AND ONLY MY LOVE

Francesca

Passò una settimana da quella assurda fuga. La madre di Fanny ci aveva rigorosamente protetti, permettendoci di rifugiarci in Atlantide, lontano da occhi indiscreti e dalle ombre del passato. La città era un sogno irreale, un luogo che sembrava esistere fuori dal tempo, con i suoi palazzi di marmo e le strade immerse in una luce dorata perenne.

Mi girai su un fianco, osservandola mentre dormiva accanto a me. La sua schiena nuda era un capolavoro di perfezione, la pelle liscia e calda sotto le mie labbra mentre le lasciavo un bacio leggero. Profumava di lavanda e di qualcosa di più dolce, qualcosa che era solo suo, solo di Fanny. I suoi capelli erano sparsi sul cuscino, un intreccio caotico che mi faceva sorridere.

Passai le dita lungo la sua spina dorsale, lentamente, quasi temendo di svegliarla. Avevo passato così tanto tempo a cercarla, a desiderarla, e ora era qui, nel nostro rifugio, lontano da tutto. Eppure, non riuscivo a scacciare l'inquietudine che mi si annidava dentro. Atlantide era sicura, ma per quanto tempo? Quanto sarebbe passato prima che qualcuno ci trovasse, prima che il mondo reale irrompesse di nuovo nella nostra illusione?

Lei si mosse leggermente, un piccolo gemito sfuggì dalle sue labbra mentre si voltava verso di me. La guardai, catturato dalla bellezza fragile e feroce che conviveva in lei. Fanny non era solo mia, era un fuoco che nessuno poteva spegnere, nemmeno io.

Le sfiorai il viso con la punta delle dita, sussurrando piano: «Sei mia, solo mia.»

I suoi occhi si aprirono lentamente, ancora velati dal sonno, e mi guardarono con quella dolcezza crudele che mi faceva impazzire. «Lo sono sempre stata,» mormorò con un sorriso leggero.

Mi chinai su di lei, baciandola piano, assaporando ogni secondo come se fosse l'ultimo. Il suo corpo si plasmò perfettamente contro il mio, come se fosse sempre stato destinato a stare lì.

Scivolai lentamente lungo il suo collo, assaporando ogni centimetro della sua pelle calda sotto le mie labbra. Il suo respiro divenne più pesante mentre mi muovevo più giù, fino a raggiungere il suo seno. Era perfetta. Perfetta solo per me.

Le accarezzai lentamente il capezzolo con la punta delle dita, osservando come il suo corpo rispondesse a ogni mio tocco. Lei sospirò piano, mordendosi il labbro, e io sorrisi soddisfatto. «Ti amo,» sussurrai contro la sua pelle, il mio respiro caldo su di lei.

Fanny mi guardò con quegli occhi che mi facevano impazzire, pieni di luce e desiderio. «Anch'io,» mormorò, prendendomi il viso tra le mani e baciandomi con una dolcezza che mi spezzava dentro.

Mi lasciavo consumare da lei, dal modo in cui le sue dita tracciavano linee invisibili sulla mia pelle, dal modo in cui il suo corpo si stringeva al mio come se avesse paura di lasciarmi andare.

«Richard...» sussurrò, il mio nome sulle sue labbra era una promessa, una supplica.

Le baciai la fronte, il naso, ogni angolo del viso, come se volessi imprimerla nella mia memoria per sempre. «Sono qui,» le dissi, le accarezzai i capelli con delicatezza, lasciandoli scivolare tra le dita come seta.

Fanny mi strinse più forte. «Non lasciarmi mai,» disse con un filo di voce.

Le baciai il dorso della mano. «Mai,» promisi. Sapevo che l'avrei mantenuta.

Era da una settimana che stavamo insieme, e da una settimana che facevamo sesso in modo incontrollabile, senza freni, senza limiti. Ieri l’avevamo fatto due volte, e ogni volta mi sembrava di impazzire per lei. Ma c’era qualcosa che mi rodeva dentro, un pensiero che non riuscivo più a ignorare.

