identità, era stato catapultato in un mondo sconosciuto ed era attorniato da estranei che lo sbattevano in cella o lo tartassavano di domande.

Keegan si prese la testa tra le mani, dondolando avanti e indietro con il corpo. «Mi dispiace. Non ce la faccio. Scusa» sussurrò debolmente.

«D'accordo. Basta così. Sei stato bravo». Feci per dargli un buffetto affettuoso, ma poi ci ripensai e ritirai il braccio. Ormai avevo capito quale fosse il trucco più efficace per tirarlo su di morale. «Hai fame?»

Come avevo previsto, risollevò il capo e gettò un'altra occhiata bramosa al tubetto di Pringles. Ethan se ne accorse e glielo porse. «Alla paprika ti piacciono?»

«Sì?» replicò dubbioso.

Mac fece per sollevarsi dalla sedia. «Se vuoi, ci sono anche al gusto cheddar».

«Lo fate apposta a chiamare tutto con nomi assurdi?» Sbuffando, Keegan prese il tubetto con un gesto stizzito. Prese una patatina, la analizzò per un istante e la addentò. Man mano che masticava divenne rosso come un pomodoro e fu quasi sul punto di sputare. «No, la papika non mi piace. Proprio no».

Mac ridacchiò. «Vuoi provarle al bacon?» propose Ethan.

Keegan si imbronciò, eppure notai la piega divertita che stavano assumendo le sue labbra. «Va bene, lo fate apposta».

«Smettetela, dai» soggiunse Layla sorridente.

Risi anch'io. Sebbene lo conoscessi a malapena, dovevo riconoscere che ero sollevata che si stesse trovando a suo agio con noi.

Dopo quello che aveva vissuto, la solitudine che portava cucita addosso come un mantello, si meritava un po' di serenità. Certo, non ero ingenua. Sapevo che non avevamo ancora conquistato la sua fiducia, ma lo consideravo già un piccolo traguardo.

Il telefono mi vibrò nella tasca, distogliendomi dalle mie riflessioni.

Lo afferrai e non rimasi affatto sorpresa nel ritrovarmi una notifica proveniente dal gruppo di famiglia dei De'Ath. Gabriel inviava di continuo delle frasi motivazionali sulla genitorialità prese da Internet, chiedeva dei pareri sui prodotti per bambini che voleva acquistare su Amazon e spesso faceva intere conversazioni con Joel solo a base di sticker.

Callum era così esasperato che aveva tentato di abbandonare la chat più volte, ma veniva sempre rimesso dentro con tanto di messaggio: "Fratellone, per sbaglio eri uscito di nuovo".

Gabriel: “Famiglia, oggi SERATONA tutti insieme al luna park. Non sono ammessi rifiuti. Arya, invita i tuoi amici perché noi non ne abbiamo. A parte Nik, o forse no. Seth deve ancora aggiornarmi sullo stato attuale del loro rapporto

Cose indispensabili da portare: sorriso, allegria e Mary

I De'Ath ci attendevano vicino all'insegna luminosa che campeggiava all'ingresso del luna park.

Gabriel era il più appariscente. Indossava un blazer in mesh di paillettes color cipria e degli attillati pantaloni viola, anche se a fargli dominare la scena era soprattutto il paio di corna finte che spuntavano dal cespuglio di ricci. Portava a tracolla una borsa in pelle con le borchie, piuttosto gonfia.

Fu il primo a correrci incontro e investì Layla con un abbraccio. Subito dopo venne a stritolare anche me, soffocandomi col suo intenso profumo floreale, mentre il resto della famiglia ci raggiungeva con più calma. Esclusa Deena, che si era opposta fermamente e aveva preferito restare a casa a tenere d'occhio Keegan, eravamo al completo.

Il mio sguardo venne calamitato su Nicholas. Una camicia blu dal colletto aperto gli ricadeva a pennello sul corpo, le mani nelle tasche. Neanche l'intrico di cicatrici che gli segnavano la gola riusciva a scalfire la perfezione del suo aspetto, ma ciò non cambiava che lo odiavo.

