MY PSYCHOLOGIST

Richard

Era passata un'altra settimana qui in prigione, e ogni giorno sembrava un pugno nello stomaco. Questa merda di posto peggiorava sempre di più. Il tempo sembrava non passare mai, e le ore si allungavano come una tortura infinita. Ieri mi avevano sbattuto di nuovo in cella d'isolamento per aver picchiato un uomo. A dire il vero, non ricordo neanche come fosse iniziata quella scena di merda. Cazzo, la mia testa era un caos.

Mi sedetti sul letto, le mani che stringevano il materasso sottile. La rabbia mi montava dentro come un vulcano pronto a esplodere. Non era stata colpa mia. Non questa volta. Forse. O forse sì, ma cosa importava? Qui dentro, ogni giorno era una lotta per sopravvivere.

Non riuscivo a smettere di pensare a lei. Francesca. La sua immagine mi tormentava come un fantasma. Era l'unica cosa che riusciva a distrarmi da questa realtà di merda, ma allo stesso tempo mi faceva impazzire. Non mi aveva scritto, non mi aveva cercato. Forse aveva dimenticato che esistevo. Forse non le ero mai importato.

Alzai lo sguardo verso il soffitto della cella, le mani che si stringevano in pugni. Non volevo credere che fosse così. Lei era diversa. Lo avevo visto nei suoi occhi quella notte. Ma forse mi sbagliavo. Forse ero solo un coglione ossessionato da qualcosa che non avrei mai potuto avere.

Il rumore delle chiavi nella porta della cella mi fece scattare in piedi. Era raro che qualcuno venisse a trovarmi, a meno che non fosse per qualche cazzo di punizione. La porta si aprì e un secondino entrò.
«Richard Black, hai una visita,» disse il secondino con tono piatto.

Mi alzai dal letto, il materasso rigido che emise un leggero scricchiolio sotto il mio peso. «E di nuovo mio padre,» dissi secco, incrociando le braccia. «Non voglio vederlo.»

Lo sbirro, un uomo corpulento con la barba appena accennata, sorrise in modo ambiguo. «No, no, non è un tuo parente, Black,» rispose con tono rassicurante, ma il suo sorriso mi mise a disagio.

Non insistetti, ma qualcosa non mi tornava. Avevo imparato a leggere le persone, e quel sorriso nascondeva qualcosa. Uscì dalla cella e si fermò ad aspettarmi mentre chiudeva il pesante cancello di ferro dietro di noi. Gli uomini di mio padre non si erano fatti vivi da settimane, forse mesi. Ma il ricordo delle loro visite mi perseguitava ancora. Mi chiesi se fossero loro. Se fossero tornati.

Mi strinsi le mani in pugni e lo seguii in silenzio. Scesimo la lunga torre che portava alle celle di isolamento, i passi del secondino che risuonavano metallici sulle scale strette. Il freddo del metallo si insinuava attraverso le scarpe, e il vento che entrava dalle finestre alte portava con sé l’odore salmastro del mare.

Quando raggiungemmo il corridoio del quinto piano, non potei fare a meno di pensare che questa prigione fosse peggio di Alcatraz. Era costruita per distruggere le persone, non per rieducarle. Le pareti di cemento grezzo trasudavano umidità, e il silenzio era rotto solo dai lamenti lontani di qualche detenuto che aveva perso la ragione.

«Dove stiamo andando?» chiesi, cercando di tenere un tono indifferente.

«lo scoprirai presto,» rispose il sbirro senza voltarsi. La sua voce era piatta, priva di emozioni, e mi fece stringere i denti. Non mi piaceva essere tenuto all’oscuro, non qui, non in un posto dove ogni angolo poteva nascondere un nemico.

Alla fine del corridoio, ci fermammo davanti a una porta pesante, rinforzata con acciaio. Lo sbirro infilò una chiave in una serratura massiccia e la girò con un clic secco. Mi indicò di entrare con un gesto del mento.