Non usavo nessun preservativo. Non ci avevo mai pensato davvero, preso dalla voglia, dall’ossessione che avevo per lei. Ma ora... Ora era diverso. Non volevo un figlio, non adesso almeno. Volevo un futuro con lei, sì, ma non così presto, non così. Le baciai la fronte, accarezzandole i capelli con delicatezza, cercando di mantenere la calma mentre le sussurravo all'orecchio: «Prendi la pillola, vero?»

Fanny si irrigidì all’istante tra le mie braccia. Si scostò leggermente, guardandomi con gli occhi spalancati, come se le avessi appena chiesto qualcosa di assurdo. «Cosa?»

Inspiro a fondo, cercando di restare calmo. «La usi, vero?» ripeto, cercando nei suoi occhi una risposta che non voglio temere.

Lei deglutisce, abbassa lo sguardo. «No...»

Sentii il mio stomaco ribaltarsi. «No?!» Mi ritrassi, fissandola incredulo. «Fanny, cazzo, mi stai dicendo che tutto questo tempo non hai preso niente?»

Lei strinse le lenzuola tra le mani, mordendosi il labbro. «Non pensavo... non pensavo fosse così importante, Richard.»

Il sangue mi ribollì nelle vene, mi alzai dal letto di scatto, allontanandomi da lei. «Non pensavi?! Cristo, Fanny! Stiamo scopando ogni notte, e non hai pensato a proteggerti?» Mi passai una mano tra i capelli, camminando avanti e indietro nella stanza. «Io... io non voglio figli, non adesso! Dannazione, non voglio rovinare tutto!»

Lei mi guardò con le lacrime agli occhi, ma c’era anche rabbia in lei. «Rovinare tutto? È così che la vedi? Richard, io non voglio figli adesso, ma se dovesse succedere...»

«No.» Le puntai un dito contro, la mia voce tremava di collera. «Non deve succedere, hai capito? Io non voglio essere padre, non adesso, non in questa situazione del cazzo!»

«E io non voglio che mi urli contro!» sbottò, stringendo i pugni. «Non puoi controllare tutto, Richard! Non puoi decidere tutto tu!»

Mi fermai di colpo, guardandola con furia. «Ma posso decidere di non essere incastrato in qualcosa che non voglio!»

Fanny si alzò dal letto, il viso arrossato per la rabbia. «Incastrato? È così che mi vedi? Come una trappola?»

La sua voce tremava, e per un attimo vidi il dolore nei suoi occhi. Ma ero troppo arrabbiato, troppo frustrato per fermarmi. «Non è questo il punto! Dannazione, Fanny, non posso pensare a un figlio adesso! Abbiamo troppi problemi, troppe persone che ci vogliono morti, e tu non ci hai pensato neanche un secondo?!»

Lei mi fissò a lungo, poi sussurrò: «Forse hai ragione. Forse sono stata stupida.»

«Già, forse sì.»

Il silenzio calò tra noi, pesante come un macigno. Respiravo a fatica, cercando di calmarmi, ma sentivo ancora il cuore martellare nel petto. Lei si voltò, andò verso la finestra e guardò fuori, stringendosi nelle braccia.

«Vaffanculo, Richard,» disse piano, con una voce carica di dolore.

Mi lasciai cadere sulla sedia accanto al letto, guardandola mentre la tensione tra noi cresceva come una tempesta in arrivo. Non sapevo come sistemare questa cosa. Non sapevo se volevo sistemarla.

«Tu vuoi un figlio?» le urlai contro, sentendo la rabbia bruciarmi il petto. Non riuscivo a controllarmi, mi sentivo come se stessi per esplodere.

Fanny alzò lo sguardo su di me, i suoi occhi erano lucidi, pieni di qualcosa che non riuscivo a decifrare. «Se tu non lo vuoi, non vedo il motivo per cui averlo...» la sua voce era fragile, quasi un sussurro.

Si coprì con il lenzuolo, come se volesse proteggersi da me, come se avesse paura della mia rabbia. Questo mi fece ancora più male. Mi sentii soffocare, il petto si alzava e abbassava in cerca d’aria, ma dentro di me c’era solo un caos devastante.

