VII

Per l'appunto. Ripartii la mattina dopo, volevo tornare in Italia, volevo essere da Valeria per il suo compleanno. Sapevo che avrei dovuto poi sottopormi a un bagno di sangue con i miei genitori, ma non mi interessava: quello sarebbe comunque successo, prima o poi.

Subito si pose il primo problema: avevo paura di viaggiare senza biglietto sui treni spagnoli, così iniziai con l'autostop diretto verso il confine francese, arrivai in qualche modo a Girona, decidendo di spendere le pesetas a mia disposizione per un biglietto che mi portasse il più in Francia possibile. A Perpignan mi sembrò ragionevole, ma il treno era solo alle cinque di pomeriggio e mi misi a pensare che, di quel passo, non sarei mai arrivata a Cervia per martedì tre agosto.

Potevo cercare di viaggiare a sbafo sui treni francesi, ma se mi avessero preso? Che fine avrei fatto? Magari avrei risolto i miei problemi di soldi, perché avrebbero chiamato i miei che avrebbero pagato, per poi portarmi per sempre in un convento, ma non avrei risolto il mio problema principale, cioè arrivare in tempo.

Sonnecchiai alla stazione, abbandonata su un sedile in sala d'aspetto ed avvolta dalla calura iberica, pensando a Valeria che organizzava il solito compleanno per parenti e pochi amici, magari qualcuno in più dell'anno prima. Pensai a lei, con un sorriso non del tutto felice ed una maglietta nera addosso, che spegne le sue candeline senza di me, Poi precipitai nella più nera rabbia verso me stessa, stupida che non ero altro: avrei mancato per il secondo anno il suo compleanno!

A Perpignan feci quello che avevo fatto all'andata: approcciai gruppi di ragazze che andavano verso nord, sperando di fare pena a qualcuna. Ed in effetti la feci: un gruppo andava a Tolosa e si offrì di fare una colletta di una cinquantina di franchi e pagarmi il treno fino a Narbonne.

Grata infinitamente per questa gentilezza, regalai loro la mia bandiera della Catalogna e scesi a Narbonne, in attesa di qualcosa, lì in stazione. Fu il momento più nero, perchè ero sprovvista di denaro e letteralmente non sapevo cosa fare, se non andare alla gendarmeria e dichiararmi fuggita di casa. Già solo il pensiero mi fece arrivare le lacrime al bordo degli occhi.

Quando vidi il viso di Melanie da un finestrino di un treno intercity, giuro che non seppi se nascondermi o bussare al suo finestrino. Ma mi anticipò lei, sporgendosi e chiedendomi cosa facevo da quelle parti, con un'aria estremamente interrogativa.

In poche parole (e male) le spiegai il problema e, sospirando, le dissi di Valeria. Tanto valeva dire tutto.

«Montez, allons chez moi à Béziers» si limitò a dirmi, semplicemente.

Salii di corsa, mi appoggiai di fianco a lei e ad un paio di sue amiche che non avevo conosciuto la sera prima. Parlammo molto e feci schifo nel mio mix di lingue, e forse anche per il mio aspetto non particolarmente curato. Ma loro non se ne curarono e mi diedero i primi momenti di serenità da ore.

Scendemmo a Beziers che era ormai sera, e io, messa da ridere, la seguii a casa, in rue de Tilleuls, una zona di case tranquille e ben tenute, adagiate su una collina leggera.

La aspettai fuori e sentii un po' di trambusto dentro, voci un po' alte, infine lei spuntò fuori, mi prese per un braccio e mi tirò dentro. Mi sentii osservata pur non vedendo nessuno dentro l'appartamento. Salimmo di corsa al piano di sopra, entrando nella sua stanza immediatamente richiusa alle nostre spalle.

Mi parlò francamente, e ancora oggi lo apprezzo.

A Melanie piacevano le ragazza, ci teneva proprio a dirlo, ed era per quello che aveva azzardato quell'epiteto, goudou, la sera prima con me. La famiglia faceva finta di ignorare il suo orientamento, l'importante era che non lo "esponesse" in casa, ed era il motivo per cui c'era stata un po' di discussione prima che lei mi trascinasse dentro l'appartamento.

Sapeva quanto fosse difficile non essere capite in famiglia, avere voglia di scappare a mille chilometri, lasciarsi tutto alle spalle, e io in più avevo una specie di amore nemmeno corrisposto, che mi aspettava a casa. Lei invece non aveva amori a mezzo, e la sera prima le era piaciuto molto, mi disse senza molto imbarazzo nella voce.

