THE GROUP

Francesca


Passò una settimana da quella notte, una settimana che sembrava infinita. Una notte di passione che continuava a bruciarmi addosso, come una fiamma che non si spegneva. Eppure, da due giorni non sentivo né vedevo Richard. Due giorni erano troppi, considerato che ci eravamo sentiti ogni giorno fino ad allora.

Odiavo il fatto che mi evitasse. Avevo imparato a leggere i suoi silenzi, ma questo mi infastidiva. Non riuscivo a smettere di chiedermi: se ne stava con un’altra? Forse Sasha? No, non con lei.

Cleopatra, con il suo modo di parlare sempre enigmatico, mi ripeteva una frase che mi tormentava. Innamorati di lui, come vuole la maledizione. Ma ricorda: muta sarai, e in un'altra vita insanguinata morirai.

Quelle parole mi perseguitavano. Non volevo morire così, legata a un destino che non avevo scelto. E allora avevo deciso: non mi sarei innamorata di Richard. Non avrei ceduto a quella maledizione. Ma perché, allora, ogni suo silenzio mi feriva come una lama?

Posai la maschera sul letto con un gesto distratto, cercando di concentrarmi. Una delle mie dame stava sistemando i miei abiti per la serata: una giacca elegante, pantaloni a zampa, stivaletti bassi e una cravatta. Questa sera dovevo incontrare il Boss di Hyperboria, un'occasione delicata che richiedeva il massimo controllo. Ci sarebbe stato anche mio padre, come sempre al centro delle trame di questo mondo parallelo, fatto di ombre e potere.

Mi svestii lentamente, lasciando che i pensieri fluissero. La mafia non era mai stata qualcosa di lontano; era sempre lì, come una seconda pelle per chi viveva in Hyperboria. Ma questa sera mi sentivo diversa, quasi vulnerabile.

Prima di indossare il completo, sistemai i capelli in una coda alta e decisi di mettere gli orecchini d’oro di mia madre. Un pezzo di lei, qualcosa che mi facesse sentire meno sola in mezzo a quei volti spietati.

Aprii la porta della sala delle riunioni, e il brusio si spense all'istante. Tutti erano già seduti al loro posto, i volti seri e concentrati, e l’aria pesante di aspettative e segreti. Non ero mai stata in quella stanza prima d’ora, né in una riunione di mafiosi.

Le pareti erano decorate con stemmi antichi e mappe che raccontavano la storia di Hyperboria, ma non erano quelle a mettermi a disagio. Era l'intensità degli sguardi che si posarono su di me quando entrai, ogni occhiata carica di giudizio. Ma non mi fermai. Camminai a testa alta, verso il posto che mi era stato assegnato. Ero pronta. O, almeno, volevo esserlo.
__

Mi sedetti al mio posto, cercando di sembrare composta mentre mio padre faceva il suo ingresso nella sala. Il suo bastone, con l'impugnatura d'argento, batteva ritmicamente sul pavimento di marmo, un suono che imponeva silenzio e rispetto. Gli uomini si alzarono in piedi all'unisono, un gesto automatico, come se fosse parte di un rito antico. Mi alzai anch'io, seguendo il protocollo, e incrociai il suo sguardo. Mi sorrise appena, un sorriso che sapeva più di potere che di affetto, e fece un cenno con la mano.

«Sedetevi, prego,» disse con voce profonda, e tutti obbedirono immediatamente.

Si accomodò al centro della lunga tavola di legno scuro, prendendo il posto d’onore. Matteo e Salvatore, due dei suoi uomini più fidati, erano già lì, pronti a parlare. Matteo era un uomo alto e magro, con uno sguardo tagliente come una lama, mentre Salvatore aveva un'aria più bonaria, ma il suo sorriso nascondeva una mente strategica.

Mio padre iniziò con tono calmo, ma autoritario: «Matteo, hai novità sulle operazioni al porto?»

«Maesta,» rispose Matteo, sistemandosi la cravatta, «abbiamo avuto un piccolo... inconveniente. Una delle spedizioni è stata trattenuta per errore dalla dogana. Pare che abbiano ricevuto una soffiata.»

Mio padre non cambiò espressione, ma il silenzio che seguì fu pesante. «Errore? O qualcuno sta giocando con noi?»

Salvatore intervenne, cercando di stemperare la tensione: «Abbiamo già sistemato la situazione, signore. I funzionari che hanno bloccato la merce sono stati... persuasi. La spedizione sarà al sicuro entro domani.»

Mio padre annuì lentamente, ma il suo sguardo si fermò su Matteo. «Non voglio più errori, capito? Se c’è una falla, trova chi ha parlato e sistemalo. Non possiamo permettere che il nostro controllo sul porto venga messo in discussione.»

«Lo farò immediatamente,» disse Matteo con un cenno deciso.

Poi mio padre si girò verso Salvatore. «E per quanto riguarda i nuovi accordi con il clan di Siracusa? Hai parlato con i loro uomini?»

Salvatore annuì. «Sì, signore. Sono d'accordo sui termini, ma hanno richiesto una percentuale maggiore sugli introiti delle armi.»

Mio padre alzò un sopracciglio, visibilmente infastidito. «Una percentuale maggiore? Pensano forse di avere un qualche tipo di leva su di noi?»

«Pare che abbiano stretto un patto con i russi,» spiegò Salvatore. «Ma posso garantire che non è nulla che non possiamo gestire.»

Mio padre si accigliò, tamburellando le dita sul bastone. «I russi sono un problema. Non possiamo permettere che si infilino nei nostri affari. Salvatore, voglio che tu li incontri di nuovo e chiarisca che non ci saranno modifiche agli accordi. Se non accettano, troveremo un altro modo per risolvere la questione.»

«Come desiderate,» rispose Salvatore con un leggero inchino.