Mi mossi lentamente, i muscoli tesi come corde pronte a spezzarsi. Entrai nella sala degli incontri, un’area piccola e sterile con un tavolo di metallo al centro e due sedie. La luce al neon sopra di noi tremolava leggermente, aggiungendo un’atmosfera inquietante al già opprimente silenzio.

Non c'era nessuno nella stanza. Mi girai di scatto, scrutando ogni angolo. «Ma che cazzo…» mormorai tra i denti. Lo sbirro, ancora vicino alla porta, sorrise in modo ambiguo mentre la chiudeva alle sue spalle, lasciandomi lì da solo.

Poi, dall'altra porta di fronte a me, entrò una donna.

Il contrasto con l’ambiente sterile e oppressivo della stanza era netto. Lei era un’esplosione di colore e sensualità. Capelli biondi che cadevano perfettamente sulle spalle, occhi azzurri che brillavano sotto le luci al neon, un vestitino rosso corto che aderiva al suo corpo, collant a rete rosse che risaltavano ogni curva. Il rossetto, rosso acceso, completava l’immagine, accentuando quel sorriso misterioso che aveva stampato in faccia.

Non disse nulla. Mi fissava come se sapesse qualcosa che io non sapevo.

«Chi sei?» chiesi, cercando di mantenere un tono autoritario, ma con un accenno di confusione.

Lei non rispose. Avanzò lentamente verso di me, i tacchi che facevano eco nel silenzio della stanza. Ogni passo sembrava studiato, una danza perfetta. Mi fermai, il mio corpo rigido, ma non distolsi lo sguardo.

Quando arrivò davanti a me, si avvicinò senza esitazione. Il suo profumo era dolce e avvolgente, un mix di vaniglia e spezie. Mi posò un bacio sul collo, il contatto della sua bocca caldo sulla mia pelle fredda.

«Sono un regalo di tuo padre,» disse infine, con una voce morbida e seducente.

Quelle parole mi gelarono.

Un regalo? Cosa significava?

Gli palpai il culo «Gli uomini di tuo padre ti hanno visto masturbarti.» Le labbra si unirono in un bacio ardente, un momento di pura trasgressione. «Tuo padre pensava che avessi bisogno di scopare,» aggiunse, con il tono provocatorio.

La presi in braccio, sentendo la sua pelle calda contro la mia, e la posai sul tavolo. Con un gesto deciso, strappai i suoi collant a rete. Mi venne il cazzo duro.

***

Dopo essere stato con quella troia, lo sbirro mi riportò in cella. La donna era abbastanza soddisfacente, almeno per una volta mio padre aveva fatto qualcosa di buono. Mi sedetti sul letto, il freddo del metallo che mi perforava la pelle. La stanza, buia e umida, sembrava stringersi intorno a me. Ogni angolo trasudava rassegnazione.

Vidi delle lettere sul piccolo tavolino di legno scuro. Le presi, incuriosito. Una di esse aveva il mio nome scritto con una calligrafia formale, l’altra sembrava più urgente. Le aprii entrambe, e il mio sguardo si fermò sul primo foglio.

"Signor Blake, per mio dispiacere, non posso essere il vostro psicologo a causa delle restrizioni imposte da vostro padre. Non siete malato, non c’è bisogno di pillole. Vi consiglio di rivolgervi al psicologo del carcere, così vostro padre non verrà a saperlo."

Un colpo di rabbia mi salì in gola. Strappai la lettera con violenza, il rumore del foglio che si lacerava mi riempì le orecchie, come se avessi distrutto un altro pezzo di vita che non mi apparteneva. «Cazzo!» sbottai, e senza pensarci diedi un calcio al muro. Il suono metallico del mio piede contro la cella risuonò, un grido muto nel silenzio.

Da fuori, le sirene della polizia iniziarono a ululare. Probabilmente un altro incidente, un altro sangue versato. Ma non mi interessava. Mi passai una mano sul viso, come a cercare di rimuovere qualcosa che non poteva essere tolto. Ogni giorno era uguale. Ogni giorno sembrava che il buio mi inghiottisse un po’ di più.