«Ta langue est fantastique, Stefy» mi rivelò, e lo presi come un complimento.

Mi guardava in maniera particolare, con quegli occhi chiari innestati in un fisico forte, quasi muscoloso, fasciato solo da una canottiera leggera e da mutandine nero pece, mentre si sistemava energicamente la coda di cavallo. Era una ragazza che trasmetteva energia, volontà, consapevolezza.

Pensai che, dopotutto, ci poteva stare che ci abbandonassimo a qualcosa di simile al sesso. Le vedevo la forma dei capezzoli erti dalle pieghe della canotta, e il suo sguardo era qualcosa di indecifrabile. Dopo la doccia, che non facevo da un paio di giorni, mi coricai affianco a lei, guardandola mentre mi sorrideva.

Non facemmo nulla quella sera se non parlare, e rimanemmo abbracciate un sacco di tempo. Mi disse che quella mia corsa per tornare indietro era una cosa bellissima e che era proprio ciò che tutte dovrebbero fare: inseguire i propri sogni. Mi sembrava di avere una sorella maggiore, che stava capendo quello che mi stava succedendo, e soprattutto che aveva capito quello che mi aspettava a casa. Per quello mi diede solo tutto l'appoggio e il calore che poteva.

****

Melanie mi svegliò presto, la mattina dopo, e mi portò in stazione in bici, era domenica e in giro a quell'ora c'era veramente poca gente. Costeggiammo la ferrovia, le autoconcessionarie e il multisala, entrando in una parte più vecchia della città, fino a giungere a destinazione.

Comprammo un biglietto con i suoi soldi, per arrivare fino a Nizza, cambiando a Marsiglia. Pagò lei ma mi feci lasciare i suoi contatti perché volevo assolutamente che riavesse tutti i suoi soldi.

Mi disse che me li dava solo perché magari le avrei mandato una foto di me e Valeria, il giorno del compleanno, per vedere quanto eravamo felici assieme, per il momento come amiche, in futuro chissà. Ci abbracciammo calorosamente, e mi rimangiai per l'ennesima volta, in quelle ultime ore, l'idea che quella avventura catalana non mi avesse lasciato nulla.

E così viaggiai per tutta la mattina tra Montpellier, Nimes, Avignone, fino a Marsiglia St. Charles. La stazione era un forno ed il solo pensiero di rimanere lì dentro in attesa, fece aumentare la mia sudorazione, già a livelli folli. Uscii per prendere aria, e mi trovai ad ammirare la scalinata che correva fin quasi al mare, e in un angolo un gruppetto di ragazzi nordafricani che parlottavano esplodendo ogni tanto in grasse risate.

Avevo il biglietto fino a Nizza, poi il mio futuro era nebuloso e, soprattutto, senza soldi. Mi servivano dei soldi.

"Ok", mi dissi, "ho fatto trenta, farò trentuno" e mi feci verso di loro, alcuni si raddrizzarono vedendomi. Fui amichevole, ed entusiasta, e chiesi se a qualcuno interessava un Nokia 5110 verde.

Probabilmente a loro sarebbe interessato qualcos'altro di mio, ma quello lo davo per scontato, vedendo le occhiate che mi rifilarono ad altezza seno. Il fatto che proponessi un cellulare non male senza fissare la tariffa, li fece mettere sull'attenti. Per dimostrare che non era un furto lo accesi, misi il pin, feci tutto per bene ignorando le settantamila notifiche di chiamata e messaggi che avevano fatto tutti. Mi guardarono interessati e pensai che forse stessero cercando un modo per portarmelo via senza togliersi di tasca una lira.

Ma c'era un po' di viavai e questo mi proteggeva da azioni di quel tipo.

Mi offrirono 200 franchi, che mentalmente provai a calcolare. Ci misi un sacco, mentre loro mi guardavano in attesa, divertiti dal mio lungo elaborare, come una bambina alla lavagna, presa dall'ansia di risolvere il problema proposto dalla maestra. Quando arrivai con ragionevole certezza alla cifra di sessantamila lire, risi in faccia.

«Pour si peu d'argent, je le garde».

Risero loro, poi uno dallo sguardo parecchio penetrante, mi disse che mi offriva 500 franchi, circa centocinquantamila lire. Non era tanto, considerando che mio padre probabilmente ne aveva spesi quattrocento un mese prima, ma poteva bastare per ritornare a casa.