Io osservavo in silenzio, cercando di cogliere ogni parola, ogni sottotesto. Era come assistere a una partita a scacchi, dove ogni mossa aveva conseguenze imprevedibili.

La conversazione continuava a scorrere, il tono si faceva più cupo. Mio padre si rivolse nuovamente a Salvatore. «Dimmi, Boss, com’è la situazione con i nostri fornitori di droga? Abbiamo avuto problemi di qualità o distribuzione?»

Salvatore, soprannominato «il Boss della mafia» per la sua capacità di controllare e dirigere l'intera organizzazione, scosse la testa con calma. «No, Maestà, tutto scorre come previsto. La purezza del prodotto è alta, e le rotte di distribuzione sono sicure. Abbiamo solo avuto qualche problema con alcuni nuovi intermediari, ma nulla che non possa essere sistemato.»

Mio padre annuì, visibilmente soddisfatto. Poi spostò lo sguardo su Matteo, il figlio di Dom Matteo, un uomo che aveva stretto amicizia con mio padre nel lontano 1959, consolidando una delle alleanze più forti della mafia di Hyperboria. Matteo, con il suo sguardo attento, prese la parola.

«I cereali stanno diventando una copertura sempre più efficace per il contrabbando,» disse, puntando l'indice su una mappa aperta al centro del tavolo. «Abbiamo usato i magazzini al porto per nascondere le consegne. Nessuno sospetta nulla, almeno per ora.»

«Buona mossa,» rispose mio padre. «Ma bisogna tenere tutto sotto controllo. Una sola falla potrebbe costarci molto caro.»

Matteo annuì, ma poi fece un respiro profondo, come se stesse per dire qualcosa di delicato. «Signore, temo ci sia un problema più serio. Credo che nella nostra organizzazione ci sia un infame.»

La stanza si fece silenziosa, l'atmosfera divenne gelida. Tutti guardarono Matteo, aspettando che continuasse. Mio padre si sporse leggermente in avanti, i suoi occhi erano freddi e taglienti. «Un infame, dici? Spiegati.»

«Abbiamo perso due consegne importanti nell’ultima settimana, e la soffiata alla dogana non è stata un caso. Qualcuno sta parlando. Abbiamo già iniziato a indagare, ma ci vuole tempo.»

Mio padre si alzò lentamente, appoggiandosi al bastone. Il suo sguardo passava da un volto all’altro dei presenti. «Tempo? Non abbiamo tempo, Matteo. L’infame va trovato e punito, immediatamente.»

Proprio in quel momento, uno degli uomini entrò nella stanza, portando un altro uomo con sé. Il secondo era visibilmente nervoso, sudava copiosamente, e il suo viso era pallido.

«Signore,» disse l'uomo che lo teneva fermo, «abbiamo motivo di credere che questo sia l’infame.»

Mio padre lo fissò con uno sguardo gelido. «È vero? Hai tradito la famiglia?»

L’uomo balbettò, cercando di negare, ma le sue parole erano confuse, prive di convinzione. Mio padre non gli diede nemmeno il tempo di difendersi. Prese la pistola dalla cintura di Salvatore e la puntò contro l’uomo.

«Non c'è posto per i traditori nella mia famiglia,» disse freddamente, e senza esitazione, sparò.

Il corpo cadde a terra con un tonfo, e nella stanza calò il silenzio. Mio padre restituì la pistola a Salvatore e disse con voce glaciale: «Ora, torniamo ai nostri affari. E che questo serva da lezione per tutti.»

Io restai seduta, immobile, cercando di mascherare lo shock. La freddezza di mio padre non smetteva mai di sorprendermi. Guardai Matteo e Salvatore, che si limitavano ad annuire, come se fosse tutto normale. Per loro, forse, lo era davvero.

Gli uomini trascinavano via il corpo senza vita dell'infame, lasciandosi dietro una scia di silenzio teso. Mio padre osservava la scena con il volto impassibile, poi si voltò verso Salvatore e Matteo.

«È tempo di ripensare il modo in cui trasportiamo la merce,» disse, appoggiandosi al bastone. «Le rotte sono sempre più a rischio, e dobbiamo assicurarci che i nostri metodi siano... invisibili. Avete idee?»

Gli uomini rimasero in silenzio per un attimo, poi Matteo accennò: «Potremmo diversificare le rotte, usare piccoli trasporti più frequenti invece di grandi carichi. Sarebbe meno rischioso, ma richiederebbe più uomini.»

Salvatore annuì. «Concordo, ma rischiamo di perdere il controllo sui movimenti. Troppe variabili.»

A quel punto intervenni io. «Io ho un'idea,» dissi con calma.

Mio padre si girò lentamente verso di me, alzando un sopracciglio. Gli uomini attorno al tavolo si irrigidirono, come se non fossero abituati a sentire una donna parlare in quelle circostanze.

«Parla,» disse mio padre, il tono curioso ma autoritario.

«Possiamo nascondere la droga tra i vestiti,» iniziai. «Creiamo una linea di abbigliamento sotto copertura, magari qualcosa di esclusivo, costoso, che nessuno penserebbe di controllare troppo a fondo. Potremmo integrare la merce nelle cuciture, nelle fodere... sarebbe quasi impossibile da scoprire senza distruggere il capo.»

Un sussurro si alzò tra gli uomini presenti. Mio padre sorrise appena, un gesto raro. «Interessante,» disse, fissandomi con occhi penetranti. «Continua.»

«Ho anche un'altra idea,» aggiunsi. «Possiamo usare la chiesa.»

«La chiesa?» ripeté mio padre, appoggiandosi al bastone e inclinandosi verso di me. Gli uomini si scambiarono occhiate scettiche, ma io proseguii con sicurezza.