Le porte della torre cigolarono, aprendosi con una lentezza esasperante, e un'altra anima venne trascinata dentro. Dalla mia posizione, sentii i passi pesanti e la voce monotona dello sbirro: «Avanti, sbrigati.»

«Sto andando, sto andando,» rispose l'uomo con un tono graffiante, impregnato di stanchezza e di un'arroganza ormai sbiadita dal tempo.

Riconobbi immediatamente quella voce, e un brivido mi percorse la schiena. Mi alzai dal letto di scatto, avvicinandomi alle sbarre mentre la porta della cella accanto si apriva con un clangore. Lo sbirro chiuse la grata dietro di lui e si allontanò senza una parola.

«Jeffrey, sei tu?» dissi, cercando di trattenere l’emozione che mi affiorava alla gola.

Dall’altra cella, un suono basso, quasi un sussurro incredulo, mi raggiunse. «Richard… sei qui?»

Il suo tono era carico di una sorpresa mista a sollievo, un’eco di un passato che entrambi sembravamo aver seppellito. Rimasi lì, con la mano a stringere le sbarre fredde, fissando il vuoto tra le nostre celle, come se in quell'oscurità potessi vedere il suo volto.

Sospirai, appoggiando la testa contro le fredde sbarre di ferro. «Mi sei mancato, amico,» mormorai, la voce carica di un'emozione che cercavo di soffocare.

Dall’altra parte, lo sentii ridere, un suono rauco e privo di gioia. «Non credevo che avresti davvero ucciso il preside,» disse, con un tono che oscillava tra l'ironia e la provocazione.

Non risposi. Come potevo dirgli che il suo migliore amico aveva perso completamente la testa? Che non era stata solo rabbia o vendetta, ma un buio inarrestabile che mi aveva inghiottito? Non volevo aggiungere un altro peso alla nostra già traballante amicizia. Mi limitai a sospirare, lasciando che il silenzio riempisse lo spazio tra di noi.

«Perché?» chiesi infine, la voce che si spezzava. «Perché sei qui, Jeffrey?»

Lui rise di nuovo, ma questa volta il suono era più freddo, più oscuro. «Oggi è la vigilia della stagione del sangue,» disse con un sorriso che potevo quasi percepire attraverso le pareti.

Io, Richard, e Sasha eravamo una banda di teste calde in questa cazzo di stagione. Rubare nelle case dei ricchi, il brivido di aggirarmi tra stanze che puzzavano di potere e di soldi sporchi, vendere gli oggetti che trovavamo per una manciata di contanti e una notte di libertà. Avevo persino derubato casa mia, una volta, come un gesto di sfida verso mio padre. Mi sembrava quasi ironico.

A volte, Jeffrey mi guardava con quel suo sguardo strano e diceva che uscivo da solo per fare non so cosa. Lui diceva che ero il così detto The Night Killer, l’assassino che aveva terrorizzato la città per settimane. Ma no, non potevo essere io. Non ero così malato. O almeno mi convincevo di non esserlo.

Sorrisi al ricordo dell'anno scorso, del caos che portavamo ovunque andassimo. Sembrava un'altra vita, una più semplice, dove la follia era una scelta e non una gabbia. «E Sasha?» chiesi, rompendo il silenzio che si era creato.

Jeffrey rise, quel suo riso sporco e tagliente. «La solita puttana,» rispose senza pensarci due volte.

Un sorriso mi sfuggì. Era la nostra, dopotutto. Nonostante tutto, Sasha era sempre stata il collante del gruppo. Una puttana, forse, ma la nostra.

Lui sorrise, e senza nemmeno accorgermene, sorrisi anch’io. Era strano come, in mezzo a quel buio soffocante, bastasse un ricordo condiviso per accendere una scintilla di complicità.

«Francesca è diventata reggente,» dissi, spezzando il momento.

Jeffrey scoppiò a ridere, una risata amara, piena di disprezzo. «Sì, il nostro caro imperatore è un cazzo di malato mentale,» ribatté con sarcasmo tagliente. «Non che sia una sorpresa, considerando chi lo circonda.»

