𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 14 (Arya)

"𝔘𝔫𝔞 𝔩𝔢𝔤𝔤𝔢𝔫𝔡𝔞 𝔭𝔬𝔭𝔬𝔩𝔞𝔯𝔢 𝔠𝔦𝔫𝔢𝔰𝔢 𝔯𝔞𝔠𝔠𝔬𝔫𝔱𝔞
𝔡𝔦 𝔲𝔫 𝔣𝔦𝔩𝔬 𝔯𝔬𝔰𝔰𝔬 𝔠𝔥𝔢 𝔩𝔢𝔤𝔞 𝔡𝔲𝔢 𝔞𝔫𝔦𝔪𝔢.
ℑ𝔩 𝔫𝔬𝔰𝔱𝔯𝔬 𝔢𝔯𝔞 𝔣𝔞𝔱𝔱𝔬 𝔡𝔦 𝔰𝔞𝔫𝔤𝔲𝔢"

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L'inizio della fine per me cominciò in un grigio pomeriggio di sabato, con la vocetta acuta del mio fratellino che strillava sovreccitato dal soggiorno.

«DAI, ARYA! MUOVITI! VOGLIO ANDARE!»

Sbuffando, finii di allacciarmi le scarpe e mi sollevai dal letto. Lanciai un'occhiata allo specchio ovale, la cui cornice era scolpita con un motivo di fiori e quadrifogli che avevamo inciso io e mio padre mentre costruivamo insieme il mobile da toeletta. Avevo messo una maglia di lana chiusa da bottoni di madreperla, un paio di jeans e degli anfibi. I capelli mori, appena pettinati, mi ricadevano a onde fino a metà schiena e il mascara mi risaltava il verde degli occhi.

Detto senza nessun tipo di arroganza, sapevo di essere bella. Anche se non rientravo nella categoria -a mio parere insopportabile- di persone attraenti che facevano del proprio aspetto il fulcro della loro personalità, quasi li ponesse al di sopra del resto del mondo, ero sempre stata a mio agio con me stessa.

Almeno fino a Josh.

Forse era una delle ragioni che mi avevano spinta ad andare a quella festa, la settimana prima. Volermi riprendere quella fiducia, del tutto priva di vanteria, che avevo sempre avuto e che lui era riuscito a togliermi.

«Hermana». Ethan spalancò la porta. «Ti informo che manca poco all'esplosione di una micidiale bomba di nerdaggine».

«Magari la prossima volta bussa, hermano» obiettai sarcastica.

«È mezz'ora che sei qui dentro. Se fossi stata ancora nuda, avrei pensato male su come passi il tuo tempo in camera».

Balto sgusciò di corsa nella stanza e si piazzò scodinzolante al mio fianco. Gli grattai le orecchie, sorridendo. Era sempre stato un cane affettuoso, ma negli ultimi giorni era diventato piuttosto appiccicoso nei miei confronti. Mi seguiva ovunque, mi appoggiava il muso sulla pancia, a volte addirittura mi ululava nervoso.

Avevo anche pensato di portarlo dal veterinario, ma non avrebbe avuto senso: lo faceva solo con me.

«Proprio sicuro di non essere libero?» sospirai rassegnata. «Perché non credo di poter sopravvivere fino a stasera con quel mostriciattolo che blatera di tipi in calzamaglia, senza di te».

«Ehi, gli Avengers hanno salvato metà dell'universo. Abbi un po' di rispetto». Ethan ciondolò sul posto, le mani nelle tasche. «E poi ho una cosa da fare, scusa».

Schioccai la lingua. «Ah già. La cosa misteriosa di cui non vuoi parlarmi. Sappi che ti darò il tormento finché non confesserai».

«Okay. La verità è che ho una relazione segreta con una drag queen di nome Winnie, ma non sono ancora pronto a presentartela».

Scoppiai a ridere, poi però lo fissai seria. «Promettimi che non riguarda i tuoi genitori, altrimenti ti trascino alla fiera con me a forza».