Ci eravamo messi insieme in quel casino, la colpa era di entrambi. In un modo o nell'altro, lo avrei costretto ad assumersi le sue responsabilità.

Quando si accorse che lo stavo fissando, le sue labbra incresparono nel solito sorrisetto. «Ciao, angioletto. Come stai?»

«Meglio prima di vederti».

«Ci muoviamo o no?» borbottò Seth, scoccandomi un'occhiataccia.

Joel fece un ghigno e diede un buffetto sulla nuca a suo fratello. «Per te non sarà per niente una serata imbarazzante, Nik».

Lui aggrottò la fronte, interdetto. «Perché mai dovrebbe esserlo?»

«Ragazzi, non è il momento per questa conversazione». Kath si sistemò la spilla che portava al lato della fronte. Al contrario di Callum, che sembrava parecchio a disagio tra di noi, aveva un'espressione raggiante. «Andiamo, forza. Non siamo mai stati in un luna park».

Superammo i cancelli e cominciammo a muoverci fra giostre e tendoni. Una musica vivace aleggiava nell'aria immobile della sera, alternando note acute e saltellanti a drammatici e profondi silenzi. I visitatori erano numerosi, perlopiù nostri coetanei o bambini accompagnati dai genitori. Notturn Hall era spesso tappa fortunata di qualche compagnia itinerante di passaggio, che approfittava della fame di divertimento tipica di una cittadina che offriva ben pochi svaghi ai giovani.

Sky prese a girare la testa da tutte le parti, con la bocca spalancata dalla meraviglia. «Voglio assolutamente salire sulle montagne russe».

«Che coincidenza. Anch'io adoro le montagne russe» esclamò Ethan con eccessivo entusiasmo.

Non trattenni una risata. Le altezze lo terrorizzavano fin da piccolo, anche minime. Mi voltai verso Mac in cerca di supporto, ma scoprii che non stava ascoltando. Si era avvicinato a Isaac, che era pallido e si stava attorcigliando nervosamente le dita. Gli fermò le mani con un gesto delicato, mormorandogli qualcosa che non colsi. L'altro si limitò ad annuire, un timido rossore che gli affiorava sulle guance.

«Non le ho mai provate, in realtà». Sky gli rivolse un sorriso furbesco. «Visto che sei appassionato, quale mi consigli?»

Ethan si congelò per un istante, poi si tirò indietro il ciuffo castano con finta disinvoltura. «Beh, sai, dipende da tanti fattori. Difficile dire quale sia quella più indicata da cui cominciare».

«Ho la sensazione che il tuo amico stia sparando parecchie cavolate» commentò Remiel, affiancandomi.

Lo osservai. Indossava un maglione verde scuro a girocollo e i capelli scuri che si arricciavano in una curva morbida dietro le orecchie. Lo stomaco mi si contrasse in una stretta piacevole. «Una volta, quando avevamo tipo dieci anni, si era arrampicato su un albero per recuperare un frisbee. Sarà stato al massimo a due metri da terra. Aveva troppa paura di scendere e dichiarò che sarebbe rimasto a vivere lì per sempre».

Remiel ridacchiò. «Come lo avete convinto?»

«Mio padre gli ha raccontato la storia del Piccolo Principe, che alla fine viene morso da un serpente e muore. Così, dopo un intero pomeriggio, si è fatto portare giù in braccio».

«Bella mossa».

«Sì, se tralasciamo che gli è venuta anche la fobia dei serpenti» replicai, ignorando la fitta al cuore. Parlare di mio padre era diventato ancora più doloroso, dal momento in cui avevo scoperto che non era stato vittima di un banale incidente.