Rimasi in silenzio per un attimo, lasciando che le sue parole rimbalzassero tra le pareti della mia mente. Francesca… non riuscivo a immaginare come fosse arrivata lì. Era come vedere una tigre in gabbia, costretta a recitare una parte in un gioco che non aveva scelto.

Jeffrey interruppe i miei pensieri. «Al telegiornale si sente parlare molto di te, sai?» disse con un ghigno.

Mi voltai verso la sua cella, incuriosito ma anche stanco. «Ah sì? E che dicono?»

«Che sei il diavolo in persona,» rispose con un tono divertito, come se trovasse la cosa assolutamente ridicola. «Un killer senza pietà, un maniaco imprevedibile. Stanno cercando di capire cosa ti abbia fatto impazzire.»

Scrollai le spalle, fingendo indifferenza. «Che pensino quello che vogliono,» mormorai, anche se dentro di me sentivo il peso di quelle parole. Forse non ero il diavolo, ma non potevo negare che qualcosa in me si fosse spezzato. E ora, quel pezzo mancante mi stava trasformando in qualcosa di cui non conoscevo ancora il limite.

«Ricordi quella mattina?» chiesi, la voce bassa, quasi un sussurro.

Jeffrey rimase in silenzio per un momento. Sentivo il suo respiro dall’altra parte, lento ma pesante. Finalmente parlò, la sua voce rauca: «Sì, me la ricordo.»

Mi passai una mano sul viso, cercando di mettere insieme i frammenti di un ricordo che sembrava appartenere a qualcun altro. «La mattina in cui ho ucciso il preside… chi mi ha truccato?»

Ci fu una pausa, seguita da una risata secca, quasi incredula. «Ma ti sei rincoglionito, Richard? Ti ha truccato Sasha. Chi altro, se no?»

Quelle parole mi colpirono come un pugno nello stomaco. Mi lasciai cadere sul letto, il metallo freddo che mi risucchiava nella realtà. Non ricordavo nulla, assolutamente nulla. Non ricordavo Sasha, non ricordavo il trucco, non ricordavo di aver pianificato quel giorno. Era come se la mia mente avesse cancellato ogni dettaglio, lasciando solo il sangue e il vuoto.

«Non ricordavo,» mormorai tra me e me, più per me stesso che per Jeffrey. La mia mente era un labirinto, e ogni volta che cercavo di trovare un’uscita, finivo per perdermi ancora di più. «Nulla… nulla.»

Jeffrey sospirò dall’altra parte. «Non mi sorprende, Richard. Quella mattina eri fuori di testa. Ma Sasha sapeva cosa fare. Era sempre lei a tenere insieme i pezzi.»

Quelle parole mi fecero male. Sasha… la solita puttana, la nostra puttana. Eppure, ora mi rendevo conto che forse era stata molto più di questo. Forse lei era stata l’unica cosa che mi aveva impedito di sprofondare del tutto. Ma ora, senza di lei, mi sentivo perso in un abisso senza fondo.

«Ha una cotta per te,» dissi, buttando lì le parole come fossero un’accusa.

Jeffrey sospirò, un sorriso malizioso che potevo quasi percepire dall'altra parte della cella. «Sono bisex, Richard,» ammise con una tranquillità disarmante. «Preferisco gli uomini, ma scopo con lei ogni tanto.»

Lo fissai, incredulo, anche se non potevo vederlo direttamente. «Ma che cazzo dici, Jeffrey?»

Rise, una risata bassa e piena di scherno. «Dai, pensavo che lo sapessi,» ribatté con quel suo tono di superiorità che mi faceva venire voglia di prenderlo a pugni.

Scossi la testa, incapace di trovare una risposta sensata. Jeffrey era sempre stato un enigma, ma questa… questa non me l’aspettavo. «E Sasha lo sa?» chiesi, la voce carica di una strana curiosità che non riuscivo a reprimere.

«Lo sa, eccome,» rispose lui, senza un briciolo di vergogna. «Le piace, in un certo senso. Dice che la rende speciale.»

Non sapevo se ridere o arrabbiarmi. «Sei un fottuto bastardo, lo sai?»

