𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 26 (Arya)
"𝔇𝔢𝔩 𝔡𝔢𝔰𝔱𝔦𝔫𝔬 𝔱𝔲𝔱𝔱𝔬 𝔰𝔦 𝔭𝔲𝔬̀ 𝔡𝔦𝔯𝔢,
𝔱𝔯𝔞𝔫𝔫𝔢 𝔠𝔥𝔢 𝔫𝔬𝔫 𝔞𝔟𝔟𝔦𝔞 𝔦𝔩
𝔰𝔢𝔫𝔰𝔬 𝔡𝔢𝔩𝔩'𝔲𝔪𝔬𝔯𝔦𝔰𝔪𝔬"
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Non riflettevo mai prima di agire.
Da bambina avevo avuto la pessima idea di imbottire le scarpe di polistirolo pur di salire su una giostra, per cercare di compensare i pochi centimetri d'altezza che mi mancavano. Un'altra volta, a tredici anni, ero salita su un treno all'insaputa di mia madre con l'obiettivo di andare a un concerto di Harry Styles in Europa. Come intendessi arrivarci tramite ferrovia non è dato saperlo neanche a me.
Al primo anno di liceo, avevo fatto amicizia col capitano della squadra di basket e in seguito avevo ceduto alla sua corte sfrenata, nonostante godesse della nomea di cattivo ragazzo. Più di recente, ero andata a ubriacarmi a una festa per dimenticare il dolore di quella rottura e della relazione tossica che l'aveva preceduta, finendo nel letto di un altro caso umano.
Se venivo messa davanti a due opzioni, entrambe corrette, io trovavo il modo di crearne una terza sbagliata e mi ci tuffavo a capofitto. È facile criticare le persone impulsive per coloro che non lo sono, ma non lo facevo apposta. Non più di quanto un disordinato scegliesse di avere il caos totale sulla sua scrivania, o un ritardatario cronico tendesse a non essere puntuale.
Era la mia natura.
Semplicemente, mi piaceva vivere. E mi piaceva farlo all'insegna delle emozioni, degli istinti, delle avventure. Allo spettacolo di marionette mosse dai fili, io preferivo il mangiafuoco o il funambolo che sfidavano la sorte. Non era un aspetto del mio carattere di cui mi vantavo. Ma la morte di mio padre mi aveva insegnato quanto in fretta il futuro, con tutti i sogni e le speranze, poteva esserti strappato.
Il tempo che crediamo di avere è un'illusione, il presente una costante certezza. Quindi sì, amavo vivere il presente. Peccato che il destino è un bastardo che viene sempre a riscuotere per ogni cattiva decisione... e i suoi prezzi sono salati.
Per me, il giorno in cui mi presentò il conto era un lunedì.
«Che faccia da zombie, hermana».
Ignorai il gentile commento di Ethan, diedi una rapida carezza a Balto e andai ad afflosciarmi sullo sgabello. Mi sentivo uno schifo. Tralasciando i sogni erotici su Nicholas, dormivo poco ed ero costantemente esausta. Mi girava la testa, ogni tanto mi facevano pure male le tette. Infine, ciliegina sulla torta, si era aggiunta anche una simpatica nausea.
Dalla teoria dell'invecchiamento precoce ero passata a un'altra: influenza. Una lunga e tediosa influenza senza febbre. Per ora. Con la sfiga che mi ritrovavo, ero convinta che sarebbe arrivata anche quella.
"E allora perché il ciclo non..."
Scacciai quel pensiero molesto ancora prima di finire di formularlo, confinandolo in un angolo remoto del mio cervello. Stavo bene. Sarei guarita.
«È vero. Sei un po' pallida, tesoro». Mia madre mi fissò apprensiva, in piedi dall'altra parte del bancone. «Sicura di riuscire ad andare a scuola?»
«Sì, sono solo stanca. Mi faresti un caffè?». In seguito, avrei apprezzato l'ironia: se fossi stata a casa quella mattina, probabilmente oggi non sarei morta. Ops.
Eryn si portò una mano al petto. «Tu che non approfitti di una scusa per saltare le lezioni? Hai scoperto di avere una malattia terminale e diplomarti è il tuo ultimo desiderio?»
Sgranocchiai un biscotto, gustandomi il sapore del cioccolato, poi feci una smorfia acida a mia sorella. «Se l'antipatia potesse uccidere, saresti già tre metri sottoterra».