Remiel sembrò notarlo e mi sfiorò la mano, tenendola allacciata alla sua. Era un tocco delicato, dolce. Un fremito mi fece tremare, mentre con il pollice mi accarezzava le nocche in una scia calda che giunse fino al dorso. Appena tentò di lasciarmi andare, rafforzai la presa e continuammo a camminare uno accanto all'altra.

Joel si stiracchiò, un gomito appoggiato alla spalla di Nicholas. «Mi sto annoiando. Ho letto sulla locandina che fanno anche gli autoscontri. Dove saranno?»

«Aspettate, aspettate. Mi sono attrezzato». Gabriel recuperò un foglio ripiegato dalla borsa e lo sventolò. «Ho preso la cartina. Ora devo solo capire dove siamo con esattezza».

Nicholas emise un verso di scherno. «Considerato il tempo medio che impiega il tuo criceto fuori allenamento ad attivare il cervello, possiamo anche metterci comodi».

«Credo che abbiano sbagliato a stamparla. Mi risulta che dovremmo essere vicino alla ruota panoramica».

Alexander si guardò intorno. «A meno che non sia la ruota panoramica più piccola al mondo, ti stai sbagliando».

«È al contrario» tossicchiò Seth. Lo aiutò a capovolgerla e si corrucciò. «Adesso mi risulta che dovremmo essere vicini alla Casa dei Fantasmi. Ne vedete nei paraggi, per caso?»

«Ah, ecco cosa ci faceva la mamma laggiù». Mi si bloccò il sangue nelle vene e tutti gli occhi si puntarono su Nicholas, che si allungò verso Joel e gli chiese stranito: «Era una battuta socialmente inappropriata?»

Joel sogghignò e gli rifilò una pacca d'incoraggiamento. «Nah, io l'ho apprezzata. Poco realistica, visto che non si potrebbe riconoscere un fantasma col cranio sfondato, ma carina».

Mi girai verso Remiel, che si limitò a scuotere il capo. Mi chiesi come potessero scherzare persino sul macabro omicidio della loro madre. Forse era solo una delle tante stranezze dei De'Ath su come affrontare una tragedia così traumatica e superare il lutto.

Mac sospirò. «Qualcuno con un cervello può prendere quella mappa?». Ethan fece per parlare, ma lo precedette. «Che non sia del trio degli idioti».

«Ehi!» protestò Seth. «Siamo in quattro. C'è anche Joel».

«È ancora nel verso sbagliato, Gabe» gli fece notare Layla, sbirciando da sopra la sua spalla.

Gabriel la fissò, il viso a pochi centimetri di distanza. «Hai un bel naso, Mary. Te lo hanno mai detto?»

«Dammi». Callum, che si trovava in coda al corteo, si avvicinò e gli strappò la cartina con un gesto brusco. La esaminò per un secondo, per poi raddrizzarla. Iniziò a muovere l'indice, man mano che dettava le indicazioni. «Le piste degli autoscontri sono da quella parte. Le montagne russe sono raggruppate di là. Andando dritti si arriva alla ruota panoramica».

«Non c'è nulla di più tranquillo?» implorò Isaac.

Joel si scompigliò i capelli biondi. «Tipo una mostra sui sassi?»

Isaac avvampò e abbassò lo sguardo sulla punta delle sue scarpe. Mac gli si parò davanti con fare protettivo. «Beh, il tuo maggior interesse è stare ad ammirarti allo specchio e ripeterti quanto sei bello. Non hai molto da criticare».

«Il luna park è piuttosto grande» proseguì Callum, noncurante della discussione in corso. «Meglio evitare di disperderci. Restiamo sempre in contatto e che nessuno giri da solo».

Avevo la sensazione che il suo discorso, pronunciato con una serietà inaudita, fosse rivolto soltanto ai suoi fratelli. Mi accigliai. «Non è un po' eccessivo?»

Kath si fece avanti. «Callum è iperprotettivo, scusatelo». Gli prese la cartina e la riconsegnò a Gabriel. «Allora, io vado con Joel agli autoscontri. Chi si unisce?»