«Cristo, Fanny!» sbattei il pugno contro il muro, il rumore rimbombò nella stanza. «Non è una cazzo di questione di cosa voglio io o cosa vuoi tu! È che dobbiamo essere responsabili! Sai in che situazione di merda siamo! Come puoi essere così... così ingenua?!»

Lei abbassò lo sguardo, e una lacrima scivolò lungo la sua guancia. Il suo labbro inferiore tremava mentre lo mordeva per trattenere un singhiozzo. «Non sono ingenua, Richard...» disse con voce spezzata. «Io... io ti amo, e pensavo che anche tu...»

«Non è questo il punto!» la interruppi bruscamente, la mia voce più dura di quanto volessi. «Amarti non significa essere pronti per una cosa del genere!»

Fanny strinse il lenzuolo ancora di più attorno a sé, come se volesse scomparire. «Sei arrabbiato con me...» sussurrò, e le sue spalle iniziarono a tremare.

Mi sentii un bastardo in quell'istante, ma la rabbia non mi lasciava. Mi avvicinai al letto, guardandola dall’alto in basso. «Sì, sono incazzato. Perché non mi hai detto nulla? Perché hai deciso di fare tutto da sola senza parlarmene?!»

Lei si girò di spalle, nascondendo il viso nel cuscino. «Avevo paura...»

«Paura di cosa?!»

«Di perderti...» la sua voce si spezzò completamente, e poi scoppiò a piangere.

Mi sentii come se qualcuno mi avesse pugnalato allo stomaco. Guardarla piangere in quel modo, rannicchiata su se stessa, era come vedere qualcosa di prezioso andare in pezzi davanti ai miei occhi. Ma non riuscivo a toccarla, non riuscivo a consolarla. Perché dentro di me c'era ancora quella fottuta paura di rovinare tutto, di non essere all'altezza, di non sapere come proteggerla.

Mi passai una mano sul viso, frustrato, e dissi a denti stretti: «Non piangere adesso, Fanny. Ti prego.»

Ma lei non smise.

Mi alzai dalla sedia con un peso nel petto che mi schiacciava, la rabbia e il dolore si mescolavano in un vortice che mi faceva male quasi fisicamente. Indossai un paio di jeans in fretta, infilai la cintura con movimenti bruschi e tirai la felpa sopra la testa. Le mie mani tremavano leggermente, ma non me ne fregava niente.

Andai verso la porta, ogni passo risuonava nella stanza come un colpo sordo. Mi voltai appena, senza guardarla negli occhi, e con la voce fredda, dura come il ferro, dissi: «Un'altra volta che mi nascondi qualcosa, Fanny, ti insegno io a non farlo mai più.»

Lei sollevò lo sguardo, i suoi occhi pieni di lacrime e paura, ma non dissi altro. Aprii la porta con un gesto deciso e la richiusi dietro di me con un tonfo sordo.

Camminai lungo il corridoio della casa di sua madre, le pareti antiche sembravano soffocarmi. Ogni pensiero mi martellava la testa: Come aveva potuto tenermi all'oscuro di una cosa così importante?

Scesi le scale di fretta, ogni passo era carico di frustrazione. Avevo bisogno di aria, di allontanarmi da lei, dalla situazione, da tutto. Ma mentre spingevo la porta d'ingresso e sentivo l'aria fresca della notte avvolgermi, dentro di me sapevo che non sarei mai riuscito a scappare davvero. Fanny era dentro di me, incisa a fuoco nella mia anima, e per quanto fossi incazzato, sapevo che non sarei mai riuscito a lasciarla davvero.

Strinsi i pugni e camminai a passo veloce lungo la strada deserta. Dovevo calmarmi, dovevo pensare. Ma tutto quello che riuscivo a sentire era il suono della sua voce tremante che continuava a ripetersi nella mia mente: "Avevo paura di perderti..."

Presi il pacchetto di sigarette dalla tasca, ne sfilai una e la portai alle labbra. Inspirai profondamente, sentendo il fumo riempirmi i polmoni e la nicotina placare, almeno in parte, la tempesta nella mia testa. Guardavo fisso davanti a me, verso la finestra illuminata della camera di Fanny. Mi sembrava di poterla vedere anche da lì, rannicchiata sotto le coperte, con le lacrime ancora agli angoli degli occhi. Dannazione, non volevo lasciarla, ma mi aveva tradito in un modo che non potevo accettare.