Non l'avevo ancora perdonata per aver denunciato Keegan. Sapevo che razionalmente era la cosa giusta da fare, era pur sempre uno sconosciuto arrivato chissà come a casa nostra, ma ero comunque furiosa.
Quel ragazzo non meritava di stare in una cella. Non poteva essere lui il responsabile dell'incendio alla scuola, non ne sarebbe stato in grado - anche materialmente parlando. Il fatto che persino John non sembrava intenzionato ad aiutarlo, nonostante la sua innocenza fosse evidente, mi faceva fremere di rabbia.
Mi aveva permesso di andare a trovarlo solo una volta, la mattina dopo averlo rinchiuso. Vederlo acquattato in un angolo, con aria quasi rassegnata, mi spezzava il cuore. Anche se gli spazi chiusi lo spaventavano, sembrava così abituato alla reclusione da non opporvi nessuna resistenza.
«Voi due smettetela, per favore» ci rimproverò la mamma in tono bonario.
Ethan le fece un cenno distratto e si infilò un cucchiaio di cereali in bocca. «No, non interromperle. Stanno per fare a botte».
Rhys bevve un sorso di succo d'arancia. «Punto su Eryn».
«Anch'io. Scusa, Arya, sei la luce dei miei occhi, ma lei fa molta più paura».
Li guardai truce entrambi. Mia madre mi diede un buffetto affettuoso e mi mise davanti una tazza di caffè. Con miele e cannella, come piaceva a me. Appena la sollevai, però, il suo odore pungente mi penetrò nelle narici e un conato mi assalì.
Mi alzai di scatto e corsi in bagno, il terrore che mi si annidava nel petto. Fin da bambina avevo una vera e propria fobia del vomito. Il risultato era che mi veniva spontaneo cercare di trattenermi, con lo stomaco che mi si rigirava nelle viscere in modo tutt'altro che piacevole.
Ethan accorse subito a tenermi i capelli, mentre io stavo china sulla tavoletta. Quando ebbi finito, lo ringraziai e mi sciacquai nel lavandino, cercando di calmarmi. Avevo la fronte imperlata di sudore, le ciocche nere appiccicate.
«Ehm, Arya» sussurrò Ethan cauto, socchiudendo la porta del bagno per evitare che ci sentissero. «Non voglio fare l'uccello del malaugurio o altro, ma devo chiedertelo. Tu e Nicholas avete usato protezioni, vero? Quando avete fatto, sai, fiki fiki».
Riposi l'asciugamano e feci una risatina che suonò forzata persino alle mie orecchie. «Certo, è ovvio. Non sono così irresponsabile».
«Eravate ubriachi. Magari non...»
«Sono sicura, okay?» sbottai spazientita.
"Bugiarda. Sai benissimo che non è vero, lo hai ricordato".
Ignorai la vocina nella mia testa, ignorai lo sguardo fin troppo comprensivo di Ethan, ignorai tutto. Stavo bene. Era solo un'influenza. Sarei guarita.
Tornammo insieme nel soggiorno tallonati da Balto. Tutti gli occhi si puntarono su di noi. Eryn aveva le palpebre ridotte a due fessure e sul volto di mia madre si era dipinta un'espressione allarmata.
«Ti senti male, tesoro?» chiese quest'ultima.
«È per la cena di ieri sera. Siamo andati al Mc e ho dimenticato di togliere la cipolla. Sai che non la digerisco bene» improvvisai con un sorriso tirato, dando una gomitata a Ethan.
Lui mi resse il gioco. «Confermo. C'era davvero tanta cipolla». Mi annusò e simulò una smorfia inorridita. «Infatti, ha ancora un alito che stenderebbe un elefante. E stanotte giurerei di averle sentito fare delle puzzette che...»
«Adesso non esageriamo». Gli scoccai un'occhiataccia.
«Forse ero io, per le puzzette» ammise Rhys.
Il suono della marcia imperiale di Star Wars pose fine a quella scena imbarazzante. Io e Ethan prendemmo i giubbotti, salutammo in fretta e uscimmo di casa, accompagnati dai consueti ululati di protesta di Balto.
Mac e Deena ci aspettavano nel furgone, accostato col motore acceso sul ciglio della strada.
«Le puzzette? Sul serio?» mugugnai, salendo per prima.