«Sì. Possiamo nascondere la droga nei corredini che vengono spostati per le opere caritative. Creiamo la merce in fabbriche sotto la nostra gestione, consegniamo i corredini pieni di droga alla chiesa e loro li trasportano senza sospetti. Oppure... possiamo nasconderla direttamente in chiesa, nei luoghi meno accessibili, come le stanze dove tengono le ostie o il vino consacrato. Nessuno controlla a fondo quegli spazi, e sarebbe un modo perfetto per bypassare i controlli.»

Mio padre mi fissò per un momento che sembrò eterno, poi un sorriso sottile gli curvò le labbra. «Geniale,» disse con un tono basso, quasi compiaciuto. «Hai preso da me, Fanny.»

Gli uomini annuirono, alcuni accennando un applauso sommesso. Salvatore si sporse leggermente in avanti. «Sono idee brillanti, Maestà. Con il suo permesso, possiamo iniziare a studiare i dettagli per entrambe le operazioni.»

Mio padre alzò una mano per fermarlo. «Non ancora. Prima voglio assicurarmi che tutto sia pianificato alla perfezione. Matteo, voglio che tu lavori con mia figlia su questi progetti. E Salvatore, voglio un resoconto completo sulle rotte attuali e sulle coperture disponibili.»

Poi si rivolse a me. «Hai altre idee, Fanny?»

«Non al momento, padre,» risposi, mantenendo il tono rispettoso.

Matteo mi fissò per un momento, poi si avvicinò leggermente, accennando un sorriso. «Conosci stiliste disposte a collaborare con noi?» chiese con tono calmo ma curioso.

Sorrisi. «Sì, mia sorella. È una stilista di talento, con una rete di contatti eccellente. Parlerò con lei per proporle l'idea.»

«Perfetto,» rispose Matteo annuendo.

Salvatore intervenne, accendendosi un sigaro. «E per quanto riguarda la chiesa? Hai già in mente un piano concreto?»

Sorrisi di nuovo, inclinando appena il capo. «Ho due piani, in realtà. Il primo è semplice. Mi presenterò in chiesa per tre giorni consecutivi, fingendo di partecipare al rosario. In questo modo, posso avvicinarmi a una delle suore e proporle l'offerta: diecimila sterline per il nostro 'accordo'. Le daremo il denaro per convincerla a collaborare.»

Mio padre ascoltava in silenzio, ma al termine delle mie parole fece un leggero cenno con il bastone, indicando approvazione.

«E se rifiuta?» chiese Salvatore, soffiando fuori una nuvola di fumo.

Sorrisi con freddezza. «Allora la minacciamo. Non può parlare: mio padre è l'imperatore, e non ci sono conseguenze che possa affrontare senza subirne il doppio.»

Matteo sorrise leggermente, ma Salvatore continuava a fissarmi con un misto di curiosità e rispetto. «E l'altro piano?» domandò.

«Se il primo fallisce,» risposi con calma, «costringeremo una delle nostre serve a prendere i voti. Una donna fidata che possa fingersi una suora e infiltrarsi nella chiesa per i nostri scopi. In questo modo, avremo pieno controllo della situazione dall'interno.»

Ci fu un momento di silenzio, interrotto solo dal suono del sigaro di Salvatore che si consumava. Mio padre sorrise lievemente, mostrando una soddisfazione appena accennata.

«Intelligente,» disse mio padre. «Direi che abbiamo un piano solido. Matteo, lavora con Fanny per coordinare i dettagli con sua sorella. Salvatore, voglio che tu supervisioni il piano della chiesa e assicuri che nessuno ci tradisca.»

Gli uomini annuirono, e Matteo mi lanciò un'occhiata di approvazione. «Devo dire che sei più furba di quanto pensassi, Fanny,» disse con un sorriso sottile.

«Ho preso da mio padre,» risposi, mantenendo il tono neutro ma con un pizzico di orgoglio.

Mio padre si alzò, battendo il bastone sul pavimento. «Bene, questa riunione è conclusa. Voglio aggiornamenti in una settimana. E ricordate: il nostro successo dipende dalla discrezione e dall'efficienza. Nessun errore sarà tollerato.»

Gli uomini si alzarono, salutando mio padre con rispetto, mentre io restavo seduta per un momento, osservando il mio riflesso nel bicchiere di vino davanti a me. La mia posizione in quell'organizzazione cresceva, ma sentivo anche il peso di ciò che significava. Non c'era spazio per debolezze o errori, non con un padre come il mio.

***

Non potevo credere di averlo fatto, ma dovevo. Ogni passo era necessario per mantenere il controllo, per dimostrare che ero degna del potere che avevo ereditato. Più tardi, ero nella mia stanza, circondata dai libri e dalle carte che studiavo per perfezionare il piano. Ma la mia mente continuava a vagare verso Richard, verso quella sua presenza che sembrava invadere ogni mio pensiero.

All'improvviso, la porta si aprì senza bussare. Mi girai di scatto, sorpresa, e vidi la serva che si inchinava leggermente. «Altezza imperiale, c'è una chiamata per voi. È Richard,» annunciò con una voce calma, ma curiosa.

Un sorriso involontario mi sfuggì. Mi alzai, lisciando la gonna con le mani, e uscii dalla stanza. Nel corridoio, presi il telefono che mi porgeva la serva e appoggiai l'apparecchio all'orecchio.

«Pronto?» dissi, cercando di mantenere un tono neutro, anche se il cuore mi batteva più forte.

La voce di Richard arrivò dall'altro capo, profonda e misteriosa, come sempre. «Ci vediamo alle 23 in punto,» sussurrò, quasi come se stesse condividendo un segreto proibito. «Porta la maschera.»

Un brivido mi percorse la schiena. «Dove?» chiesi, ma la linea si chiuse prima che potessi ottenere una risposta.

Rimasi ferma per un attimo, fissando il telefono nella mia mano. Il pensiero di vederlo di nuovo mi riempiva di una strana miscela di eccitazione e inquietudine. Guardai l'orologio: avevo poche ore per prepararmi.