Ethan si tracciò una croce sul cuore con fare solenne. «Promesso».

Ne fui rassicurata. Sebbene mi stesse nascondendo qualcosa, ero certa che non mi avrebbe mai mentito su nulla. I segreti tra di noi erano rari, le bugie pressoché impensabili. Per questo, gli avevo riferito della conversazione che avevo avuto con John alla centrale di polizia sui De'Ath e sul mio sospetto che la morte di papà potesse essere collegata a loro.

«Comunque non ho trovato niente». Indicai il portatile spento sulla scrivania. «Sembra che questo Thomas Stone sia la persona meno social del mondo. Non ha neanche un profilo Instagram».

«Hai ancora la sensazione di conoscerlo?»

Mi strinsi nelle spalle. «Il suo nome non mi è nuovo, non so perché. Volevo chiederlo alla mamma, ma non ce la faccio. Adesso sta bene, ha finalmente superato il lutto dopo anni, non voglio rischiare di...» La voce mi morì in gola.

«No, certo». Ethan annuì, comprensivo. «Non potresti parlarne con Remiel? Ovviamente senza fargli capire che stai indagando in stile Sherlock Holmes sul passato della sua famiglia».

«E come dovrei fare? Non siamo nemmeno amici!»

«Ti prego» replicò ironico, piegando il capo di lato. «Gli manca solo un lampeggiante in fronte con su scritto "Ho una cotta per te da quando hai fatto sesso con mio fratello"».

Balto abbaiò allegramente come per concordare. Fui assalita dal bisogno impellente di scagliare un qualsiasi oggetto addosso a Ethan, così afferrai il cuscino e glielo lanciai dritto in faccia. Lui lo acciuffò al volo e me lo rispedì indietro.

«SE NON SCENDI, CI VADO DA SOLO! TANTO SO GUIDARE!» urlò Rhys dal piano di sotto, sbattendo anche il portone per farmi capire che non stava scherzando.

Ethan ridacchiò. Scossi la testa e borbottai: «Quanto è melodrammatico, quel rospetto».

Tallonati da Balto, entrambi uscimmo dalla mia camera e scendemmo le scale. Il salotto era invaso dagli scatoloni che nostra madre stava portando dalla casa della signora Wurstel; la maggior parte contenevano gingilli vari, bambole, argenteria, orribili servizi da tè... ma c'erano anche album di fotografie e videocassette.

Eryn era seduta dietro il bancone dell'angolo cottura, intenta a spalmare una quantità tale di nutella che si era impiastricciata tutte le dita. Balto ci abbandonò e andò subito a prendere posizione al suo fianco, supplicandola con un paio di occhioni azzurri.

«Se quella fetta di pane avesse il dono della parola, griderebbe che sta affogando» commentò Ethan, facendomi sorridere.

«E se fossi tu a non avere il dono della parola, io non mi lamenterei. È un mondo ingiusto, purtroppo».

«Per il tuo compleanno, ricordami di regalarti del sano buonumore». Ignorai la sua smorfia e feci per allungare il braccio verso il tavolo. Aggrottai la fronte. «Dove sono le chiavi?»

Eryn strappò un morso del panino, noncurante. «Le ha prese Rhys. Se non lo hai sentito, ti consiglio di fare un controllo all'udito. La prima visita di solito è gratuita».

Dall'esterno si levò il rumore di un motore in accensione. Per poco non mi venne un infarto all'idea di un bambino di nove anni che scorrazzava in giro per la città, al volante di una vecchia Impala azzurra. John aveva accettato di prestarmela a condizione che gli restituissi la sua "bambina" senza un graffio... in mano a Rhys, forse gli sarebbe tornata la targa. A voler essere ottimisti.

«Perché diavolo non lo hai fermato?» strepitai, infilandomi in fretta e furia la borsa a tracolla. Ero indecisa se prendere a pugni prima lei, oppure Ethan che si stava sbellicando dalle risate sul divano.