Ethan mi seguì. «Mi sono calato troppo nella parte?»
«Scusate». Sul lato passeggero, Deena indicò oltre il finestrino. «Perché vostra sorella sta venendo verso di noi con quella faccia assassina?»
Mac alzò le mani dal volante. «Vi avverto. Se vuole attentare alle vostre vite, io non mi metterò in mezzo per salvarvi».
Eryn raggiunse il furgone, aprì la portiera ed entrò. La richiuse con un tonfo e si sistemò sul sedile, le cuffie infilate nelle orecchie. Dopo qualche secondo aggrottò la fronte, accorgendosi di essere al centro dell'attenzione. «Beh? Aspettiamo un segnale divino per partire?»
«Di solito vai in pullman» le feci notare.
«Fatemi capire. Sono anni che vi offrite di darmi uno strappo, accetto per una volta e mi rompete le scatole?»
Nessuno si azzardò a obiettare.
Giunti all'entrata della scuola, mia sorella si separò dal nostro gruppetto, ma non prima di aver preso in disparte Ethan per mormorargli qualcosa con fare piuttosto serio. Poi mi scrutò per un istante e infine si allontanò.
«Che ti ha detto?»
«Vorrei riferirtelo, corazón, ma ha minacciato di soffocarmi nel sonno con un cuscino».
Layla ci venne incontro e andammo a recuperare i libri nei nostri rispettivi armadietti. Aprendo il mio, un foglio scivolò fuori e svolazzò fino a posarsi a terra. Mi chinai per raccoglierlo, accigliata. Era ripiegato in due e al suo interno c'era un disegno a matita, realizzato con delle ombreggiature che lo rendevano molto curato e realistico.
Ritraeva una figura femminile a mezzo busto, vestita con un'elegante armatura che le fasciava il corpo e le dava un'aria al tempo stesso sensuale e letale. A causa dell'elmo, impiegai qualche secondo a cogliere la somiglianza tra il suo viso e il mio.
Ne rimasi di stucco. Avevo un vago sospetto su chi potesse essere l'artista, ma sarebbe stato così assurdo che scartai l'ipotesi.
«Ehi».
Sollevai il capo. Remiel mi si stava avvicinando, le labbra increspate in uno dei suoi sorrisi teneri. Gli creavano una piccola fossetta sul mento, piuttosto adorabile. Il pensiero che era la prima volta che veniva a parlarmi di sua iniziativa mi avrebbe fatta gongolare come una tredicenne alla prima cotta, se solo i suoi scintillanti occhi verdi non avessero tradito un'ombra di tristezza.
«Ciao». Ficcai il disegno in tasca. «Tutto okay?»
«Non proprio» sospirò Remiel, fermandosi di fronte a me. Il ciondolo col simbolo dei De'Ath gli pendeva sulla camicia blu dal colletto aperto. «Questo è il nostro ultimo giorno di scuola. Mio e dei miei fratelli. Ce ne andiamo».
Soffocai a stento un'imprecazione. «Com'è possibile? Perché? Siete qui da meno di due mesi. Cos'è successo?» sparai a raffica, incredula.
«Questioni di famiglia. Saremmo dovuti partire già ieri in realtà, ma ho convinto mio fratello a rimandare a oggi pomeriggio per rivederti». Remiel si strinse nelle spalle, abbassando la testa per l'imbarazzo. «Anche se non siamo amici, mi sembrava brutto sparire e basta. Ecco».
Le farfalle svolazzarono nel mio stomaco a quelle parole. «Ma potremo comunque rimanere in contatto, no? Hai il mio numero».
«Meglio di no. Scusa. Ci sono già passato e... non mi va». Remiel ridusse la distanza tra di noi e mi sfiorò la mano con la punta delle lunghe dita, facendomi rabbrividire. Il suo tocco era leggero e rassicurante. «Non dirlo in giro, per favore. Non vogliamo pubblicità».
Annuii. La sua richiesta mi dava l'impressione che fosse più una fuga che una partenza. Non tentai neanche di fargli domande a riguardo, tanto non avrebbe risposto.
Per il resto della mattina, riuscii a pensare soltanto ai De'Ath. Se la morte di mio padre era davvero collegata a loro, avevo bisogno di raccogliere informazioni e il tempo per farlo era agli sgoccioli. Non potevo permettere che se ne andassero, non senza prima averci parlato.
