THE COURT
Francesca
Il trono di Hyperboria era diventato il mio fardello, un'eredità che nessuno voleva e che io avevo accettato solo perché non c'era nessun altro. Francesco, mio fratello maggiore, aveva rinunciato per via della sua invalidità. Gaetano, che tutti credevano mio fratello, non lo era: lui governava Atlantide con un pugno di ferro, ma non aveva alcun legame di sangue con mio padre. Paola era morta tragicamente anni fa, ed Emanuele... beh, aveva scelto di vivere la sua vita, lontano dalle responsabilità del regno. Vita era intrappolata nella sua depressione, Maria si occupava delle sue collezioni di moda a Parigi, e Giuseppe aveva trovato rifugio tra le braccia di nostra madre, lontano dalle pressioni di Hyperboria.
E poi c'era lei, la mia sorellina Francesca, il cui nome avevo ereditato. Era morta prima che io nascessi, un'ombra che si era sempre aggirata nella mia vita.
Ora ero io. L'unica rimasta. L'unica abbastanza folle o disperata da prendere in mano un regno che stava crollando sotto il peso delle sue stesse tradizioni e della malattia di mio padre.
Ero diventata la reggente solo grazie a Paolo. Lui, l’unico che mi ascoltava davvero. Avevo pregato, supplicato che mi concedesse questo ruolo. Non perché lo desiderassi, ma perché qualcuno doveva farlo. Qualcuno doveva impedire che il nostro impero collassasse definitivamente.
Adesso, stavo in piedi nella sala del trono. Era vuota, tranne per me. Le grandi colonne di marmo bianco si ergevano intorno a me come testimoni silenziosi, mentre il sole del mattino filtrava dalle finestre alte, disegnando ombre dorate sul pavimento. Mi avvicinai lentamente al trono, il cuore pesante. Era un simbolo di potere, sì, ma anche di sacrificio, e io ne conoscevo ogni sfaccettatura.
Appoggiai una mano sulla fredda superficie del bracciolo, osservando le incisioni intricate che rappresentavano la storia della nostra dinastia. Mi chiesi quanto tempo sarebbe passato prima che anch'io fossi solo un'altra figura dimenticata, un nome scolpito nella pietra.
Un servitore entrò, interrompendo i miei pensieri. «Sua Altezza, l'imperatore richiede la vostra presenza nei suoi alloggi.»
Annuii, nascondendo la frustrazione. Mio padre. Il grande imperatore che ora era poco più di un uomo spezzato. Girai i tacchi e uscii dalla sala, pronta ad affrontare un altro giorno di doveri, bugie e decisioni impossibili.
Non avevo sentito più Richard da quel giorno, neanche una lettera, niente di niente. Mi chiedevo se stesse bene o se fosse ancora convinto di essere innocente. Una parte di me non voleva credergli, ma un’altra si aggrappava alla speranza che fosse tutto un malinteso. Quando mi sarei sistemata, sarei andata da lui in carcere e avrei fatto in modo di diventare la sua nuova psicologa.
Sospirai profondamente mentre salivo le scale. Mi diressi dritta verso la camera di mio padre. Sentivo il peso di quel giorno sulle spalle: la responsabilità del trono, la solitudine, il senso di vuoto che Richard aveva lasciato dentro di me.
Entrai nella stanza. L'aria era pesante, come se quella camera fosse intrappolata nel passato. «Papà,» chiamai, ma non ricevetti risposta. Mi guardai intorno. La stanza era in penombra, la luce fioca di un abat-jour rivelava una libreria piena di vecchi volumi e un letto disfatto al centro della stanza.
«Papà, dove sei?» ripetei, un po’ più forte.
Ancora silenzio. Poi lo sentii mormorare, una voce appena udibile, come se parlasse tra sé.
«Paola…»
Mi fermai, stringendo le mani a pugno. Ancora Paola. Anche ora, nel suo stato, era lei al centro dei suoi pensieri. Sempre lei.
«Papà,» insistetti, cercando di mantenere la calma.
Finalmente rispose, ma la sua voce veniva da un posto strano, basso, quasi irreale.
«Sono qui… sotto il letto.»
Mi bloccai. Sotto il letto? Sentii un brivido percorrermi la schiena. Mi avvicinai con cautela, abbassandomi lentamente per guardare sotto. E lì lo vidi, rannicchiato come un bambino spaventato. I suoi occhi erano persi, lontani, e le sue mani tremavano mentre stringeva qualcosa: una vecchia fotografia di Paola.
«Papà, cosa stai facendo?» gli chiesi, cercando di mantenere la voce ferma.