«D'accord».

Tirò fuori un rotolo di franchi dai boxer elasticizzati in bella evidenza. Mi schifai a prendere in mano quel denaro e gli cedetti il cellulare, corsi dentro la stazione e mi precipitai nei servizi igienici. Lavai le banconote e cercai di rimuovere dalla mente la loro provenienza.

A Nizza, corsi a fare il biglietto fino a Genova, e mi costò più di cento franchi. Mi buttai sul sedile e dormii fino all'Italia. A destinazione mi resi conto che sarei potuta arrivare a Milano prima di notte, ma poi dove potevo andare a dormire?

Milano era più grande, più complicata, più pericolosa, forse. Era meglio rimanere a Genova e rimandare tutto al giorno dopo. Avrei avuto tutta la giornata per tornare da Genova a Cervia. Il problema era dormire, non c'erano Melanie lì, e io dovevo arrangiarmi. Così rinnegai tutte le mie convinzioni sulle chiese e me ne feci indicare una minore. Chiesi semplicemente di dormire fino alla mattina dopo. Il prete, un uomo abbastanza anziano ma dritto come un fuso e molto magro, sospirò, mi chiese semplicemente se ero una drogata.

Mostrai le braccia perfettamente pulite, persino il palato tutto sommato bianco e senza carie. Feci anche un'offerta nella cassettina, e lui mi lasciò stare su una panca, con lo zaino come cuscino, fino alle sei della mattina dopo, quando venne a prepararsi per dire messa. Lo ringraziai con un abbraccio e misi altre cinquemila lire nella cassetta delle offerte, poi andai in stazione a prendere il biglietto.

Arrivai a Milano alle nove e dieci. Era passato quasi un mese da quando avevo visto quella stazione, da dove ero partita. Erano successe tante cose, e ancora tante ne sarebbero successe quando fossi arrivata a casa al cospetto dei miei, ma il mio compito era uno in quel momento. Mi guardai allo specchio, scoprendo che non ero poi così diversa da quella che un mese prima aveva preso per Milano al posto che per Bolzano.

Presi il primo treno che potevo permettermi, un lentissimo regionale che partiva alle dieci meno un quarto ed arrivava a mezzogiorno e un quarto a Bologna. Qui mi fermai a mangiare una pizzetta per chiudere il buco che sentivo allo stomaco. La stazione era un forno immerso nell'umidità, ebbi l'impressione di sentire sciogliersi le suole delle scarpe ai miei piedi, ma salii sul regionale delle due, serena.

E poi, il guaio: il regionale prese fuoco in mezzo alla campagna tra Bagnacavallo e Russi. Ci fecero scendere in attesa di capire cosa sarebbe successo, in mezzo ai campi, in mezzo al nulla cosmico della campagna padana che solo chi l'ha vista, può capire.

Mi sedetti sulla massicciata. Ero in viaggio da sabato, stavo già vedendo il traguardo, quando mi successe quel guaio che, per me, per una ragazza di neanche sedici anni che torna a casa per incontrare il suo amore nascosto, assunse le dimensioni di una tragedia. Esplosi in un pianto inconsolabile, tanto che qualcuno, lì attorno, si avvicinò per vedere cosa stava succedendo, se stavo bene, se avevo bisogno di cure, in qualche modo.

Cercai di ricompormi, di asciugare gli occhi, spiegando che era tutto a posto, ma avevo un appuntamento importante e non mi aspettavo quell'incidente. Qualche donna mi offrì un fazzoletto, e qualcuna disse qualche frase fatta per tirarmi su il morale.

«Non preoccuparti, se il tuo ragazzo ti ama, ti aspetterà».

Che rispondere? Nulla se non un «Grazie» quasi meccanico. I minuti colavano via in mezzo alla calura della bassa romagnola, mentre aspettavamo di capire se il treno poteva ripartire.

«Ma è ovvio che non ripartirà! E' andato a fuoco!» gemevo, mentre i tecnici erano al lavoro.

Ma alla fine arrivarono i pullman, che ovviamente si fermarono presso la prima strada utile, un paio di centinaia di metri più indietro lungo la linea. I passeggeri andarono fino ai mezzi portando borse e valigie, affaticatissimi sotto il sole agostano di metà pomeriggio. Erano ormai le quattro e mezza quando partimmo per la strada che portava a Russi. E poi tutti gli altri stop.


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