Con un sospiro, consegnai il telefono alla serva e tornai nella mia stanza. Aprii l'armadio, scorrendo tra gli abiti alla ricerca di qualcosa di adatto. La maschera era appoggiata sul letto, bianca e inquietante con quelle macchie scure attorno agli occhi. Era un simbolo, un messaggio, qualcosa che mi legava a lui in modi che non volevo ancora ammettere.

Alle 23, mormorai a me stessa, stringendo la maschera tra le mani.

Optai per un corpetto stretto, che metteva in risalto i miei seni e modellava il mio corpo, rendendolo ancora più slanciato. Lo abbinai a un paio di jeans neri aderenti, che sembravano cuciti addosso, e una giacca di pelle nera, che completava il look con un tocco di ribellione.

Guardandomi allo specchio, notai il contrasto tra la mia eleganza naturale e l’oscurità che sembrava emanare da me. La maschera giaceva ancora sul letto, bianca e spettrale. La presi con delicatezza e la osservai, come se potesse rivelarmi i segreti di quella notte che si avvicinava.

Non c’era bisogno di gioielli, eccetto un sottile braccialetto d’oro al polso, regalo di mia madre, che non toglievo mai. I capelli li lasciai sciolti, lisci e fluenti, come un mantello di seta. Mi spruzzai un tocco di profumo, qualcosa di leggero ma avvolgente, e afferrai la maschera.

Ero pronta.

Mentre uscivo dalla mia stanza, incrociai la serva che mi guardò con un misto di curiosità e preoccupazione. «Tornerò tardi,» le dissi senza darle ulteriori spiegazioni. Lei si limitò a un cenno, abituata a non fare domande.

Le 23 si avvicinavano, e con esse il mistero di ciò che Richard aveva pianificato.

Uscendo dal castello, l’aria fresca della notte mi colpì, pungente e silenziosa. Il buio avvolgeva tutto, illuminato solo da deboli lampioni e dalla luna che si rifletteva sulla ghiaia del cortile. La maschera che stringevo tra le mani sembrava più pesante del solito, come se portasse con sé un peso che non ero pronta a sopportare.

Mentre mi avvicinavo al cancello, sentii il suono familiare del motore di una macchina. Il cancello si aprì lentamente, rivelando l’auto di Richard. Il cuore mi batté più forte, ma il mio entusiasmo svanì nel momento in cui notai chi era con lui.

Jeffrey, il suo amico di sempre, era seduto accanto a lui sul sedile anteriore. Accanto a Jeffrey, Sasha, con il suo solito sguardo altezzoso, si voltò verso di me con un mezzo sorriso che non nascondeva affatto la sua superiorità. Richard era al posto di guida, il viso nascosto dalla sua maschera, ma la postura rilassata tradiva la sua consueta sicurezza.

Mi fermai per un istante, cercando di nascondere la delusione. Speravo che fosse venuto da solo. E invece no, erano qui, come se la loro presenza fosse indispensabile per qualsiasi cosa Richard avesse pianificato.

Richard abbassò il finestrino e mi fissò. «Sali,» disse con il tono autoritario che gli apparteneva.

Feci un passo avanti, passando accanto alla macchina. Quando aprii la portiera posteriore, Sasha si girò verso di me con un sorriso che sembrava più una sfida che un gesto di cortesia. «Francesca, che sorpresa,» disse con una voce melliflua, ma io ignorai il suo commento e salii, chiudendo la portiera dietro di me.

Jeffrey si voltò appena, accennando un saluto con un cenno della testa, mentre Richard mise in moto senza dire una parola. Il silenzio nell’auto era carico di tensione, e la presenza di Sasha sembrava rendere tutto ancora più soffocante. Ma non avrei permesso che mi vedessero turbata.

Stringevo la maschera tra le mani, chiedendomi cosa mi aspettasse quella notte e perché Richard avesse scelto di portare anche loro.

Richard mi lanciò uno sguardo dallo specchietto retrovisore mentre la macchina avanzava lentamente lungo la strada. «Scusami se non ti ho chiamato, sono stato impegnato,» disse con tono distaccato, come se la sua voce volesse minimizzare l'importanza delle sue parole.

Non risposi. Guardavo fuori dal finestrino, il paesaggio sfocato dalla velocità e dai miei pensieri. Avevo una marea di cose da dirgli, ma la presenza di Jeffrey e Sasha mi tratteneva. Il silenzio tra noi era pesante, carico di tensione e parole non dette.

Dopo un po', la macchina si fermò davanti a un bar dall’aspetto trasandato. Richard scese per primo, e io lo seguii subito dopo, cercando di camminare al suo fianco. «Mi sei mancato,» mormorai con un filo di voce.

Richard non rispose. Guardava davanti a sé, come se la mia confessione non meritasse una risposta. Entrammo nel bar, accolti da un odore di fumo e alcol, con luci fioche che rendevano l’ambiente quasi spettrale. Richard e Jeffrey si sedettero a un tavolo in fondo alla stanza. Sasha, con il suo solito atteggiamento provocante, si accomodò sulle gambe di Richard, scivolandoci sopra come se fosse il suo posto naturale.

Lo baciò sul viso, lasciando che il gesto si prolungasse più del necessario. Rimasi in piedi, rigida e con lo sguardo fisso su di loro, mentre un’ondata di rabbia e umiliazione mi attraversava.

«Perché non ti siedi, Fanny?» disse Sasha, la sua voce melliflua e tagliente. «Sua Altezza non frequenta posti come questo, vero?» aggiunse con un sorriso falso, guardando Richard come per cercare complicità.

Richard sorrise appena, ma invece di dire qualcosa, le diede una sculacciata leggera. Sasha sussultò, ma rimase al suo posto, ridacchiando. «Gli uomini preferiscono donne come me,» disse, il tono altezzoso e sicuro di sé.