Lui mi guardò, ma sembrava non vedermi davvero. «Lei era perfetta, Francesca… perfetta. E ora non c’è più.»
Deglutii, cercando di soffocare la frustrazione e il dolore. Non ero mai stata abbastanza per lui, e ora quel vuoto si faceva sentire più che mai.
«Papà, devi uscire da qui,» gli dissi.
Mi passò la foto di Paola, quella in cui era al mare, con il sole che le illuminava il volto. La guardai per un momento, un nodo mi serrò la gola, poi la misi sul comodino accanto al letto. Lui si alzò lentamente, tremante, e io gli tolsi con delicatezza la polvere che aveva sui vestiti.
«Vai a dormire, papà,» gli dissi con un tono calmo ma deciso. «Sono quasi le due di notte.»
Lui mi guardò con uno sguardo distante, poi accennò un lieve sorriso. «Sai,» disse con voce bassa, quasi sussurrata, «tu assomigli di più a Maria.»
Lo fissai per un momento, sorpresa. Maria, la figlia che lui aveva sempre disprezzato senza un motivo apparente, la figlia che si era sempre sentita rifiutata da nostro padre. Non capivo il perché di quel confronto, ma non volevo discuterne in quel momento. Gli sorrisi, nascondendo il disappunto che quelle parole mi avevano provocato.
«Paola sarà orgogliosa di te, papà, per quello che hai fatto.»
Le mie parole sembravano confortarlo. Mi sorrise, un sorriso stanco, quasi fragile. «Buonanotte, Fanny,» mormorò, mentre si sdraiava nel letto.
Mi chinai verso di lui e gli baciai la fronte. «Buonanotte, papà,» risposi, sistemando le coperte intorno a lui.
Mentre uscivo dalla stanza, abbassai le luci e chiusi la porta con delicatezza. Il corridoio era silenzioso, illuminato solo dalla fioca luce delle lampade a muro. Tornai nella mia stanza, ma invece di sdraiarmi sul letto, mi avvicinai alla finestra. Guardai fuori, il cielo nero punteggiato di stelle sembrava così distante, così irraggiungibile.
Pensai a Paola, a Richard, a tutto ciò che avevo perso e a tutto ciò che ancora non ero pronta ad affrontare. Ma una cosa era certa: il peso del trono, del futuro, era ormai tutto sulle mie spalle, e io non potevo permettermi di crollare.
Il mattino dopo, il suono del cucchiaio contro la tazza mi svegliò dai miei pensieri. Seduta al tavolo, facevo colazione insieme a mio padre e mio fratello Paolo. La stanza era silenziosa, a parte il rumore dei piatti e dei bicchieri che si scontravano tra loro. Non c’era nulla di speciale in quella colazione, solo la solita routine. Mio padre non parlava molto, come sempre, e Paolo si limitava a lanciarmi uno sguardo ogni tanto. Non c’erano parole da dire, o forse non c’erano più.
Dopo aver finito di mangiare, tornai nel mio studio. Mi sedetti alla scrivania e iniziai a riprendere i miei appunti sul disturbo della personalità. Era una materia che avevo cominciato a studiare con impegno, per capire meglio, per decifrare, per cercare di trovare qualcosa che mi permettesse di avvicinarmi a lui, di comprendere Richard. Ogni libro che leggevo, ogni appunto che scrivevo, ogni discussione con il professore mi faceva sentire più vicina alla verità, ma allo stesso tempo, mi allontanava dal mio scopo. Non gli avevo mai parlato apertamente di lui. Non avevo mai detto nulla, non a nessuno.
Mi strinsi nelle spalle mentre passavo le pagine del libro, cercando risposte. C’era qualcosa in Richard che mi inquietava, qualcosa che mi attirava, ma anche qualcosa che non riuscivo a capire completamente. Forse era l’oscurità che portava dentro di sé, forse era il suo mistero.
Guardai l’orologio e mi accorsi che erano ormai le quattro passate di pomeriggio. Il tempo era volato in un battito di ciglia. Chiusi il libro e tolsi gli occhiali, riponendoli sulla scrivania. Sentii il rumore di passi provenire dal corridoio e un istante dopo la porta si aprì leggermente. Cleopatra entrò nello studio.
«Francesca, volevo parlarti,» disse con un sorriso a metà tra il serio e il curioso. Mi fissò per un momento, quasi come se stesse aspettando una risposta prima di continuare.