Ma erano dannatamente riservati sul loro passato, non mi avrebbero mai spifferato dei dettagli così personali. A meno che non avessi trovato il modo di torchiarli con un interrogatorio. Non sarebbe stato molto corretto e mi dispiaceva, soprattutto per Remiel, però avevo bisogno di scoprire la verità. A qualsiasi costo.
Al termine delle lezioni, io e i miei amici ci recammo alla mensa. Mentre facevamo la fila, il mio sguardo continuava a scivolare al tavolo nell'angolo, quello che occupavano sempre i fratelli De'Ath. A giudicare dalle loro facce serie, erano assorti in una conversazione importante. Gabriel gesticolava all'impazzata e i suoi strilli quasi sovrastavano il chiacchiericcio generale.
«Oh no» esclamò Mac. Mi stava fissando con gli occhi azzurri sgranati. «Hai la tua faccia di quando stai per fare una cavolata».
Increspai le sopracciglia. «Non è vero».
Ethan mi studiò il volto per un attimo. «I segnali ci sono tutti, confermo. Aryata in arrivo».
«Speriamo che ci siano i sandwich al formaggio anche oggi» commentai, cercando di cambiare argomento.
Layla ridacchiò. «Cos'è questa fissa per il formaggio ultimamente? Se non fosse impossibile, penserei che hai le voglie»
"Già. Impossibile".
Appena ebbi riempito il mio vassoio, mi incamminai. Deena mi trattenne per un braccio e sibilò in tono categorico: «Non fare stupidaggini».
Mi divincolai con uno sbuffo. Era frustrante essere trattata come se avessi potuto mettermi a fare uno spogliarello in qualsiasi momento. Non ero una bambina.
Mi diressi verso il tavolo in cui prendevamo posto di solito. Senza rendermene conto, tuttavia, lo superai e i miei piedi proseguirono in un'altra direzione. Avvertii le occhiate degli studenti puntate su di me, ma non lasciai che mi scoraggiassero. Il brusio nella mensa si attenuava man mano che diventava sempre più chiara la mia destinazione.
«Io non ce la faccio più a non parlargli» stava dicendo Isaac, torcendosi le dita.
Gabriel emise un respiro melodrammatico. «Mi sento in colpa a trattarlo male, lo confesso. Spezza il mio fragile cuoricino».
«Trattarlo male? Tu? Ma se stamattina gli hai anche fatto un'emoji sorridente sui pancake con il ketchup» commentò Sky.
«Dicendogli di girarla. Al contrario, era un'emoji molto molto triste».
«Posso unirmi a voi?»
I De'Ath si voltarono all'unisono. Erano visibilmente disorientati, e potevo ben immaginarne il motivo. Nessuno osava mai sedersi con loro, anzi neanche vicino a loro. Per tutti erano i fratelli pazzi, belli da togliere il fiato, ma da ammirare da lontano.
«No». Fu la secca risposta di Alexander, che sembrava volermi incenerire con lo sguardo.
«Le belle ragazze sono sempre le benvenute» mi ammiccò Joel.
«Ma certo che puoi!» Gabriel si allungò e mi tirò a sedere tra lui e Remiel. Mi diede una pacca sulla schiena, saltellando per l'emozione. «Che bello! Sei ufficialmente la nostra prima amica! Ti vuoi iscrivere al mio blog?»
«Hai un blog?» chiesi incuriosita, posando il vassoio.
Sky scosse la testa, la chioma bionda che le ondeggiava sulle spalle. «Non hai idea di cosa hai appena scatenato».
Gabriel annuì con tale foga che ebbi paura che gli si spezzasse l'osso del collo. «L'ho aperto da poco. Si chiama l'Allegro Mietitore. È quello con il logo di uno scheletro con il pollice all'insù che si scatta su selfie».
Non mi sarei mai abituata alle stranezze di quella famiglia.
Presi il mio sandwich con prosciutto e formaggio e ne strappai un morso. Di fronte a me c'era Joel, che stava studiando con meticolosa attenzione il mio seno attraverso la scollatura della camicetta.
Gli schioccai le dita davanti al viso. «La mia faccia è più in alto».
«Lo so, principessa. Ti sto guardando le bocce». Joel si accigliò. «Hai fatto un ritocchino, per caso?»