Sorrisi freddamente, facendo un passo avanti. «Donne come te,» dissi, «sono perfette per andare a letto, ma nessuno si fidanzerebbe mai con una come te.»

La sua espressione cambiò in un lampo. Si alzò di scatto dalle gambe di Richard e mi si avvicinò. «Sei proprio una stronza,» sibilò, prima di alzare una mano e schiaffeggiarmi.

Non esitai nemmeno un secondo. Le restituii lo schiaffo con forza, il suono dello schiocco che risuonò nel bar. Jeffrey e Richard si alzarono immediatamente. Richard mi afferrò per le braccia, bloccandomi.

«Stai bene, Sasha?» chiese, il tono preoccupato, ma senza perdere quella calma che lo contraddistingueva.

Sasha lo guardò, con una mano sulla guancia arrossata. «Pensa a lei, che stronza,» rispose, rabbiosa.

Il mio sguardo si incrociò con quello di Richard. Il mio respiro era pesante, ma non mi pentii di quello che avevo fatto. Forse, in quel momento, lui avrebbe capito che non ero una donna da mettere in secondo piano.

Richard mi girò verso di lui con un movimento brusco, le sue mani forti stringendomi il polso con una pressione che mi fece sentire subito vulnerabile. «Vi ho portato qui per divertirvi, non per litigare,» disse con voce bassa e autoritaria, guardandomi con intensità.

«Ha iniziato lei,» risposi, cercando di giustificarmi, ma la mia voce tremava sotto il suo sguardo penetrante.

Richard non rispose subito, ma la sua presa si fece più stretta, costringendomi a guardarlo nei suoi occhi. «Non fare la bambina del cazzo,» mi sussurrò, la sua voce diventando più minacciosa.

Sasha, che era rimasta in piedi vicino a lui, sorrideva con aria provocatoria. «Non sai com’è stato bello scopare il tuo ragazzo oggi,» disse, con un tono che mi fece gelare il sangue.

Le sue parole mi colpirono come un pugno nello stomaco. I presenti nel bar si voltarono a guardarci, e un silenzio imbarazzante si fece strada tra di noi. Un'ondata di vergogna mi sopraffece, il mio viso arrossì e il mio cuore batté più forte.

«Lasciami!» esclamai, cercando di divincolarmi dalla sua stretta, ma la sua presa sul mio polso mi impediva di muovermi. Sapevo che non avrei potuto liberarmi facilmente da lui, e la mia vergogna cresceva ad ogni secondo.

Richard mi fissò intensamente, gli occhi freddi e decisi. «Torna a sederti, Fanny,» ordinò, senza lasciare spazio per obiezioni.

Sasha, che stava cercando di insinuarsi tra noi, continuò con il suo sorriso beffardo, ma io non volevo più essere parte di quella scena. Mi sentivo umiliata e persa, ma la mia rabbia e la mia frustrazione mi spinsero a camminare verso l'uscita del bar senza guardare indietro, sperando che quella serata finisse presto.

Mi misi le mani sui fianchi, cercando di nascondere la rabbia che cresceva dentro di me. Sentii la porta del bar aprirsi dietro di me e Richard mi chiamò, ma la sua voce non faceva altro che aumentare la mia irritazione. «Fanny, torna dentro,» disse, con il tono di chi vuole avere il controllo.

«No,» risposi, girandomi di scatto verso di lui. «Portami a casa.»

Lui si avvicinò, ma non mi spostai di un passo. Sentivo l'adrenalina salire. Mi girai e gli tirai un pugno nel petto, più per liberarmi dalla frustrazione che per fargli del male. «Sei uno stronzo! Ti sei ricordato di raccontare a quelli che siamo stati insieme?» urlai.

Lui rimase fermo, ma non mi disse nulla per un momento, poi guardandomi negli occhi disse: «Sono i miei amici.»

La sua risposta mi fece impazzire ancora di più. Senza pensarci, gli tirai un altro pugno, questa volta più forte. «Sei uno stronzo! Non dovevi dirlo a nessuno!» gridai, il mio cuore batteva forte nel petto, il respiro affannoso.

Lui non reagì come mi aspettavo. «Smettila, entra,» disse con voce fredda, cercando di mettermi a tacere.

«No, non è vero!» esclamai, non riuscendo più a trattenere la rabbia. «Per essere umiliata con quella troia! Chi si crede di essere?» Il mio corpo tremava per l'emozione e la frustrazione.

Richard mi guardò in silenzio, i suoi occhi scuri pieni di qualcosa che non riuscivo a leggere, ma la sua indifferenza mi colpiva più di ogni cosa. Non sapevo se volevo restare a lottare con lui o scappare via.

Mi prese improvvisamente per il polso con una forza che mi fece trasalire, trascinandomi verso la macchina. «Andiamo,» mi ordinò, senza nemmeno guardarmi. Il suo tono era glaciale, e la sua presa mi fece sentire impotente. Urlii, cercando di divincolarmi, ma lui non mi lasciò andare.

Quando arrivammo alla macchina, aprì la portiera e mi spinse dentro. Il suono di un tuono rimbombò nel cielo, facendomi sobbalzare. Mi sedetti sul sedile, ma non riuscii a dire nulla, la tensione nell'aria era palpabile. Richard chiuse la portiera e si sedette al suo posto.

«Volevo solo trascorrere del tempo con te,» disse, il suo tono improvvisamente più basso, ma ancora duro. «Non è tutto sempre così difficile, Fanny.»

«Ma sei un imbecille!» urlai, lanciando un'occhiata furibonda verso di lui. «Come puoi pensare che io voglia passare il mio tempo con te, dopo tutto quello che hai fatto? Mi hai umiliata davanti a tutti!»

Lui non rispose subito, ma sentii il suo sguardo freddo fissarmi. Poi, con voce ancora più carica di rabbia, continuò: «Perché non puoi semplicemente capire? Non c’è bisogno di fare una scena ogni volta. Non siamo dei bambini.»

