I

Alle medie avevo due amiche del cuore, Cinzia e Valeria. Eravamo sempre state vicinissime, sin dai tempi delle elementari, dei pomeriggi in parrocchia. Ed eravamo rimaste inseparabili anche quando avevo iniziato a sentirmi fuori posto in un luogo che, a mio avviso, trasudava ipocrisia. Sognavo altro rispetto a sentire la messa.

Entrambe erano un po' acqua e sapone, un po' ingenue. Dopo le medie avevamo scelto tutte e tre scuole a Cesena: Valeria aveva optato ragioneria perché si sentiva piuttosto portata, Cinzia era andata all'Iris Versari per il suo lato "sociale", mentre i miei avevano saggiamente detto che avrei solo rimediato figure di merda nei licei, facendomi ripiegare per il Macrelli.

I rapporti si sfilacciarono negli ultimi mesi della terza media, soprattutto con Cinzia, che frequentava assiduamente la parrocchia e trascinava ad ogni occasione Valeria con lei.

Io preferivo prendermi il mio tempo per curare il mio corpo che cresceva "molto bene", a detta mia e di molti ragazzi. Mentre le mie due amiche andavano ai rosari, io sfrecciavo in sella ai cinquantini aggrappata ai ragazzi che li avevano manomessi per spingerli a velocità folli. Andavamo in spiaggia, prendevamo il sole o giocavamo sui divanetti, ci chiudevamo nelle cabine, dando i primi profondi baci della nostra vita, sentendo per la prima volta le mani accarezzarmi la schiena e il sedere.

Sia chiaro: non smettemmo di vederci, io e Vale, di pranzare a turno una a casa dell'altra, e di passare un certo tempo assieme. Ma poi lei si infilò in una storia di stupide sedute spiritiche fatte al cimitero con altri stupidi che frequentavano la parrocchia con lei, in primis proprio Cinzia.

Il cervello del gruppo, un tale Angelo, carino e brillante, celava una mente perversa, cosparsa di pensieri sanguinolenti che non vi sto a dire. Le sedute spiritiche avevano come unico scopo, per dirla in breve, molestare sessualmente le ragazze che vi partecipavano. E Valeria non fece eccezione.

Tutto finì alle porte di marzo 1998, grazie soprattutto a me, e a Simone Farabegoli, che facemmo saltare tutta la messinscena. Simone aveva voglia di scoparmi, ma lui avrebbe scopato anche i sassi, e negli anni non è cambiato molto.

Mi incazzai a morte con Valeria.

«Te l'avevo detto in lungo e in largo che dei maschi non ci si poteva fidare, e che le sedute spiritiche erano tutte stronzate!».

Mi rispose piangendo che non poteva immaginare succedesse una cosa del genere, e che Angelo sembrava tutto tranne che così malfidente. Fece immensamente bene Cinzia a prenderlo a pugni, abbandonando per qualche minuto la sua profonda devozione mariana. La vendetta a volte è la soluzione migliore, lo aveva capito anche una così rincoglionita come lei. Il fatto che mi stesse antipatica non mi esime dal plaudire quel suo improvviso desiderio di menare le mani.

Vale rimase tremendamente scossa per diverso tempo da quella vicenda, smise di guardare i film horror, e di frequentare la parrocchia, perché la storia arrivò anche da quelle parti e le risatine le erano intollerabili. Questa era la carità cristiana tanto decantata in lungo e in largo, che infieriva su una ragazzina di quattordici anni, traviata da un sedicenne dalla parlantina sciolta.

Dopo quella vicenda. aveva bisogno di aiuto, si sentiva molto giù, non credo depressa, ma molto giù. Ma ciò che è peggio è che smise quasi di mangiare. Era una ragazza già magra e piuttosto lunga, con i capelli lisci e scuri che tendevano a coprirle il volto che, in quella tarda primavera, non stava prendendo colore per la sua ostinazione a rimanere in casa. Qualche simpatico, in sovrapprezzo, aveva coniato per lei il soprannome Vampi, contrazione di Vampirina, e certi nomignoli facevano un sacco male ai caratteri più fragili.