«Lo so,» disse Jeffrey, con un sorriso che si poteva sentire nella sua voce. «E tu, Richard? Qual è il tuo segreto?»

La domanda rimase sospesa nell’aria, e per un attimo, tutto il resto sembrò svanire. Ma non risposi. Non potevo. C’era troppo da dire, troppo da nascondere. E soprattutto, non volevo che Jeffrey vedesse quanto fossi rotto, più di quanto non immaginasse già.

***

Ero seduto nella stanza dello studio del mio nuovo psicologo, il silenzio era spezzato solo dal ticchettio dell’orologio appeso alla parete. Ogni secondo sembrava trascinarsi all'infinito, e il nervosismo mi stava consumando. Quel pezzo di merda di mio padre mi aveva strappato l’unico psicologo che mi fosse mai servito a qualcosa, e ora dovevo iniziare tutto da capo. Mi morsi il labbro inferiore, fissando il vuoto davanti a me mentre le mani si stringevano ai braccioli della sedia.

Dietro di me, la porta si aprì con un lieve cigolio.

«Scusami, Richard,» disse una voce familiare, dolce ma autoritaria.

Mi voltai di scatto, il cuore che mi balzava in gola. Francesca.

Mi alzai di scatto dalla sedia, confuso. «Cosa ci fai qui?» chiesi, lo sguardo che vagava da lei alla porta.

Lei mi sorrise, un sorriso enigmatico che sembrava nascondere molto più di quanto volesse mostrare. Indossava scarpe a spillo e un completo elegante: giacca e pantaloni a zampa. Era diversa, più austera, più sicura di sé.

«Che diavolo ci fai qui, Francesca?» ripetei, il tono più duro.

Lei si avvicinò lentamente, con una calma quasi inquietante. «Sono la tua nuova psicologa,» disse, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Il mio respiro si bloccò. La fissai, incredulo, cercando di capire se stesse scherzando o se fosse diventata completamente pazza. «Non può essere vero,» mormorai.

«È vero, Richard,» rispose lei, il suo sorriso che si allargava mentre si avvicinava ancora di più. «E questa sarà la prima delle nostre tante sedute.»

La guardai, combattuto tra il desiderio di aprirmi e la paura di essere giudicato. Feci un passo avanti e la abbracciai, stringendola come se potesse darmi la forza che non riuscivo a trovare da solo. «Non so cosa sia successo, Francesca,» sussurrai, la voce rotta. «Non ricordo nulla.»

Lei si irrigidì per un istante, poi si allontanò lentamente, come se la mia presenza fosse diventata improvvisamente pericolosa. I suoi occhi mi scrutavano, pieni di qualcosa che sembrava oscillare tra apprensione e compassione.

«Non ho paura di te, Richard,» disse con voce calma, ma ferma. «Devi raccontarmi tutto. Tutto quello che ti è successo. Posso aiutarti.»

La fissai senza dire una parola, il peso dei miei segreti che mi schiacciava. Non potevo raccontarle la verità. Non potevo dirle che avevo stuprato una donna durante la Festa del Diavolo, che rubavo per il gusto di farlo, o che il sangue delle mie vittime era sulle mie mani. Mi leccai le labbra, cercando di trovare un appiglio, ma il vuoto dentro di me era troppo grande.

Francesca fece un passo avanti, piegandosi leggermente verso di me. «Sono qui per una prova,» continuò, il suo tono più morbido. «Mio padre mi ha fatto rimettere al college, ma voleva che passassi da qui per… diciamo, una valutazione sul campo.»

Le sue parole suonavano così lontane, come un’eco in una stanza vuota. Ero troppo concentrato sul mio respiro irregolare, sul modo in cui il mio cuore martellava nel petto. «Francesca… io…» iniziai, ma le parole morirono sulle mie labbra.

Lei scosse la testa, interrompendomi. «Non c'è bisogno di affrettarsi,» disse, appoggiandosi al bordo della scrivania con un’aria quasi rilassata. «Ma dobbiamo iniziare da qualche parte, Richard. Prima o poi, dovrai affrontare quello che hai dentro.»