Mi morsi il labbro, cercando di mantenere il controllo. «Tu sei il bambino, Richard! Hai rovinato tutto! E adesso pretendi che io stia qui tranquilla, come se niente fosse!»

Il suo viso divenne ancora più teso, la sua rabbia cresceva mentre il motore della macchina ruggiva. Le sue mani stringevano il volante con forza, ma non smetteva di guardarmi. Non rispose subito, ma sentii che l'atmosfera tra di noi stava diventando ancora più carica di tensione.

Improvvisamente, sentimmo un forte rumore: una ruota che scivolava sul bagnato, e il veicolo sbandò. «Merda!» urlò, mentre la macchina scivolava fuori controllo. Un altro tuono risuonò nel cielo, e una scarica di fulmine illuminò la strada. In un attimo, la macchina schivò l’ostacolo, ma finì contro un albero che si accese in un istante, mentre il fumo iniziava a sollevarsi.

Il cuore mi balzò in gola. «Oh mio Dio!» urlai, tremando. Richard si sforzò di mantenere il controllo, ma la macchina si fermò bruscamente. Il caldo del fuoco e il suono delle fiamme che si sollevavano intorno a noi mi fecero entrare nel panico. «Richard! Cos'è successo?» gridai, la paura montando in me.

Ma lui non rispose. I suoi occhi erano fissi sul fuoco, e il suo volto era una maschera di rabbia e frustrazione.

La pioggia iniziò a cadere fitta, gelida e incessante. L’acqua scivolava sulla pelle, mentre il fumo del fuoco si diradava. Richard mi guardò con occhi infuocati, la sua bocca serrata in un’espressione di rabbia che sembrava esplodere da un momento all’altro.

«Sei solo una bambina del cazzo,» disse con voce gelida, le parole affilate come lame. «Tutto è colpa tua. Se non fossi stata così stupida, questo non sarebbe mai successo.»

La sua rabbia mi colpì come un pugno, ma non potevo stare a guardare. Il fuoco era ormai spento, ma la sua furia non si placava. Lui uscì dalla macchina con passi decisi e feroci, lanciando uno sguardo infuriato verso il cielo grigio, come se volesse distruggere tutto intorno a sé.

«Richard!» urlai, correndo dietro di lui. La pioggia mi investì, ma non mi fermai. Quando arrivai vicino a lui, lo trovai lì, fermo, con le mani strette in pugni, le spalle tremanti.

Gli toccai delicatamente la spalla, cercando di calmarlo, ma appena lo feci, si scostò violentemente, come se il mio contatto fosse una scossa elettrica. «Non toccarmi,» grugnì, con voce rotta e incerta. «Torna dentro. Non voglio che mi vedi così.»

Sentii il suo corpo tremare, e in un attimo, i suoi occhi si riempirono di lacrime che non voleva mostrare. «Richard...» dissi, ma le parole mi morirono in gola. Non sapevo cosa fare, come aiutarlo.

Lui mi guardò, gli occhi pieni di dolore, ma anche di rabbia repressa. «Non fare finta di capire,» sussurrò, come se stesse combattendo una battaglia dentro di sé. «Non sei capace di capire cosa significa essere me.»

Mi avvicinai di nuovo, più delicatamente stavolta, senza spingere, solo cercando di fargli capire che non l’avrei lasciato da solo. «Richard, piangi... non c'è niente di sbagliato in questo,» dissi con una voce morbida, mentre cercavo di abbracciarlo.

Ma lui fece un passo indietro, lanciando un’occhiata furiosa. «Torna dentro, Fanny. Non voglio che mi veda così.»

Eppure, la sua voce non aveva la stessa sicurezza di prima. C’era qualcosa di spezzato in lui, qualcosa che nessuna parola, nessun gesto, sembrava riuscire a curare.

Mi avvicinai lentamente, il cuore gonfio di paura e di compassione. Gli toccai la spalla, sperando che in quel gesto ci fosse qualcosa di più, qualcosa che potesse calmare il suo tormento. «Richard, calma… devi calmarti.≥

Lui si girò bruscamente, gli occhi pieni di furia. «Come cazzo faccio a calmarmi, Fanny?» urlò, e le sue parole erano taglienti, come una frustata. «Tu non capisci niente!»

La pioggia continuava a battere su di noi, il suono del tuono che sembrava rispecchiare la tempesta dentro di lui. Non c'era niente che potessi fare per placare quella furia, ma non potevo lasciarlo solo, non potevo lasciarlo sprofondare in quella rabbia senza una via d'uscita.

«Richard...» dissi, avvicinandomi, «sfogati con me, non andare via. Non me ne andrò, lo sai.»

Lui mi guardò, un'espressione di vuoto e disperazione nei suoi occhi. Mi spinse, facendomi cadere a terra. «L'unica cosa che vorrei farti è scoparti o soffocarti con il mio cazzo», ringhiò, il suo respiro affannoso. «Mi fai incazzare, Fanny.»

Il suo dolore era palese, ma le sue parole erano veleno. Mi alzai, ma la paura si stava facendo strada dentro di me. «Richard, hai un attacco di rabbia. Devi stare calmo, per favore.»

Era come se ogni parola che provavo a dirgli fosse inutile. «Come faccio a calmarmi?» urlò di nuovo, il suo corpo scosso da un’energia incontrollabile.

Mi avvicinai a lui, sentendo il suo respiro irregolare, cercando di calmare il caos che sembrava consumarlo. Le sue mani tremavano mentre lo guardavo, ma non riuscivo a staccarmi, come se ci fosse qualcosa di irresistibile nel suo tormento. Non c'era più spazio per la ragione, solo per l'impulso, e io sapevo che dovevo fare qualcosa.