In tutta onestà, nei primi giorni non feci nulla per aiutarla. Ero arrabbiata per non essere stata ascoltata. Sapevo che girava quel soprannome, ma quando lo sentii pronunciare anche da Filippo, che a quell'epoca ci stava provando insistentemente con me, non ci vidi più e lo presi a insulti. Lui si mise a sorridere così come un paio di suoi amici, limitandosi a farmi osservare che, in effetti, Vale aveva l'aspetto della perfetta Vampira, bianca, smunta e vestita di nero.

<Però magari a succhiare non è la migliore, possiamo fare un test> mi disse Fabio, che in quanto a battute a doppio senso, diceva sempre una parola di troppo. Li mandai a fare in culo e mi dissi che in fondo potevo fare anche a meno di tre scemi se trattavano così la mia migliore amica, perchè ancora così la consideravo.

Misi da parte la rabbia per non essere stata ascoltata, la abbracciai e ricominciai daccapo con lei. C'era tutta l'estate per ricomporla, in fondo: contavo di fare con lei colazioni ipercaloriche in giro, trascinarla fuori di casa a zonzo la sera, portarla al mare lontano dai giri che avevamo. Progettavo persino di portarla a Londra magari per un weekend usando i voli low cost di una compagnia che a giugno avrebbe iniziato a operare a Rimini.

****

Ma un fulmine a ciel sereno, poco prima dell'inizio dell'estate, sconvolse completamente la mia vita. E quando dico completamente, non scherzo.

Mia madre, chiaramente agitata, mi trattenne a casa dopo la scuola. Era la fine di maggio e le giornate erano fantastiche. Il programma per quel giorno era di andarmene a far vasche a Cesenatico con Vale e poi correre in spiaggia arrotolandoci jeans e magliette il più possibile, tanto per far fare ai ragazzi nei paraggi qualcosa di idiota.

«Stefania, dobbiamo parlare un attimo. Seriamente» mi disse, sospirando di continuo, come se dovesse sospingere fuori a forza le parole, «tuo padre ha un'altra».

Il mio giorno zero del mio anno zero fu quel 22 maggio 1998, e tutti i successivi giorni, per diversi giorni, fu tutto uno schifo. I miei genitori erano degli ipocriti ammantati di vaga fede religiosa, che litigavano spesso ma che usavano ancora più energie per apparire una famigliola perfetta agli occhi di tutti. La pentola a pressione esplose in quella separazione a dir poco burrascosa ed io la vidi esclusivamente da parte di mia madre.

Era il suo punto di vista che respiravo e mangiavo ogni giorno, erano i suoi pianti quelli che sentivo, le sue urla al telefono, le sue richieste di dormire assieme, come se lei fosse la bambina e io fossi l'adulta. Ma io non avevo idea di cosa fare, stavo lì imbambolata, assorbendo tutti i suoi pensieri, assecondando la sua rabbia. Distruggendo totalmente il rapporto con mio padre.

Nella sua tragicità, la vicenda fu ironica. Io detestavo i miei genitori e da almeno due, tre anni, ci discutevo continuamente alimentando il clima inquieto in casa: per l'impegno scolastico, per il tempo davanti alla TV, per l'aver abbandonato "l'ambiente sano" della parrocchia, per voler acquistare cose che dessero risalto a quello che mi stava crescendo addosso e che guardavo orgogliosamente allo specchio.

Per quella vicenda così tormentata, dedicai meno tempo a Vale, seguendo mia madre nella sua nuova vita da genitore single, discutendo più volte con mio padre al telefono quando lei, con aria affranta, me lo passava.