Le sue parole mi colpirono come un pugno allo stomaco. Sapevo che aveva ragione. Ma come potevo iniziare a raccontarle la mia verità senza distruggere tutto?

Lei si leccò le labbra, un gesto che mi fece impazzire. Con calma posò i fogli che aveva in mano sulla scrivania, e per un attimo, il tempo sembrò fermarsi. La guardavo, incapace di pensare ad altro.

Volevo baciarla. Volevo ballare quel maledetto ballo che non avevamo mai ballato. Volevo lei, solo lei, con un’intensità che mi bruciava dentro.

Lei prese le mie mani, le sue dita leggere ma ferme. «Puoi fidarti di me,» disse, la sua voce un sussurro che mi fece venire i brividi.

Mi avvicinai, incapace di resistere a quel richiamo. Le nostre labbra si incontrarono, e in quel bacio c’era tutto: desiderio, disperazione, bisogno. Era così pura, così incredibilmente pura, la cosa più pura che avessi mai conosciuto in una vita fatta di caos e oscurità.

Ma lei si staccò, i suoi occhi che cercavano i miei con un misto di confusione e determinazione. «Richard,» mormorò, la sua voce tremante. «Sono venuta qui per parlare con te, per confidarmi con te… non posso…»

Non la lasciai finire. Le mie labbra scivolarono sul suo collo, baciandolo con un’urgenza che non riuscivo a contenere. Lei rabbrividì, il suo respiro spezzato, ma non si allontanò. Anzi, sembrava lottare contro se stessa, contro qualcosa che non voleva ammettere.

«Non posso,» ripeté debolmente, ma il suo corpo raccontava un’altra storia. Il modo in cui inclinava il collo per concedermi più spazio, il modo in cui le sue dita si aggrappavano alla mia camicia.

«Francesca,» sussurrai contro la sua pelle, il mio respiro caldo sul suo collo. «Non mentire a te stessa.»

Lei chiuse gli occhi, come se cercasse di trovare una risposta, ma io sapevo che in quel momento nessuna parola sarebbe bastata.

Mi prese la nuca con una forza che non mi aspettavo, attirandomi a sé per baciarmi di nuovo. Le nostre labbra si scontrarono con una passione selvaggia, incontrollabile. Mi staccai appena, il mio respiro pesante contro il suo viso, e sussurrai: «Sei bagnata anche per me, vero?»

Francesca si allontanò di scatto, i suoi occhi grandi che cercavano di nascondere il tumulto dentro di lei. «Richard, ti prego,» disse con voce tremante, quasi un sussurro. «Non posso… basta…»

Ma le sue parole persero forza quando le sue labbra trovarono di nuovo le mie, come se la volontà di fermarsi fosse stata completamente sopraffatta dal desiderio.

Le alzai delicatamente il mento, costringendola a guardarmi negli occhi. Il suo respiro era irregolare, il suo viso un misto di conflitto e voglia. «Ti dirò un po’ di me,» le dissi, la mia voce bassa e graffiata, «se tu mi dai un po’ di te.»

Lei mi fissò, incerta, ma non si mosse. Non disse una parola, ma il modo in cui il suo corpo si avvicinava al mio era una risposta più che sufficiente.

Francesca mi guardò con un misto di confusione e desiderio. «Che cosa vuoi dire?» mormorò, la sua voce quasi un sussurro.

Le sorrisi, un sorriso che sapevo essere più oscuro di quanto avrei voluto ammettere. «Sai quello che voglio dire,» risposi, la mia voce bassa e graffiata.

Prima che potesse dire altro, la presi in braccio e la appoggiai delicatamente sulla scrivania, i fogli che aveva posato volarono a terra in un disordine perfetto. «Richard, ci sono i poliziotti,» disse, quasi in un gemito di protesta, ma il suo corpo si rilassava sotto le mie mani.

Le sfiorai le labbra con le mie. «Evitali, Francesca. Evitali,» sussurrai, usando il suo nome come una promessa.