Lo baciai, le sue labbra dure contro le mie, come se stesse cercando di sfogare tutta la sua rabbia. Non c'era dolcezza in quel bacio, solo violenza, eppure lo accettai. Sentivo le sue mani afferrarmi con forza, ma non mi tirai indietro. Accarezzai il suo viso, cercando di trasmettergli calma, ma le sue emozioni erano troppo forti per essere fermate.

«Stai calmo», dissi con voce bassa, cercando di fargli capire che c'era ancora qualcosa di buono tra noi, nonostante la tempesta che lo agitava. Ma lui non sembrava ascoltare, la sua rabbia esplodeva in ogni suo gesto.

«È tutta colpa tua», ringhiò, la voce rotta dalla frustrazione. La sua espressione era scura, i suoi occhi carichi di odio verso tutto e tutti, ma soprattutto verso sé stesso.

Sospirai, e con delicatezza gli accarezzai le spalle. «Stai calmo, Richard. Non serve a niente continuare così.» Ma lui non sembrava ascoltarmi. Sentivo la sua energia pulsare, la sua rabbia che non riusciva a placarsi.

Poi, in un attimo di caos, mi prese in braccio, i suoi muscoli tesi mentre mi sollevava senza alcuno sforzo. «Cosa fai?» chiesi, sorpresa, ma lui non rispose. Il suo respiro era affannoso, e sentivo il battito del suo cuore accelerato. Avevo paura, ma allo stesso tempo, c'era qualcosa di magnetico nella sua rabbia, una potenza che non riuscivo a ignorare.

«Richard, calmati!» urlai, ma la sua mente sembrava lontana, sopraffatta dalla rabbia che non riusciva a contenere.

Era come se fossimo entrambi intrappolati in un circolo vizioso, incapaci di liberarci, ma io non volevo arrendermi. Dovevo aiutarlo, dovevo farlo tornare indietro da quella furia che stava consumando ogni parte di lui.

Mi appoggó sulla macchina, il corpo ancora tremante, cercando di capire le sue parole, ma non riuscivo a formulare una risposta. Lo guardai, il suo volto teso, i suoi occhi brucianti di un'energia che non riusciva a controllare. La pioggia continuava a cadere intorno a noi, ma sembrava come se il mondo si fosse fermato in quel momento, lasciandoci intrappolati in una sorta di vuoto sospeso.

«Voglio calmarmi», disse, la sua voce bassa e velata di una vulnerabilità che non avevo mai visto prima. «E odio chiedertelo, ma ho bisogno di te.»

Un nodo mi si formò allo stomaco, il cuore che batteva forte. Non sapevo cosa dire, cosa fare. Non volevo che lui si sentisse così, ma allo stesso tempo non potevo ignorare la forza di ciò che stava dicendo. Richard aveva bisogno di qualcosa che solo io potevo dargli in quel momento. E, nonostante tutto, qualcosa dentro di me mi spingeva ad essere lì per lui, a rispondere alla sua richiesta, anche se era più complicata di quanto avessi mai immaginato.

Mi baciò un seno, l'azione crudele ma carica di desiderio. Un misto di confusione e eccitazione mi attraversò, ma non riuscii a dire nulla. Mi mordicchiai il labbro inferiore, lottando con il tumulto dentro di me.

«Richard...» dissi, la voce tremante, ma lui non si fermò, continuando a scatenare in me un vortice di emozioni che non riuscivo a gestire. Mi sentivo persa in quel momento, tra il desiderio di aiutarlo e la paura di quello che stava accadendo. Ma la mia mente era offuscata, sopraffatta da ciò che sentivo, e sapevo che dovevo affrontarlo, che dovevo affrontarlo insieme a lui, anche se non avevo tutte le risposte.

La pioggia scorreva sui nostri corpi, sentii il suo respiro caldo contro la mia pelle. Iniziò a baciarmi il collo con passione, le sue labbra umide lasciavano tracce ardenti. Ansimai, incapace di resistere a quel tocco.

Richard si spostò lentamente, le sue labbra scivolarono sui miei seni. Il corpetto stretto si strinse attorno a me, ma non potei fare a meno di notare come uno dei miei seni sfuggisse dalla sua prigionia. Lui lo afferrò con una mano esperta, mentre l’altra continuava a esplorare il mio corpo. La sensazione era travolgente; ansimai nuovamente, sentendo il suo tocco bruciare come il fuoco.

«Non voglio sentire alcun rumore,» sussurrò con voce rauca, «solo il mio nome urlato.» Le sue parole erano un comando e un invito al contempo; sapevo che stava per portarmi oltre ogni limite.

Con un gesto deciso, Richard mi tolse i jeans, lasciandomi in balia della pioggia e del desiderio. La frescura dell’acqua contrastava con il calore crescente tra noi. Mi sentivo vulnerabile eppure incredibilmente viva. Lui abbassò i pantaloni e rivelò il suo membro duro, pulsante di desiderio. I suoi occhi si fissarono nei miei con una determinazione selvaggia.

«Non ci andrò piano, lo sai,» disse con un sorriso provocatorio che mi fece tremare. La sua sicurezza era contagiosa; non avevo mai desiderato qualcuno con tanta intensità.
«Sfogati, Richard,» dissi, la mia voce un sussurro carico di brama. «Fallo con me.»
In quel momento, la pioggia sembrava intensificarsi attorno a noi, creando una barriera tra noi e il mondo esterno. Richard si avvicinò ancora di più, le sue mani esploravano ogni curva del mio corpo mentre io mi abbandonavo completamente al suo tocco. Ogni bacio che mi dava era come una scintilla che accendeva il fuoco dentro di me.

Con un movimento rapido ma delicato, mi spinse contro il muro bagnato. L’acqua scorreva su di noi mentre lui si avvicinava ulteriormente, i suoi occhi fissi nei miei con una intensità che mi fece perdere il fiato.