Ero tentata, ma la mia priorità era liberarmi dai membri più fastidiosi e impiccioni della famiglia De'Ath. E magari anche ritagliare un po' di tempo insieme a Remiel, senza la presenza di Alexander che incombeva col suo sguardo di ghiaccio.

«Io! Ci sono anch'io!» Gabriel spiccò un saltello. «Se prometto di non tamponarti, vieni anche tu?» aggiunse, sorridendo a Layla.

«D'accordo».

Joel fece un cenno d'invito a Nicholas, che però replicò con una smorfia. «No, non mi piace guidare».

Roteai gli occhi. «Sono macchine finte».

«Appunto, angioletto. Guidarle ha ancora meno senso di quelle vere».

Seth increspò le sopracciglia. «Devi per forza chiamarla in quel modo?»

«Lo detesto anch'io, te lo assicuro» bofonchiai seccata.

Sky si alzò dalla panchina su cui si era seduta. «Bene. Vieni con me sulle montagne russe, Ethan?»

Lui scattò sull'attenti. «A sua disposizione, señorita».

«Chi è Rita?» obiettò Gabriel.

«Potrei venire anche...» esordii, solo per bloccarmi a metà frase. Adoravo alla follia le giostre, ma avevo la sensazione che sballottamenti e scossoni non fossero dei toccasana per una gravidanza. «No, non importa. Andate pure».

Ethan mi schioccò un bacio sulla guancia e bisbigliò: «Se non dovessi sopravvivere, regala a Rhys tutti i miei fumetti».

«A me cosa lasci?»

«Spiacente, non sei nel mio testamento».

Prima che potessi mollargli un calcio, Ethan si stava già allontanando con Sky. Nicholas li seguì con lo sguardo, le palpebre socchiuse. «Non mi piace. Vado con loro e, se la tocca, userò le sue dita per farci degli spiedini».

«No!» Seth lo afferrò per il retro della camicia e lo strattonò indietro. Quando i loro corpi si scontrarono, gli cinse il fianco con un braccio. «Tu resti con me, brontolone».

Nicholas sembrò combattuto per un attimo, poi gli ammiccò. «Ai tuoi ordini».

«E non fare l'adulatore» ribatté lui, spingendolo via.

Quasi la mandibola mi cadde a terra dallo stupore. Mi ero aspettata una risposta ironica e sprezzante, invece gli aveva davvero dato retta. Per la prima volta, mi accorsi che tra loro c'era qualcosa di... strano.

Il modo in cui si fissavano e si toccavano era strano, l'atteggiamento ostile di Seth nei miei confronti -soltanto i miei- era strano, il sorriso che Nicholas riservava a lui era strano. La loro amicizia era strana.

«Io e Isaac vi raggiungiamo dopo». Mac si tolse il berretto e lo ficcò sulla testa del diretto interessato, che lo guardava attonito. «Mi è venuta un'idea. Fidati».

«O-okay».

Inciampando a ogni passo, Isaac si lasciò trascinare via a braccetto. Mac non mi salutò neanche. Procedeva spedito, a saltelli, e sprizzava felicità da tutti i pori. Non ricordavo di averlo mai visto così felice.

Il nostro gruppo, decisamente ridotto, si incamminò verso la ruota panoramica. Io e Remiel procedevamo mano nella mano, con lo spettro di Alexander alle spalle. A poca distanza, Nicholas trotterellava accanto a Seth come un cagnolino. Infine Callum ci seguiva in disparte, il completo scuro che lo faceva apparire la nostra personale guardia del corpo.

«Tutto bene?» mi riscosse Remiel.

Rilasciai un fiotto d'aria dalle narici. «Ho appena fatto la mia prima rinuncia da madre».

Il suo sorriso tenero si adombrò leggermente. «Ti dispiace di non poter andare sulle giostre?»