«Oggi è il tuo giorno da sorella maggiore, non il mio». Eryn fece spallucce. «Ti direi di provare a tenerlo in vita, ma a questo punto è più ragionevole chiederti di riportarci almeno il suo cadavere».

Imprecai e mi precipitai in giardino, con Ethan che intanto sghignazzava: «Vai e compi la tua missione, prode...» Il resto venne coperto dal tonfo della porta che si richiudeva dietro di me.

Raggiunsi la macchina e aprii la portiera del conducente. «Levati, piccolo demonio» bofonchiai, dandogli una spintarella.

Rhys sfoderò un sorriso a trentadue denti e si spostò sul posto del passeggero. «Guarda che so davvero guidare! Me l'ha insegnato lo zio durante le vacanze!»

Mi venne da ridacchiare. John aveva fatto lo stesso con me quando avevo dieci anni, ma eravamo stati beccati da mio padre. All'inizio si era infuriato con il migliore amico... poi si era accorto che me la cavavo bene e mi aveva anche permesso di fare un parcheggio. In totale sicurezza, certo.

Per il tragitto fino alla fiera impiegammo mezz'ora. Trenta minuti durante i quali dovetti sorbirmi l'appassionato tentativo di Rhys di introdurmi in breve al mondo di manga, fumetti e supereroi, cosicché non arrivassi del tutto impreparata. Come se non parlasse abbastanza ogni giorno delle sue cose da nerd.

Alla fine mi esplodeva il cervello e, nel momento in cui giungemmo a destinazione, fui sul punto di gettarmi a baciare il terreno. Almeno finché non mi rammentai che quella era stata la parte semplice.

Come prevedevo, Rhys cominciò a sballottarmi senza pietà da un tendone bianco a un altro. In ciascuno degli stand che punteggiavano il grande parco erano esposti giornalini, figurine e gadget di ogni tipo. C'erano anche bacchette magiche, spade finte, ciondoli e amuleti legati a saghe fantasy di cui masticavo poco di più.

In generale però non ero granché ferrata in materia, perciò mi limitai ad annuire tutto il tempo e a comprare ogni tanto gli oggetti che il mio fratellino, tra uno strillo e un altro, mi indicava. Un paio di volte fui costretta a rifiutarmi; ad esempio, quando aveva adocchiato il "Guanto dell'Infinito" - così recitava il cartellino - dal modico prezzo di duecento dollari.

Per compensare, ovvero salvarmi da una sceneggiata in pubblico a base di lacrimoni e singhiozzi, accettai di fermarci in uno dei chioschi. Nonostante il freddo pungente, Rhys insistette per prendere anche una granita alla fragola e non trovai il coraggio di oppormi. Ci sedemmo a mangiare a un tavolino, uno di fronte all'altra, sotto un ombrellone che ci riparava dalle folate di vento.

«A papà piacevano i fumetti?»

La domanda mi colse alla sprovvista. Di solito non chiedeva nulla su nostro padre, malgrado alla sua morte fosse così piccolo che lo ricordava a stento. La curiosità lo divorava, ne ero consapevole, ma probabilmente aveva notato che l'argomento ci rendeva tutti piuttosto tristi e lo evitava.

Mi sforzai di mantenere il sorriso per non scoraggiarlo. «Non molto». Un lampo abbattuto gli balenò sul faccino e mi affrettai ad aggiungere: «Ma adorava le granite, proprio come te».

«Forte!» replicò Rhys entusiasta.

Inghiottii l'ultimo boccone di hot-dog e mi pulii le labbra con il tovagliolo. «Già. Una volta, durante una passeggiata in estate, mi ha dato venti dollari per convincere la mamma che stavo avendo un colpo di calore e che solo una granita gigante mi avrebbe salvata».

«Ma a te non piacciono».

«Appunto. Poi dovevo fingere di riprendermi, dire che non mi andava più e darla a lui».