Gabriel si bloccò nell'atto di sbucciare la banana. «A me piace giocare a bocce».
Isaac arrossì, ricurvo sulla sua insalata. Remiel quasi sputò l'acqua che stava bevendo ed esplose in un colpo di tosse. «Sei disgustoso, Joel. Piantala» lo rimproverò, riservandomi poi un'espressione mortificata.
Alexander roteò gli occhi di ghiaccio. Le grosse cuffie che gli spuntavano da sotto il cappuccio scuro dovevano essere spente, come al solito. «Sa difendersi anche da sola».
Il telefono mi vibrò nella tasca. Lo estrassi e lessi il messaggio inviato da Ethan: "Scopri se Sky è single, per favore. E anche quale sarebbe la sua location ideale per un eventuale futuro matrimonio".
Sorrisi tra me e riposi l'apparecchio nei pantaloni. «Allora» esordii, raddrizzandomi sulla sedia. «Remi ha detto che state per andarvene. Per dove?»
Alexander mi fissò, piluccando dal suo piatto in maniera pigra. Impugnava la posata con la mano sinistra, la destra adagiata sul tavolo con le dita rigide. «Tu non dovresti saperlo».
Prima che Remiel potesse intervenire in mio favore, lo fronteggiai. «Possiamo tornare ai tempi in cui non mi rivolgevi la parola? Che sarebbe da ieri. Grazie». Non attesi che mi rispondesse e recuperai il mio tono gentile. «Allora, andate da uno dei vostri zii?»
«Improbabile. Non li conosciamo nemmeno». Joel puntò la forchetta verso di me. «Giurerei che sono più grandi».
Lo guardai torva. «Fai un altro commento inopportuno sulle mie tette e ti arriva un calcio in punti sensibili».
«Io spero in Alaska» si intromise Gabriel. Aveva tagliato la banana e ne stava infilando le fettine dentro il panino. «È una terra così affascinante, piena di foreste e di ghiacciai. La patria delle corse da slitta con i cani, delle verdure giganti e dei terremoti. La adoro».
«Ci siete stati?»
«No, mai. Ma se penso all'Alaska, nel mio immaginario ci sono tutte queste cose. Me le ricordo da un documentario ambientato lì».
«Io preferirei non andare da nessuna parte» mormorò Isaac, così piano che a malapena lo udii.
«Non possiamo arrenderci». Sky picchiò un pugno sul tavolo, facendomi sobbalzare. «Dobbiamo convincere Callum a farci restare».
Inghiottii l'ultimo boccone del sandwich. «Siete quasi tutti maggiorenni, no? Se non volete, non può mica obbligarvi».
I volti dei De'Ath si distorsero in una smorfia collettiva. Nonostante non ci fossero grandi somiglianze fisiche tra di loro, in quel momento mi apparvero identici. Se avessi suggerito di organizzare un'orgia in una chiesa, probabilmente ne sarebbero stati meno sconvolti.
«Noi non ci separiamo» spiegò Remiel con un mezzo sorriso. Era così vicino che sentivo l'odore del suo profumo. «Siamo una famiglia». Pronunciò quel termine con un alone di sacralità.
Esitai per un istante. Sarei stata indiscreta, ma cosa importava? Tanto non ci saremmo più rincontrati. «A proposito, come potete avere la stessa età? Siete adottati?»
Avevo fatto la domanda perlopiù a Gabriel, la cui incapacità di stare zitto lo rendeva l'anello debole tra i fratelli. Infatti, fu proprio lui a parlare in preda alla concitazione. «Ah ah. I nostri genitori ci hanno adottati intorno ai due o tre anni. Tranne Alexander, che ne aveva sei, credo. Nik è il loro unico figlio biologico». Mi porse il suo panino. «Tacchino e banana. Delizioso. Vuoi assaggiare?»
Ora sì che avrei potuto vomitare di nuovo. «No, grazie. Tutto tuo. Quindi, non avete legami di sangue?»
«Saremmo cugini, tecnicamente. I nostri zii hanno l'abitudine di...»
«Gabe, perché non mangi a bocca chiusa?» soggiunse Sky irritata.
Alexander si abbassò il cappuccio. I capelli platinati erano appiattiti e un ciuffo gli ricadeva in mezzo alle sopracciglia. La sua maschera di freddezza mi faceva rabbrividire. «Per questo sei venuta al nostro tavolo, vero? Per farti gli affari nostri e avere di che spettegolare, dopo la nostra partenza».