Le allargai delicatamente le gambe e mi posizionai sopra di lei, il nostro respiro che si intrecciava. «Dimmi di te,» le dissi, il mio tono morbido ma carico di intenzione. «Anche solo un po’, se ti va.»

Francesca alzò gli occhi al cielo, ma era un gesto che tradiva più resa che impazienza. «E va bene,» sospirò. «Ti darò un po’ di me.»

Sorrisi, il mio pollice che tracciava un lento cerchio sulla sua schiena. «Cosa vuoi sapere?» le chiesi, il mio sguardo che la fissava intensamente, cercando di decifrare ogni sua emozione.

Lei si morse il labbro, il suo sguardo che vacillava tra esitazione e desiderio.

Francesca mi baciò sulla guancia, un gesto che sembrava più intimo di quanto avrei voluto ammettere. «Non lo dirò a nessuno,» sussurrò, la sua voce calma, come se stesse cercando di convincermi che fosse davvero dalla mia parte. «Posso capirti.»

Mi morsi il labbro, combattuto tra la tentazione di crederle e il timore di abbassare la guardia. Mi sedetti lentamente, lasciandola ancora lì, con le gambe leggermente aperte sulla scrivania. Le accarezzai le gambe, un gesto quasi distratto, ma che mi aiutava a concentrarmi.

«Cosa vuoi sapere?» chiesi, guardandola negli occhi, cercando di ignorare il groviglio di emozioni che mi stringeva lo stomaco.

Lei esitò per un momento, poi disse: «Dimmi della tua infanzia.»

Il mio corpo si irrigidì, e l'aria sembrò diventare più pesante. Scossi la testa, il mio sguardo che si spostava altrove. «No,» risposi, la mia voce ferma. «Il nome di mio padre non sarà sporcato.»

Francesca mi guardò, sorpresa dalla mia reazione, ma non insistette. Sembrava capire che c'erano cose che non potevano essere dette così facilmente, non senza conseguenze. «Va bene,» disse infine, il suo tono più dolce. «Non te lo chiederò più.»

Le sue parole avrebbero dovuto rassicurarmi, ma invece mi lasciarono con una sensazione di vuoto, come se il peso di quello che non avevo detto fosse diventato ancora più grande.

Francesca mi accarezzò le spalle con una delicatezza che sembrava voler penetrare la mia corazza. «Te lo chiederò una volta soltanto,» disse, la sua voce bassa e supplicante. «Ma ti prego, Richard…»

Mi alzai di scatto, il calore del momento che si trasformò in un’esplosione di rabbia. «No! No, non posso!» urlai, il mio respiro pesante e irregolare. «Capisci? Se io parlo con te, tu lo dirai a qualcun altro, e il mio sangue sarà sporcato! Non posso, Francesca!»

Lei mi guardò, il dolore nei suoi occhi evidente, ma non arretrò. «Richard…» mormorò, cercando di calmarmi.

Scossi la testa furiosamente, incapace di ascoltarla. «No!» gridai ancora, la mia voce che rimbombava nella stanza. Mi voltai e bussai alla porta, un gesto disperato per farmi lasciare andare, per scappare da quel luogo e da lei.

Prima che potessi andarmene, però, Francesca scese dalla scrivania con un movimento rapido, raggiungendomi prima che potessi aprire la porta. Mi prese per il braccio, il suo tocco tanto delicato quanto disperato. «Aspetta,» disse, la sua voce spezzata.

Mi voltai, il cuore che martellava nel petto, e i nostri sguardi si incontrarono. «Se tu mi dirai qualcosa, io sarò tua,» sussurrò, le sue parole cariche di una promessa che sembrava troppo grande, troppo rischiosa.

La guardai per un momento, combattuto tra desiderio e paura. Poi, con un gesto improvviso, la spinsi via, la mia mano che si staccava bruscamente dalla sua presa. «Non farmi questo, Francesca,» dissi, la mia voce quasi un ringhio, prima di uscire dalla stanza senza voltarmi indietro.

La porta si chiuse dietro di me con un tonfo, lasciandoci entrambi avvolti nei nostri silenzi, ciascuno prigioniero del proprio inferno.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top