Rhys ridacchiò. Un attimo dopo la sua espressione divenne pensierosa, continuando a mescolare i pezzetti di ghiaccio nel suo bicchiere col cucchiaino. «Mi sarebbe piaciuto conoscerlo».

I miei occhi presero a pizzicare e mi affrettai a chinare il capo con la scusa di controllare il telefono, nella speranza che non si accorgesse che erano lucidi. Quasi per caso, la mia attenzione venne attratta dalla vistosa macchia di salsa che mi sporcava la maglia in corrispondenza del seno.

Era anche nuova, maledizione.

«Ti sei sporcata tra le tette» esclamò il mio fratellino.

Mi schiarii la gola per accertarmi di avere la voce salda, prima di borbottare: «Quanto sei delicato». Mi alzai e caricai la borsetta in spalla. «Devo andare in bagno, così ne approfitto per ripulirmi. Tu...»

«Io non ci vengo nel bagno delle femmine!»

Sollevai le mani. «Okay, aspettami qui. Non muoverti, eh».

Per fortuna le toilette erano vicine, ma cercai comunque di sbrigarmi. Attraversai a passo spedito lo spiazzo con la fontana gorgogliante e mi tuffai oltre la porta contrassegnata da un omino in gonnella. Rimasi sorpresa di non trovarci nessuno, poi entrai in uno dei gabinetti e dalle sue condizioni potei immaginarne la ragione. Optai per trattenerla fino a casa.

Uscii, aprii il rubinetto del lavandino e mi sciacquai con un fazzoletto la chiazza di senape. Non fu una mossa geniale, tanto per rimanere coerente con me stessa.

Commisi l'errore di metterci troppa foga, anche a causa della fretta, e tirai inavvertitamente il bordo della maglia. Un paio di bottoni saltarono via, lasciandomi scoperta quanto bastava a mettere in mostra il reggiseno.

Il nervosismo mi assalì. Ma si poteva avere più sfiga di così? Iniziavo a pensare che ci fosse una sorta di congiura cosmica contro di me, o un club karmico al motto di "Cento e uno modi per rovinare la vita di Arya Black". Almeno non poteva andare peggio.

«È chiaro che i vestiti non sono contemplati nel nostro rapporto».

Sobbalzai. Ero certa di aver già udito quella voce, ma non la riconobbi finché non individuai il ragazzo fermo sulla soglia del bagno.

Mi fissava con un ghigno impertinente stampato sul volto e un brivido mi scese lungo la schiena nell'incrociare di nuovo le sue iridi blu zaffiro. I capelli biondissimi erano scompigliati e il fisico snello era fasciato da un maglione scuro sotto un giacchetto di jeans slacciato, il cui colletto non nascondeva le cicatrici che aveva sulla gola. Sul petto gli pendeva il simbolo dei De'Ath.

Ero talmente sbigottita di ritrovarmelo davanti che la sola cosa che mi uscì dalla bocca fu: «Oddio!»

«Puoi chiamarmi anche Nicholas. Non mi offendo».

Scossi la testa per riscuotermi e tentai invano di coprirmi alla meno peggio, scatenando nel ragazzo una risatina beffarda che mi fece venire voglia di strozzarlo. Dovevo ammettere che era un bel suono, basso e limpido, ma non ci voleva un genio per intuire che mi stesse prendendo in giro.

«È uno spettacolo che ho già visto in versione integrale, tesoro».

Lo ignorai, avvertendo il rossore che saliva a bruciarmi le guance. «Si può sapere che diavolo ci fai nel bagno delle donne? Che sei, un pervertito?» sbottai irritata.

Nicholas assunse una smorfia seccata, come se non avessi potuto scegliere un insulto peggiore. «A meno che non abbiate imparato a farla in piedi», e fece un cenno con il mento, «sei tu la pervertita qui».

Lanciai un'occhiata nella direzione che aveva indicato. Alla vista della fila di orinatoi attaccati al muro, venni travolta dall'impulso di andare a seppellirmi in una fossa molto profonda. Forse l'omino sulla porta non aveva la gonna, dopotutto... ops.