Cleopatra chiuse la porta dietro di sé con un leggero scricchiolio, il suono che sembrava quasi irreale nella quiete dello studio. Si sedette sulla sedia di fronte a me, posando il barattolino sul tavolo con un gesto lento e preciso. Il piccolo contenitore, trasparente, sembrava contenere un liquido denso, il colore sfumato tra il verde e l’oro. Un sorriso enigmatico si dipinse sulle sue labbra mentre lo spingeva delicatamente verso di me.
«È una pozione,» disse, con un tono quasi sussurrato, come se la parola stessa avesse un potere magico. Il suo sorriso si allargò leggermente, ma non c'era niente di rassicurante in esso. La sua passione per la stregoneria era evidente in ogni suo gesto, in ogni parola che pronunciava.
Chiusi il libro con un movimento brusco e spostai gli appunti che avevo studiato tutta la giornata. Non avevo voglia di pensare a Richard in quel momento, a lui e al suo disturbo, ma piuttosto alla strana offerta che Cleopatra mi stava facendo. Le sue parole mi ronzavano nella testa mentre la fissavo. Le mani tremavano leggermente, ma cercai di mantenere un'espressione neutra.
«Quindi?» dissi, con una domanda che non nascondeva alcuna curiosità, solo un po' di sospetto. Non capivo davvero cosa volesse da me, e se fosse qualcosa che avrei dovuto prendere sul serio.
Cleopatra non sembrava aver notato la mia indifferenza apparente, o forse non le importava. Sospirò, come se fosse una cosa ovvia, e il suo sguardo si fece più penetrante.
«È una pozione per rimanere giovani, Francesca. Non vorresti rimanere giovane per sempre? Non pensi che ci siano cose... opportunità che potrebbero accadere se avessi più tempo? Tempo da vivere, tempo per cambiare le cose,» continuò, gli occhi brillanti di un'intensità che non avevo mai visto prima.
La domanda rimase sospesa nell'aria. In un certo senso, Cleopatra mi stava proponendo qualcosa che suonava troppo allettante per essere vero. Mi fissava con uno sguardo che non cercava approvazione, ma piuttosto una risposta.
Pensai per un momento. Non avevo mai creduto in queste cose, ma c’era qualcosa nel modo in cui Cleopatra parlava, nell’energia che emanava, che mi faceva sentire... vulnerabile. Mi sentivo come se fossi a un bivio, e forse quello che mi stava offrendo non era solo una pozione. Era una possibilità, un’opportunità per sfuggire alla mia realtà, al mio destino.
«Rimanere giovane per sempre...» ripetei, le parole quasi a se stesse. Poi la guardai, incerta, ma curiosa.
«Quali sarebbero le conseguenze? E cosa dovrei fare per ottenerla?»
Cleopatra sospirò, come se avesse appena dato una risposta definitiva a una domanda che non avevo nemmeno posto. Il suo sguardo si fece più enigmatico, come se sapesse esattamente cosa stavo pensando, cosa mi stava tormentando in quel momento.
«Nulla, Francesca,» disse con un sorriso che nascondeva più di quanto rivelasse. «Semplicemente… prendila e basta.» La sua voce era calma, sicura, ma c'era qualcosa di inquietante in essa, come se mi stesse dicendo che non avevo scelta. Mi fissava intensamente, e il sorriso sulle sue labbra si allargò appena, come se sapesse che il mio conflitto interno era evidente.
Sospirai a mia volta, prendendo il barattolino tra le mani. Non volevo berla. Non volevo fare quel passo, ma qualcosa dentro di me, una voce che sussurrava nell’ombra della mia mente, mi diceva che avrei dovuto. Mi fidavo di Cleopatra, e se le altre Francesche si erano fidate, perché non avrei dovuto farlo anch'io? Non volevo pensarci troppo, non volevo analizzare le cose troppo a fondo. Forse sarebbe stato meglio prendere quella benedetta pozione e godermi la vita, godermi il tempo, senza preoccupazioni.
Cleopatra, come se avesse letto i miei pensieri, mi sorrise in modo complice. La sua capacità di intuire cosa pensavo mi inquietava sempre più, ma non potevo negare che quella stessa capacità mi attirava.
«Puoi berla quando vuoi,» disse con tono quasi affettuoso, prima di alzarsi. Si avvicinò alla porta con un passo deciso, ma si fermò un attimo. «Richard non ti ha mandato nulla ancora?» mi chiese, quasi come se quella fosse una domanda di routine. Non c'era alcuna sorpresa nel suo tono, come se fosse perfettamente consapevole della situazione.