Non ci volevo parlare, ma lei mi dava la cornetta ugualmente, come se fosse una prescrizione medica. Io prendevo il ricevitore, mi lasciavo salutare, poi dicevo che non volevo sentirlo parlare e buttavo giù. Non potevo concepire che un uomo che abbandonava moglie e figlia potesse avere qualcosa da dire.

Finchè un giorno, giù dal pullman che mi riportava a casa da Cesena, me lo trovai ad aspettarmi. Era vestito in maniera casual ed aveva le spalle un po' cadenti, lo sguardo dispiaciuto.

«Non voglio parlare con te» lo aggredii.

«Dovresti, se non vuoi peggiorare una situazione già abbastanza incasinata».

«E' tutto merito tuo se è così, cosa vuoi sentirti dire ancora?» continuai, senza il minimo desiderio di conciliazione.

«Non voglio sentirmi dire nulla, voglio dirti un paio di cose, e poi valuterai tu, serenamente».

Sbuffando, buttai lo zaino nel sedile dietro e mi sedetti. Era già giugno, era caldissimo ed ero vestita talmente poco che sentivo il suo sguardo di disapprovazione addosso, e sentivo come stesse faticando a tenersi dentro le critiche per la camicia bianca a due bottoni aperti e legata sotto, come solo dopo farà Britney.

«Senti, so perfettamente di aver sbagliato nell'aver tradito tua madre. Ma erano mesi che stava ignorando tutti i miei messaggi di malessere. E non solo quelli velati. Abbiamo discusso mille volte sull'opportunità di separarci. Mille!» aveva scritto la cifra in aria con il dito, «Ma alla fine mi sono sempre sentito dire che la separazione era fuori discussione. Ciò che Dio unisce, gli uomini non possono dividere. E alla fine, beh, è successo questo».

Mi guardò, ma cercai di non avere reazioni alle sue parole, guardando fisso davanti a me.

«E ti posso assicurare che sentirsi dire "Vai fuori da questa casa" dopo tutto questo, una casa pagata con il mio sudore della fronte, senza nemmeno salutarti, non è stato esattamente quello che si può chiamare un buon addio».

Era vero, non ci eravamo salutati, era una di quelle cose che mi aveva dato un immenso fastidio, per non dire dolore.

«Puoi continuare a odiarmi. Tanto so che anche prima il nostro rapporto non era dei migliori. Ma per lo meno detestami per cose vere, non perchè ti sei fatta fare il lavaggio del cervello da tua mamma».

Aprii lo sportello con la macchina in movimento, urlando «Sì, ti odio, cazzo!».

Lui inchiodò, io presi lo zaino e scesi.

«Ecco, è esattamente questo, che ti volevo spiegare: non hai nemmeno detto una parola su tutto questo. Io sono il mostro a prescindere, forse è il caso che ci pensi su».

Lo odiavo perché avevo paura che avesse una qualche ragione in quello che aveva detto. Così dissi la prima cosa che mi venne in mente, che è sempre la cosa da non dire.

«Vai a casa a farti fare i pompini da quell'altra!».

Lui scese, adiratissimo, smozzicanzo un «Non ti permettere, ragazzina» ed io per un attimo ebbi il terrore di essere picchiata per quella frase che avevo detto di getto e che era semplicemente una reminiscenza di quanto sentito da mia madre nei momenti di più nero sconforto.

«Guai se mi tocchi!» urlai, sperando che avesse sentito qualcuno, afferrando lo zaino ed avviandomi nella direzione opposta a quella della macchina. Lui sbuffò e mise in moto, andandosene.

Tornai a casa, non andai nemmeno al mare ed aspettai mia madre, a cui raccontai tutto. Lei fu costernata, forse si aspettava che le facessi qualche domanda, che fosse costretta a spiegare alcuni passaggi.

Io non feci nulla di tutto questo, ci limitammo a farci coraggio a vicenda, ma il problema della convivenza esclusiva con mia madre rimase sul tavolo per svariati altri giorni.

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