Gli scoccai un'occhiataccia. «Ti sei svegliato con la luna storta o ti sto solo antipatica? Nel primo caso, risolviti i tuoi problemi. Nel secondo, sii coerente con te stesso ed evita di regalarmi i tuoi disegni».
«Che cosa tenera» disse Gabriel commosso. Non c'era nessuna nota di scherno, lo pensava davvero.
Alexander si irrigidì di colpo, serrando la mano fino a piegare in due la forchetta. Ci provai anch'io con la mia per curiosità, ma non si mosse neppure. Che razza di forza doveva avere per riuscirci? Oppure, più probabile, ero io che avevo le prestazioni atletiche di un bradipo.
Remiel trasalì. «Le hai regalato dei tuoi disegni?»
«Non è vero» borbottò immusonito.
«Sì, invece». Gli feci un sorrisetto sarcastico. «A meno che non ci sia un altro stalker con una passione per l'arte che passa le ore di lezione a guardarmi».
«Tenera e inquietante» si corresse Gabriel.
Joel rifilò al fratello un buffetto sulla spalla e sogghignò. «Devo insegnarti a rimorchiare, Romeo».
Alexander gli agguantò i capelli biondi e gli fece sbattere la testa contro il tavolo. La violenza dell'impatto mi strappò un sussulto. Joel gemette e poi riprese a sghignazzare, gli altri invece quasi non si scomposero. Si comportavano come se quella fosse la cosa più normale al mondo per loro.
«È stato un piacere conoscerti, Arya». Sky mi liquidò con un cenno sbrigativo. Sembrava contrariata. «Salutami il tuo amico. Ethan, mi pare».
Mi alzai. «Beh, fate buon viaggio».
Il mio sguardo si posò su Remiel, che lo ricambiò amareggiato. Non avevo nulla da perdere, rammentai.
Così mi chinai e gli schioccai un sonoro bacio sulla guancia. Joel lanciò un fischio canzonatorio, ridendo a crepapelle. Qualcuno sbuffò, non capii chi. Quando mi ritrassi, Remiel era rosso come un pomodoro, ma sorrideva.
Gabriel divorò un altro pezzo del suo panino. «Uffi, avrei voluto farvi una foto e postarla sul mio falso profilo Instagram. Il tag "triangolo amoroso" fa un sacco di like, sapete?»
Mi voltai verso Alexander, che si era rabbuiato. «Ciao anche a te. Comunque grazie per il disegno, sei molto bravo».
Lui abbassò la testa e bofonchiò un insulto sottovoce. Anche se aveva provato a nasconderlo, mi ero accorta del guizzo appena percettibile che gli aveva increspato l'angolo della bocca. La considerai una piccola vittoria.
Ero distesa sul mio letto a fissare il soffitto. Balto era rannicchiato accanto a me, con il muso sul mio grembo. Sempre sul mio grembo. Gli grattavo le orecchie con una mano, mille pensieri che mi si accavallavano nella mente.
Sarei dovuta andare alla centrale di polizia, per tentare di persuadere John a farmi parlare con Keegan, ma non me la sentivo. Avrei voluto seppellirmi sotto le coperte e non riemergerne mai più, nella speranza che il resto del mondo si dimenticasse di me.
Invece, continuavo a sbirciare l'orario sulla mia sveglia. Ogni minuto che scivolava via poteva essere l'ultimo che i De'Ath trascorrevano a Notturn Hall. Chissà, forse se n'erano già andati. Non li avrei mai più ritrovati, e allora avrei dovuto affrontare tutto da sola.
"Tutto cosa?"
Scossi il capo. La mia vista cominciò ad appannarsi e un pizzicore intenso mi punse dietro agli occhi. Espirai dalla bocca un fiotto d'aria, facendo una smorfia quando una fitta mi trapassò le tempie.
Non ero pronta. Mi serviva solo più tempo. Non volevo altro.
La porta si aprì e sulla soglia si affacciò mia madre. «Ehi, tesoro, porto Rhys al parco. Vuoi venire con noi?»
Mi schiarii la gola. «No, non mi va. Tra poco devo studiare».
«Esci con i tuoi amici anche stasera?»
«Non credo».