«No, non è questo». Cercai le parole giuste, ma mi suonava un discorso ridicolo persino nella mia mente. Lo lasciai uscire e basta. «Mi fa solo paura pensare alle cose che probabilmente mi perderò, se decidessi di tenerlo. Come si va al college con un neonato?»

«La vera domanda è come si va al college con i tuoi voti» borbottò una voce, dietro di noi.

Lanciai un'occhiata truce ad Alexander. «Non mi pare di averti interpellato».

«Ignoralo». Remiel mi strinse più forte la mano. «Con il bambino ti aiuteremo noi, ovviamente. Possiamo trasferirci ovunque tu voglia andare a studiare. Siamo abituati a spostarci».

«Dubito che quel "noi" includa Nicholas, anche se è divertente immaginarlo a cullare un neonato come se fosse una bomba». Mi avvolsi nel giacchetto di pelle che portavo sopra la camicetta orlata di pizzo. Con l'infittirsi delle tenebre, il gelo si stava facendo sempre più pungente. «A proposito di Nicholas, che rapporto ha con Seth? Sono solo amici, o...»

Alexander fece uno sbuffo beffardo. «Non lo sanno neanche loro».

Remiel si voltò. «La pianti?»

All'improvviso Seth lanciò un gridolino emozionato e si fermò di fronte a uno degli stand. Quando lo raggiunsi, anch'io venni assalita dall'euforia.

Era un gioco di tiro al bersaglio. L'obiettivo era colpire dei palloncini con un fucile ad aria compressa, perfetto per me. Papà e John mi avevano insegnato a sparare all'insaputa di mia madre, ma erano passati anni dall'ultima volta che mi era stato permesso di toccare un'arma e di recente avevo scoperto che un po' mi mancava.

Se ne avessi avuta una alla centrale, forse mi sarei sentita meno terrorizzata. Se ne avessi avuta una con Josh, forse mi sarei sentita meno impotente.

Osservai Seth, che si affrettava a tirare fuori il portafoglio. «Ti piace così tanto il tiro a segno?»

«Che? No, mi fa schifo. Ho una mira di merda».

Aggrottai la fronte. «Allora perché...»

Seth indicò i vari premi esposti sui ripiani. Individuai subito il peluche che doveva aver attirato la sua attenzione, con le sembianze di un piccolo alberello umanoide. Sorrisi. «È uno dei Guardiani dell'Universo, vero?»

«Guardiani della Galassia, santo cielo. E si chiama Baby Groot».

Nicholas assunse un'espressione disgustata. «Ricordo quando mi hai obbligato a guardare quei film. Era insopportabile. A qualsiasi specie appartengano, i bambini sono una rottura di palle».

Scossi la testa. «Il padre dell'anno».

Scoprii che Seth aveva ragione: la sua mira era pessima. Su dieci palloncini riuscì a farne esplodere solo uno, e per puro caso. Una farfalla gli era volata davanti alla faccia e si era scansato di scatto, premendo accidentalmente il grilletto. Nicholas si era sbellicato dalle risate davanti a quella scena e l'amico gli aveva sbattuto il fucile sulla testa per ripicca.

«Niente» sospirò Seth, dopo aver fallito l'ultimo tentativo. Si rivolse all'uomo che gestiva lo stand. «Non c'è un premio di consolazione per il peggiore? No? Neanche un pacchetto di noccioline? Che tirchi».

Nicholas gli posò il mento sulla spalla, abbracciandolo da dietro. «Posso prendertelo io, se vuoi».

Credevo fermamente che i ragazzi fossero liberi di scambiarsi effusioni d'affetto quanto le ragazze, senza pregiudizi, ma era difficile non dare ai loro gesti una connotazione romantica.

Seth inclinò il capo per poterlo guardare. «Tu non sai sparare».

«Ho detto prenderlo, non vincerlo».