Posai la piccola pozione nel cassetto accanto a me, ma non la toccai. Non volevo berla, almeno non ancora. Mi sentivo troppo confusa, troppo incerta su cosa fare. La guardai un'ultima volta, mentre Cleopatra si allontanava dalla stanza, il suo sorriso enigmatico che rimaneva nella mia mente.
«No,» risposi, con una voce che non riusciva a mascherare completamente la mia frustrazione. Non avevo ricevuto nulla da Richard, e mi sentivo come se stessi aspettando qualcosa che non sarebbe mai arrivato. Ma, ancora una volta, mi trovai a pensare a lui. Cosa stava succedendo nella sua vita? Perché non mi aveva scritto, non mi aveva cercata?
Cleopatra si fermò sulla soglia, il suo volto imperturbabile. «Quando sarai pronta, Francesca, ricordati che il tempo è un lusso che non tutti possono permettersi,» disse, lasciandomi con quelle parole pesanti nell'aria.
La porta si chiuse dietro di lei, e mi trovai di nuovo da sola nella stanza. Il piccolo barattolo con la pozione restava lì, sul cassetto, come un invito silenzioso a cambiare il mio destino. Ma non ero pronta. Non ancora.
Presi un respiro profondo, osservando i documenti accatastati sulla scrivania. Sembrava che ogni foglio rappresentasse un pezzo di una scacchiera su cui non avevo controllo. Ero ancora giovane, mi ripetevo. Avevo ancora tempo per decidere il mio destino, per plasmare il futuro che volevo, non quello che altri avevano già scritto per me.
Accarezzai la superficie della cassetta di legno con l'iscrizione Imperatore incisa in latino, la nostra lingua madre. Era un oggetto solenne, pesante non solo per la sua fattura, ma per ciò che rappresentava. Un'eredità, un peso, un destino. Inspirai profondamente e la aprii, lasciando che il profumo della carta antica mi avvolgesse.
Documenti del passato
Dentro, trovai decine di fogli legati con nastri, sigilli di ceralacca intatti, e lettere che sembravano non essere mai state aperte. Erano documenti riservati ai figli dell'imperatore. Il loro contenuto era chiaro: il futuro di ciascuno di noi, delineato da accordi, promesse e strategie politiche. Sapevo che da qualche parte, tra quei fogli, avrei trovato il mio destino.
Iniziai a sfogliarli con cautela, il cuore che batteva forte. Contratti matrimoniali, alleanze strategiche, documenti che garantivano la solidità del regno. Le mani mi tremarono leggermente quando trovai un documento con il mio nome: Francesca Hilda Astoria.
Lo presi tra le mani, studiandolo attentamente. Era un contratto di matrimonio. Guardai la firma di mio padre accanto a quella di un nome che conoscevo solo per sentito dire: Arciduca Saverio di Iperboria. —Era figlio del nipote di Paolo, il fratello di mio padre.—
Un legame imposto
Le parole danzavano sulla carta, pesanti come pietre:
Con questo documento, si stabilisce l'unione tra Francesca Hilda Astoria e Saverio di Hyperboria, al fine di consolidare l'alleanza tra le due casate. La data delle nozze sarà stabilita alla maggiore età delsuddetto Saverio.
Il respiro mi si spezzò per un istante. Non c’era amore in quelle righe, nessuna traccia di considerazione per i miei desideri o per la mia libertà. Solo un destino deciso da altri, un accordo politico travestito da unione matrimoniale.
Rabbia e determinazione
Mi alzai di scatto, stringendo il documento tra le mani. La stanza sembrava improvvisamente troppo piccola, soffocante. Come poteva mio padre decidere una cosa del genere senza nemmeno consultarmi? Come poteva ridurre la mia vita a una pedina su una scacchiera?
Chiusi il documento con rabbia e lo posai sulla scrivania. Mi avvicinai alla finestra, guardando il panorama che si estendeva oltre i confini del palazzo. Avevo ancora tempo, mi ripetevo. Tempo per cambiare le cose, per prendere in mano il mio destino. Non sarei stata una marionetta, non avrei permesso a nessuno di decidere per me.
Una decisione difficile
Tornai alla scrivania e riposi il documento nella cassetta, chiudendola con un tonfo deciso. Avevo bisogno di tempo per riflettere, per pianificare. Ma una cosa era certa: non avrei lasciato che quel contratto definisse la mia vita.
Presi i miei appunti e li sistemai uno sopra l'altro, pronta a tornare al mio studio. Avevo ancora molto da fare, e ora avevo una motivazione in più per farlo. Non ero solo Francesca Hilda Astoria, figlia dell'imperatore. Ero anche una donna pronta a lottare per la propria libertà.
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