«Cazzo!» Tornai a voltarmi verso Nicholas, abbozzando un sorriso incerto. «Ehm, scusa, non è che mi presteresti la tua giacca? Vado a scuola con i tuoi fratelli, dirò a uno di loro di restituirtela».

«Certo. Non appena riavrò indietro la felpa che mi hai rubato».

«Non l'ho rubata» protestai indignata. «E non sarebbe servito se tu non avessi la delicatezza di un elefante».

Nicholas scrollò le spalle. «Non mi sembravi molto interessata alla delicatezza, angioletto».

«Dammi quella giacca e piantala di rompere!»

Lui emise uno sbuffo, ma infine se la sfilò e me la porse. Nel momento in cui la presi, la sua mano libera scattò ad agguantarmi il polso con un movimento rapido. Anche se sarebbe stata una bugia dire che il mio corpo non gradì risentire quel tocco, rimaneva comunque uno sconosciuto. E neanche troppo simpatico.

Il cuore mi schizzò in gola e d'istinto provai a ritrarmi. «Mollami!»

Nicholas si protese in avanti. Ero già pronta a mollargli uno schiaffo, ma non era un maldestro tentativo di baciarmi: anzi, mi stava annusando. Esattamente come aveva fatto Remiel, qualche giorno prima. Mi ricordava Balto quando mi passava al metal detector con il suo tartufo, ogni volta che fiutava che avevo accarezzato un altro cane.

«Hai un odore strano» sussurrò corrucciato.

I miei occhi si conficcarono nei suoi. Non poteva essere solo una mia impressione, c'era davvero qualcosa che si agitava al loro interno in una maniera del tutto innaturale.

Lo stomaco mi si contrasse. Ogni mio nervo, ogni mio muscolo era teso, eppure c'era una minuscola parte di me che era attirata da lui. Non riuscivo a spiegarlo, sapevo soltanto che era giusto.

Mi divincolai con uno strattone e indietreggiai, massaggiandomi il polso. Percepivo ancora il calore delle sue dita affusolate sulla pelle, quasi mi avesse scottata. Indossai il giacchetto, tirai su la zip e mi precipitai fuori dal bagno senza neanche ringraziarlo, sfrecciando davanti a un signore piuttosto confuso in procinto di entrare.

Mi diressi verso il chiosco, ma mi bloccai a metà strada. Il tavolo in cui avevo lasciato Rhys era vuoto.

Cominciai a guardarmi attorno, con una morsa di panico che mi serrava il petto. Non era possibile. Ero stata lontana per dieci minuti al massimo. Mi ero anche raccomandata di aspettarmi.

«Problemi, angioletto?» chiese Nicholas all'improvviso, affiancandomi.

Se non fossi stata così preoccupata, gli avrei gridato addosso di smetterla con quel maledetto nomignolo. «Hai visto un bambino nei paraggi, per caso?»

Lui storse il naso, disgustato. «Più di uno. Questo posto pullula di quei disgustosi esserini schiamazzanti».

Aveva davvero definito i bambini dei "disgustosi esserini"? Decisi di non approfondire.

«Ha nove anni, bassino, mi somiglia un po' e...»

«Per me sono tutti uguali» tagliò corto annoiato.

«Sono seria! Ho perso mio fratello!» sbraitai, pestando un piede a terra. Iniziavo seriamente a odiarlo.

Nicholas inarcò un sopracciglio. «Non hai un fischietto per richiamarlo?»

Mi costrinsi a trarre un respiro profondo, sennò ero certa che l'avrei strangolato. Lo superai e ripresi a perlustrare i dintorni. Quando scorsi la figura minuta di Rhys su una panchina, assorto in un'animata conversazione con un ragazzo, un'ondata di sollievo mi investì.

«Immagino che il barboncino alto due mele che parla con il mio amico appartenga a te» commentò Nicholas, seguendo la traiettoria del mio sguardo. «Dovresti stare più attenta. Poteva finire nelle grinfie di uno psicopatico».