«Toglietevi». Li scansai, gettai i soldi sul bancone e imbracciai il fucile. Dopo qualche secondo, feci scoppiare il primo palloncino e poi subito un altro. Provai un moto di soddisfazione. Ero meno arrugginita di quanto pensassi.

Seth fece un fischio ammirato e mi si accostò. «Mi dispiace per averti trattata male. Sappi che non ho nulla contro di te, anzi mi stai anche simpatica. Lo specifico qualora tu fossi mai tentata di uccidermi».

Non sbagliai un colpo. Quando il tizio dello stand mi chiese quale premio volessi, mi girai verso Seth. Ciondolava sui piedi con le mani nelle tasche, lo sguardo ancora deluso che vagava per il luna park. Indicai il pupazzo di Baby Groot e glielo porsi. «Tieni».

Lui rimase imbambolato per un istante, colto alla sprovvista. Poi lo stupore si sciolse in un sorriso imbarazzato. «No, non serve. Tienilo. A Rhys piacerà di sicuro». I suoi occhi neri si abbassarono sulla mia pancia. «E non solo a lui».

«Intanto prendilo tu. Glielo regalerai quando nascerà».

Siccome Seth esitava, glielo lanciai tra le braccia senza tanti complimenti. Il suo sorriso si allargò ed ebbi la stessa impressione che avevo con Keegan e con i De'Ath: quella di trovarmi davanti a un bambino che non era stato amato abbastanza.

«Sei piena di sorprese, tesoro» commentò Nicholas al mio orecchio.

Il mio sguardo si incatenò al suo e mi paralizzai, malgrado fossi già pronta ad aggredirlo.

Non aveva nessun ghigno di scherno sul volto. Le sue iridi blu brillavano di uno scintillio diverso da quello malizioso che detestavo, forse uno sprazzo remoto del ragazzo sepolto sotto l'armatura di arroganza e cattiveria. Non mi stava prendendo in giro. Aveva apprezzato ciò che avevo fatto.

«Ricordatelo, la prossima volta che fai lo stronzo».

Arrivati alla ruota panoramica, ci mettemmo in fila per comprare i biglietti. Quando venne il nostro turno, rimasi sbalordita nel ritrovarmi in una cabina vuota da condividere con Remiel.

Aggrottai la fronte. «Perché ci siamo solo noi?»

«Potrei aver preso tutti i posti disponibili». Remiel si strinse nelle spalle, le gote arrossate. «Avevo voglia di stare con te, senza quelle piaghe dei miei fratelli».

Mentre la gigantesca ruota prendeva vita, barcollai fino al vetro e mi aggrappai alla sottile asta di metallo orizzontale. La cabina si era staccata dal terreno e stava lentamente salendo verso il cielo, un'uniforme macchia d'inchiostro su cui si imponeva una falce di luna incoronata da nubi dense e fosche. Attorno a noi Notturn Hall sprofondava nella notte, come una creatura dormiente rannicchiata sul letto di una natura selvaggia. E, sperduta in mezzo alle lenzuola verdi delle foreste e delle praterie, si imponeva in lontananza la figura del castello maledetto di Crystal Lake.

Remiel si appoggiò con la schiena alla parete trasparente e incrociò le braccia sul petto. «Sai, ci sono rimasto male quando mi hai chiesto di uscire».

Lo scrutai, perplessa. «In che senso?»

«Nel senso che volevo chiedertelo io». Repressi un sospiro di sollievo, non abbastanza bene a giudicare dal guizzo che ebbero le sue labbra. Era un sorriso malinconico, però. «Mi piaci, Arya. Non è un segreto per nessuno. Mi sono sforzato di nasconderlo, ho persino provato a evitarti. Ho rifiutato di venire a quella stupida festa di compleanno per non rischiare di incontrarti, nonostante la voglia di vederti fuori da scuola mi stesse consumando».

«Non capisco. Qual è il problema, se ti piaccio?»