La pioggia continuava a cadere, avvolgendoci in una cortina di acqua e oscurità. Ogni goccia che colpiva la mia pelle sembrava amplificare il desiderio che ardeva dentro di me. Richard era lì, forte e dominante, e io lo sentivo profondamente dentro di me, ogni movimento un’onda di piacere che si propagava in tutto il mio corpo.

Mi strinsi a lui, le mie braccia avvolte attorno al suo collo, mentre tiravo i suoi capelli con una forza che non sapevo di avere. La sua reazione fu immediata; un gemito basso e gutturale sfuggì dalle sue labbra, e i suoi occhi si illuminarono di una furia primitiva. «Ucciderò tutti quelli che vogliono farti del male,» sussurrò con voce roca, carica di una possessività che mi fece tremare.

Sorrisi, sentendo un brivido correre lungo la mia schiena. «Richard,» dissi, il suo nome un mantra tra i miei respiri affannosi. La sua presenza era travolgente, e in quel momento mi sentivo sia vulnerabile che incredibilmente potente.

Le sue mani si muovevano con sicurezza sul mio corpo, esplorando ogni curva e ogni linea. Ogni tocco era un promemoria della sua determinazione; mi possedeva completamente, ma allo stesso tempo mi dava la libertà di esprimere il mio desiderio. Le sue dita scorrevano lungo la mia schiena bagnata, mentre io mi abbandonavo al piacere che cresceva dentro di me.

«Sei mia,» mormorò, mentre si piegava per baciarmi nuovamente il collo. I suoi denti graffiarono leggermente la mia pelle, lasciando un segno indelebile del suo possesso. Lo sentivo tutto: il suo corpo contro il mio, il battito del suo cuore che risuonava come un tamburo nella tempesta.
La pioggia continuava a cadere, ma il mondo esterno svaniva; eravamo solo noi due, avvolti in un vortice di passione e oscurità. Ogni movimento che facevamo era una danza primordiale, carica di tensione e desiderio. Richard si muoveva dentro di me con una potenza che mi faceva perdere la ragione; ogni colpo era come un fulmine che illuminava la notte.

«Non fermarti,» implorai, le parole sfuggite dalle mie labbra come un sospiro. Volevo sentirlo sempre di più, immergermi completamente in quel momento senza fine. «Non lo farò mai,» rispose lui con una voce profonda e ferma. Le sue mani afferrarono i miei fianchi con forza mentre aumentava il ritmo, portandomi a un livello di piacere che non avevo mai conosciuto prima. La pioggia scorreva su di noi come una benedizione oscura, ogni goccia esaltando la nostra connessione.

Mi strinsi a lui ancora più forte, sentendo i muscoli tesi del suo corpo mentre si muoveva dentro di me. Era come se fossimo stati creati l'uno per l'altra; ogni movimento era perfetto e sincronizzato. Tirai nuovamente i suoi capelli, costringendolo a guardarmi negli occhi mentre il piacere cresceva sempre di più. «Richard…» dissi tra ansimi e gemiti. «Sto per venire» Lui sorrise in modo predatorio, gli occhi brillanti di una luce selvaggia.

Con un ultimo movimento potente, Richard mi portò al culmine del piacere. L’onda travolgente mi colpì come un uragano; urlai il suo nome mentre tutto intorno a noi esplodeva in una sinfonia di sensazioni. La pioggia continuava a cadere, ma in quel momento eravamo invincibili. Eravamo entrambi ansimanti e bagnati fino all’osso, ci guardammo negli occhi.

Quando si staccò, sembrava più calmo, ma i suoi occhi erano ancora pieni di turbolenza. Mi sorrise, ma non fu un sorriso di gioia. Era una smorfia, una sorta di arrendevolezza.

«Mi hai fatto impazzire, Fanny,» sussurrò.

Non dissi nulla. Il nostro legame era diventato così complesso che non sapevo nemmeno cosa rispondere. Mi appoggiai alla macchina, cercando di recuperare il respiro, il cuore che batteva forte nel petto. Lui mi guardava, sembrava volermi dire qualcosa, ma non riusciva a trovare le parole.

Alla fine, fece un passo indietro, come se si fosse reso conto che non aveva davvero bisogno di dirlo. La pioggia continuava a cadere, ma la tensione tra di noi era palpabile, come una sorta di tregua non ancora conclusa.

«Su,» disse, cercando di riprendere il controllo della situazione. «Sistemati e andiamo.» La sua voce era più calma, ma c’era un'ombra nel suo tono che mi diceva che la tempesta non era finita.

Mi rimisi i jeans fradici, cercando di nascondere l'umiliazione che ancora sentivo addosso. Non c'era nulla che potessi fare per cancellarla. Mi sistemai con un gesto meccanico e salii in macchina, senza una parola. Lui non mi guardò nemmeno. La sua guida era silenziosa, quasi pesante, e l'aria tra di noi era spessa, carica di tensione. Nessuno dei due osava parlare.

Arrivati al castello, fermò la macchina con un colpo deciso. Non aveva nemmeno spento il motore, e il silenzio tra noi era assordante. Sentivo solo il battito del mio cuore, e la pioggia che sembrava voler riempire ogni angolo di quella notte.

Mi fissò, ma non c'era nulla nei suoi occhi. Solo freddezza, come se avesse voluto chiudere tutto. «Adesso,» dissi con un tono basso, «lo dirai ai tuoi amici.» Non era una domanda, era un comando.

Lui si staccò dal volante, guardando avanti, verso il buio. «Non Ielo dirò a nessuno,» rispose seccamente, «Vattene adesso.»

La sua voce non lasciava spazio a discussioni. Mi guardò ancora una volta, e in quello sguardo c'era la fine di qualcosa. La fine di una parte di me che sperava che ci fosse ancora un noi. Ma era troppo tardi. Con un respiro pesante, uscii dalla macchina e mi avviai verso il castello, senza voltarmi indietro.

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