«Tu hai un amico? Wow» replicai sprezzante, incamminandomi verso di loro.

«Te lo presento se vuoi. Però temo che non potrai andarci a letto, non sei per niente il suo tipo».

Lo guardai truce. «Ti hanno mai detto che sei uno stronzo?»

Lui sogghignò. «E non è neanche il mio peggior difetto, tesoro».

La sua somiglianza con Joel era incredibile, notai: li avrei volentieri presi a sberle tutti e due.

Accelerai l'andatura. Appena lo chiamai, Rhys mi salutò raggiante con la manina e strepitò in tono emozionato: «Arya, ho fatto amicizia! Anche lui è appassionato di supereroi!»

Il ragazzo riccioluto si alzò dalla panchina. Indossava una felpa di Spider-Man e aveva un'espressione imbarazzata sul viso. I suoi lineamenti dolci suscitavano una fiducia immediata, facendolo apparire il genere di persona alla quale chiunque sarebbe stato disposto ad affidare le proprie cose mentre si assentava per qualche secondo.

Ma avevo il vago sospetto che, al ritorno, avrebbe trovato giusto un bigliettino di ringraziamento.

«Tu devi essere sua sorella» esordì con voce gentile. «Si è avvicinato da solo. Giuro che non avevo intenzione di rapirlo».

Nicholas ci raggiunse, aggirando il bambino come se emanasse delle scorie radioattive particolarmente letali. «Rapirlo? Perché mai dovremmo volere quel... vermiciattolo

«Ehi, mi chiamo Rhys!»

«Sai quanto me ne frega».

Il suo amico gli cinse le spalle con un braccio, rivolgendomi un sorriso forzato. «Nik scherza sempre. Sotto sotto, adora i bambini».

«Come un bagno nelle ortiche» bofonchiò lui.

«A proposito, io sono Seth. Seth Adler». Il ragazzo mi tese la mano e solo allora parve accorgersi della giacca che portavo. Le palpebre gli si assottigliarono fino a ridursi a due fessure. «Voi due vi conoscete?»

«No!» risposi di getto.

«No, infatti» confermò Nicholas mellifluo, e stavo quasi per ricredermi sul suo conto. Magari non era... «Insomma, ho esplorato i suoi orifizi. Ma non posso mica dire di conoscere ogni mia sveltina, no?»

Bastardo fino al midollo.

Rhys increspò la fronte. «Cos'è una sveltina?»

Lo afferrai per il gomito. «Okaay, noi dobbiamo andare» mi affrettai a balbettare, paonazza.

Lo sguardo di Seth era diventato affilato come una lama. «Che peccato» sussurrò, e colsi una punta di freddezza che mi lasciò interdetta.

«Ricordati di ridarmi la giacca, angioletto».

Mi accostai a Nicholas, gli sibilai un elegantissimo "Fottiti" e lo scansai con una spallata, trascinandomi dietro un ricalcitrante Rhys.

Pioveva a dirotto.

Alla guida dell'Impala, proseguivo dritto lungo la strada deserta contornata dalla boscaglia. Avevo appena finito di fare al mio fratellino un discorsetto sui pericoli di dare confidenza agli estranei e adesso si era addormentato con la testa premuta contro il finestrino.

Nonostante fosse buio pesto, erano a malapena le nove. Ciò significava che, se fossi riuscita a rincasare senza fare troppo rumore, avrei ancora fatto in tempo a cambiarmi e sgattaiolare alla festa di compleanno di Eleanor.

Anche se mia madre stava facendo il turno serale, l'ultima cosa che volevo era dare a Eryn altro materiale per i suoi ricatti. Mi rimaneva soltanto da corrompere Rhys, ma di solito comprare il suo silenzio era facile.

Ovviamente, non andò così.

Una sensazione improvvisa mi folgorò, provocandomi uno spasmo in tutto il corpo.