«Il problema è che sono un De'Ath». Remiel si passò una mano sul viso. «Non hai idea di come sia la mia famiglia. Delle cose che abbiamo fatto, che anch'io ho fatto. Dovresti scappare il più lontano possibile da noi».

«Anche da te?»

«Sono una brutta persona, Arya. Sono solo più bravo a controllare quella parte di me, ma non posso promettere che un giorno ciò che ho dentro non ti farà del male». Chinò la testa con aria colpevole. «E non voglio».

Mi avvicinai e, posandogli un dito sotto il mento, lo costrinsi a fissarmi. I suoi occhi verdi erano lucidi, come la superficie del mare in una calda giornata estiva, scosso dalle onde di un tormento che mi spezzava il cuore. Non conoscevo le sue ferite, ma avrei voluto guarirgliele tutte e cancellarne le cicatrici. Le anime buone non avrebbero dovuto soffrire tanto, soprattutto quelle che rimanevano tali anche dopo il dolore.

«Sono stata con un ragazzo che mi ha fatto del male, Remi». Gli accarezzai la guancia, sentendo il suo corpo che si irrigidiva contro il mio. «Non se n'è mai preoccupato, ancora oggi dubito che si sia anche solo reso conto degli errori che ha commesso».

Remiel deglutì. «Mi dispiace tanto».

«A lui no. Questa è la differenza». Gli percorsi la linea della mandibola con l'indice e sorrisi. Il cuore mi tuonava contro la gabbia toracica, rincorrendo i battiti del suo traditi dal respiro affannoso. «Mi piaci anche tu, comunque».

«Ti ho preso una cosa. Cioè, non l'ho proprio presa, l'ho fatta. Per te». Infilò la mano in tasca e ne estrasse un cofanetto bianco. «Me la porto dietro da un po', ma non ho mai trovato il coraggio di dartela. È un pensiero stupido. Niente di che».

«Fai giudicare me».

Gli presi la scatolina e la aprii. Increspai le sopracciglia, non capendo subito che cosa contenesse. Era un semplice braccialetto formato da petali cristallizzati di tre colori: bianchi, rosa e rossi. Al tatto erano lisci e morbidi, con una lamina di rame dorata lungo i bordi e cosparsi di resina. Era il dono più bizzarro e originale che avessi mai ricevuto.

«Sono petali di camelia» sussurrò Remiel a fil di voce. «Ogni colore ha un significato. Le camelie bianche indicano adorazione, quelle rosse sono simbolo di passione, ma le mie preferite sono quelle rosa. Racchiudono una nostalgia profonda, viscerale. È la mancanza di una persona da cui vorresti non separarti, che siate distanti da cinque minuti o da una vita intera».

Sollevai il capo. «È stupendo. Le camelie sono le tue?»

Remiel annuì, paonazzo. Tentò di distogliere lo sguardo, ma gli infilai le dita tra i capelli corvini per tenerlo fermo. «Le sto coltivando nelle serre a casa mia, tra le altre cose. Mi piacciono molto i fiori, le piante. Puoi immaginare quanto questo mi renda oggetto di battute da parte dei miei fratelli».

Appena feci per parlare, la cabina cominciò la discesa e persi l'equilibrio. Lui mi mise le mani sui fianchi per sorreggermi e, prima che entrambi potessimo renderci conto di cosa stesse succedendo, avevo già premuto le labbra sulle sue. Remiel si bloccò per un attimo, poi rispose al bacio.

Persi la cognizione del tempo. I problemi si dissiparono, fluttuando come nuvolette ai margini del mio cervello. Dimenticai che la notte prima avevo rischiato di morire, dimenticai che mio padre era stato ucciso e che i responsabili probabilmente se la sarebbero presa anche con me. Dimenticai addirittura di essere incinta di un ragazzo per cui non provavo altro che rancore, di aspettare un figlio di cui non ero certa di potermi prendere cura.

In quel momento, c'eravamo solo io e Remiel. Solo noi. Ed era tutto perfetto.

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