Mia madre indugiò sulla soglia, poi si avvicinò e si sedette sul letto. La sua espressione dolce alleggerì un po' il peso che mi gravava sul petto. «È successo qualcosa? Problemi con un ragazzo?»
Mi scappò una risatina mezza strozzata. «In un certo senso».
«Josh?» chiese, dopo un attimo di esitazione.
Il timore sul suo volto mi fece sentire in colpa. Sapevo che era stato straziante per lei il periodo in cui stavo male per Josh, ma non riuscivo a chiudere la nostra storia. Non dormivo quasi nulla, mangiavo poco e piangevo più di quanto parlassi. Lo avevo fatto anche dopo la morte di papà. Non volevo per nessun motivo che ci ripassasse, non potevo far soffrire di nuovo le persone che amavo. Non era giusto.
«No, tranquilla. Mi sta lasciando in pace, forse ha imparato la lezione». Forzai un sorriso. «Non è niente, davvero. Solo una stupida cotta».
Lo sguardo di mia madre era scettico; in effetti, non era la mia miglior bugia. Si chinò e mi avvolse in un abbraccio. I suoi ricci rossi sulla faccia mi facevano quasi starnutire. Quando cercò di staccarsi, la strinsi più forte ancora per qualche secondo, finché Balto si intromise leccandoci la faccia a entrambe con un versetto gioioso.
Non capivo perché molti pensassero che gli adolescenti non avessero bisogno dell'affetto dei genitori. Anche se lo cercavano meno dei bambini, nel profondo non si smetteva mai di desiderarlo. Io no, di sicuro. Avrei potuto visitare migliaia di posti nel corso della mia vita, ma non ne avrei mai trovato uno in cui mi sentissi protetta come tra le braccia della mia mamma.
«Ricorda che ci sono sempre per te. Puoi dirmi qualsiasi cosa e la risolveremo insieme. D'accordo?»
Annuii, tirando su con il naso.
«Dai, mammina! Muoviti!» urlò la vocetta di Rhys dal piano di sotto.
Mia madre mi diede una carezza, poi si alzò e uscì dalla camera, solo dopo avermi gettato un'ultima occhiata preoccupata.
Rimasi immobile a guardare un punto vuoto finché non sentii il rumore del portone che sbatteva. Eryn era rimasta a scuola per delle ripetizioni ed Ethan era uscito per un impegno di cui non aveva voluto parlarmi, quindi adesso ero da sola in casa.
Sospirai e mi misi a sedere. Dovevo svuotarmi la vescica, di nuovo. Ormai avrei potuto prendere la residenza sul gabinetto. Tanto valeva che mi togliessi il dubbio.
Con Balto che mi seguiva a ogni passo, mi avvicinai alla scrivania e aprii il cassetto. Incastrata sul fondo, c'era una scatolina oblunga. Era lì da una settimana, eppure non l'avevo ancora neanche toccata. Lo avrebbe reso troppo reale.
Avevo chiesto a Felicity, la collega con cui John usciva da mesi, di comprare un test di gravidanza al posto mio in farmacia. Le avevo mentito, dicendo che era per una mia amica che si vergognava a farsi vedere a prenderlo. Avevo un buon rapporto con lei ed era una donna meravigliosa, ma non volevo rischiare che a Notturn Hall si spargessero dei pettegolezzi.
Già immaginavo gli epiteti che mi avrebbero affibbiato, a prescindere dall'esito.
Con le dita tremanti, aprii la scatola e feci scivolare sul palmo sudato il test. Andai in bagno, chiudendo Balto fuori dalla porta. Il cuore mi tuonava in gola. La situazione era così assurda che, mentre mi sedevo sul water, ero in bilico tra strapparmi i capelli per il nervosismo o esplodere in una risata isterica.
Quando ebbi finito, rimasi in attesa. Sulla confezione era scritto che avrebbe impiegato qualche minuto. Per tutto il tempo, tenni lo sguardo rivolto al soffitto, mordendomi il labbro fino a farlo sanguinare.
Per favore, fai che sia negativo.
Se è negativo, non berrò mai più un solo goccio d'alcol e smetterò di fare stronzate, lo giuro.
Alla fine, trovai il coraggio di guardare. Due linee rosa. Due. Positivo.
Ero incinta. Ero incinta a diciotto anni.
Di Nicholas De'Ath.
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