Ai margini del mio campo visivo, intravidi un'ombra sbucare dai cespugli e inchiodai con tale veemenza che la cintura di sicurezza mi mozzò il respiro. Lo colpii di striscio, ma il tonfo sul cofano continuò a riecheggiarmi nelle orecchie come un'orribile eco.

Rhys si svegliò di soprassalto, disorientato. Poi indicò la sagoma accasciata sull'asfalto, la bocca aperta per lo stupore. «L'hai ucciso?»

Sebbene l'auto fosse ferma, per un istante non mi mossi. Ero paralizzata. Riuscivo soltanto a pensare a mio padre, a chiedermi se il tizio che lo aveva investito si fosse sentito come me. Poi mi ricordai che, ammesso che si fosse trattato di un incidente, in quel caso il conducente era ubriaco. Io invece no. Ma non mi confortava minimamente.

«Aspetta qui» bisbigliai con voce strozzata, per poi uscire dalla macchina. Il gelo della notte mi artigliò, penetrandomi fin nelle ossa.

Anche se sapevo che non poteva essere morto, rischiai di scoppiare a piangere per la gioia quando il ragazzo balzò in piedi. Dall'agilità con cui lo fece dedussi che non solo era vivo, ma probabilmente non aveva nemmeno nulla di rotto. Il mio cuore si alleggerì un po', tuttavia il senso di colpa rimaneva lancinante.

«Ehi, tutto okay?» Dovetti urlare per sovrastare il frastuono della pioggia. «Mi dispiace tantissimo. Non volevo. Sei apparso dal nulla. Ora chiamo l'ambulanza, va bene?»

Lui si girò di scatto verso di me e mi immobilizzai. Era totalmente fradicio, tremante, pallido come un cadavere. I capelli scuri erano tagliati cortissimi, quasi rasati. Aveva una cicatrice sul viso che, dalla tempia destra, gli scendeva sulla guancia e terminava sul labbro. Indossava dei vestiti logori e strappati, così bagnati che gli aderivano al corpo fin troppo magro.

Non lo avevo mai visto, eppure aveva qualcosa di famigliare.

«Chi sei? Dove sono? Che anno è?» Il ragazzo prese a voltarsi in tutte le direzioni, proteggendosi dalla luce dei fanali con un braccio. Sembrava terrorizzato. «Cos'è?»

Ero stordita dalla raffica di domande precedenti, dunque impiegai qualche secondo a rendermi conto che l'ultima era riferita all'Impala.

Ma era assurdo credere che non sapesse cosa fosse e, considerate le circostanze, dubitavo che mi stesse chiedendo la marca per un prossimo acquisto. Probabilmente era sotto l'effetto di qualche droga.

Non potevo averlo ridotto io in quello stato, ne ero certa.

Feci del mio meglio per ritornare lucida. «D'accordo, d'accordo». Tenendomi a debita distanza, cominciai a rovistare nella borsa con le dita intirizzite. «Ora chiamo l'ambulanza, eh».

«Ambulanza?» ripeté lui frastornato.

«Ospedale. Medici. Dottori. Hai presente?»

A giudicare dalla sua espressione vacua, la risposta era no. Non aveva presente.

Nell'istante in cui estrassi il telefono, me lo fece cadere con una manata neanche fosse una pistola e arretrò spaventato. Trasalii, rimanendo senza parole per quella reazione. Un lampo squarciò il cielo nero.

«Che cos'ha?» strillò Rhys, sporgendosi dallo sportello.

«Me ne occupo io. Tu rimani lì» gli gridai di rimando.

Con un sussulto, il ragazzo si allontanò di qualche passo dalla vettura. Barcollava, cosa che rafforzò la mia ipotesi che avesse assunto chissà quale sostanza, o magari era semplicemente ubriaco. Lo sentii farneticare qualcosa, ma era impossibile distinguere le sue parole nel fragore del temporale.

Mi chinai a raccogliere il cellulare e provai ad asciugare lo schermo cosparso di goccioline, ma ormai anch'io ero zuppa d'acqua. Spaventata, riuscii a fare una sola cosa: quello che facevo sempre quando ero in difficoltà. Cliccai il contatto sulla rubrica e la chiamata partì.

«Ciao, pestiferina. Che...»

«Ho avuto un incidente» lo interruppi, scansandomi una ciocca appiccicata alla guancia. «Niente di grave, ma non so che fare. Per favore, puoi aiutarmi?»

La voce di John si fece seria. «State tutti bene?»

«Sì sì. Ma credo che il ragazzo, quello che ho quasi investito, sia... boh, in stato confusionale». Un dubbio mi attanagliò. «E se fosse una commozione cerebrale o roba del genere? Io penso di aver frenato in tempo, ma...»

«Arya, cerca di stare calma. Mandami la vostra posizione e aspettami in macchina. Vengo subito con il pronto soccorso» disse John in tono rassicurante. «Ti ho mai lasciata nei guai?»

«No, mai».

«Faccio il prima possibile». E riattaccò.

Gli inviai la posizione come aveva richiesto e riposi il telefono. Scoccai un'occhiata al ragazzo, che nel frattempo si era rannicchiato sfinito alle radici di un albero, sul bordo della strada. Teneva il volto sepolto dietro le ginocchia e tremava così forte che pareva in preda alle convulsioni.

Sapevo che la cosa intelligente da fare era tornare in auto, ma non potei non provare un moto di compassione. Esitai, feci un cenno a Rhys per tranquillizzarlo e iniziai ad avvicinarmi con cautela.

Appena se ne accorse, il ragazzo si drizzò di scatto e mi guardò con un misto di diffidenza e paura. Studiava ogni mio movimento, teso come se si stesse preparando a un attacco.

«Stai lontana da me». Voleva essere una minaccia, ma il suo tono era quello di una supplica.

Gli mostrai i palmi. «Non ti voglio fare del male». Continuai ad avanzare, accovacciandomi per portarmi alla sua altezza. «Voglio aiutarti».

Lui si ritrasse appena. Nonostante dovesse avere pressappoco la mia età, il suo sguardo spaurito lo faceva somigliare a un bimbo piccolo e indifeso. Alla fine rilasciò un sospiro stremato e si abbandonò contro la corteccia, accoccolato con le braccia agganciate attorno alle gambe. Come se ormai fosse troppo esausto anche per difendersi.

«Mi chiamo Arya» sussurrai, inginocchiandomi al suo fianco. «E tu?»

Il ragazzo rabbrividì e si raggomitolò ancora di più per riscaldarsi. «Keegan» biascicò, battendo i denti. «Il mio nome è Keegan... credo».

Ridussi la distanza tra di noi, senza però osare sfiorarlo. Quando mi tolsi il giacchetto, percepii tutti i suoi muscoli irrigidirsi, ma mi permise comunque di posarglielo con delicatezza sulle spalle. Ci si avvolse dentro e abbassò la testa in un atteggiamento sottomesso.

Gli feci un sorriso incoraggiante. «Keegan... e poi?»

«Non mi ricordo. Non ricordo niente». Per un istante, i suoi occhi pieni di terrore si incatenarono ai miei; erano di un nero inquietante, due frammenti di pura oscurità che inghiottivano le pupille. «Non mi riporterai lì, vero?»

Aggrottai la fronte. «Dove?»

«Non lo so. Ma so che non ci voglio tornare». La voce di Keegan era implorante. «Ti prego».

Lo osservai, e capii. Capii perché mi era così famigliare.

Era lui. Era il ragazzo della visione che avevo avuto nello spogliatoio della palestra.

Ma non era soltanto questo. Nonostante fosse sporco, coperto di terra e fango, praticamente pelle e ossa, era innegabile che il suo non fosse un aspetto comune. Possedeva lo stesso fascino magnetico, i residui della stessa perfezione che avevo imparato ad associare a loro.

Perché, per qualche ragione, Keegan somigliava tremendamente ai De'Ath.

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