Sospirai, lasciando che il fumo scivolasse via lentamente dalle mie labbra, quando sentii dei passi dietro di me.

«Richard.»

Mi girai di scatto, sapevo già chi fosse. Cleopatra. La fissai con occhi duri, le dita strette attorno alla sigaretta. Quella puttana aveva nascosto le lettere che avevo scritto a Fanny. Quelle lettere che forse avrebbero cambiato tutto.

«Non ho niente da dirti,» dissi a voce bassa, tornando a guardare la finestra di Fanny. Il mio amore, la mia ossessione.

Cleopatra si avvicinò senza esitazione, il suo sguardo fermo e calcolatore. «Devi ascoltarmi,» insistette.

Sbuffai, prendendo un’altra boccata di fumo. «Sei venuta a chiedermi scusa? Un po’ tardi, non credi?»

Lei scosse la testa. «Non si tratta di questo.»

La sua mano si allungò verso il mio braccio, stringendolo con una forza che non mi aspettavo. «Richard... Fanny ha una maledizione.»

La guardai per un attimo, poi scoppiando in una risata amara. «Sei seria? Davvero credi a queste stronzate?»

Cleopatra non si lasciò intimidire. «Non è una stronzata. Tutte le Francesche hanno fatto la fine scritta.»

Strinsi la mascella. «E come diavolo lo sai?»

Lei mi fissò intensamente, i suoi occhi erano cupi e carichi di una paura che non riusciva a nascondere. «Io le ho viste.»

Rimasi in silenzio, cercando di non far trasparire quanto quelle parole mi inquietassero. Poi sorrisi sarcastico, gettando via la sigaretta e calpestandola. «Sei completamente pazza.»

Cleopatra mi strattonò con più forza, obbligandomi a guardarla dritto negli occhi. La sua voce era un sibilo tagliente. «Fanny morirà insanguinata, Richard. Se la fermi, se non la tieni lontana da tutto questo, sarà un lup infinito.»

Mi sentii come se il pavimento sotto di me stesse crollando. Le parole di Cleopatra risuonavano nella mia testa come un’eco lontana e sinistra.

Guardai ancora una volta la finestra di Fanny, sentendo un brivido freddo lungo la schiena. E se fosse vero? E se lei fosse davvero condannata?

Cleopatra si allontanò lentamente, lasciandomi solo con i miei pensieri.

Inspirai un'ultima boccata dalla sigaretta, lasciando che il fumo mi riempisse i polmoni prima di espirarlo lentamente. I miei occhi rimasero fissi sulla finestra illuminata della stanza di Fanny. Era lì. Affacciata, con lo sguardo perso nella notte. Indossava una mia felpa, quella nera che le arrivava quasi alle ginocchia. Il suo viso era stanco, gli occhi arrossati, ma quando mi vide sorrise appena, quel sorriso fragile che mi faceva impazzire.

Un nodo mi strinse lo stomaco. Forse Cleopatra era pazza, forse tutta quella storia della maledizione era solo una cazzata... ma e se non lo fosse?

Senza pensarci due volte, gettai la sigaretta nel lago davanti a me, guardandola spegnersi con un lieve sfrigolio sull’acqua scura. Poi corsi verso la porta del palazzo. Dovevo vederla, toccarla. Dovevo sapere che era ancora mia.

I miei passi risuonarono lungo i corridoi silenziosi, attraversando le stanze oscure di Atlantide. Il palazzo aveva un'aria antica, quasi spettrale di notte, ma non me ne importava. Tutto ciò che contava era lei.

Aprii la porta della sua stanza senza bussare. La trovai in piedi, ancora affacciata, ma stavolta con le braccia strette attorno a sé, come se cercasse di scaldarsi. Quando mi vide, le sue labbra tremarono appena.

«Richard...» sussurrò, ed io attraversai la stanza in pochi passi, prendendola tra le braccia senza dire una parola.

Sentii il suo corpo cedere contro il mio, il respiro accelerato contro il mio petto. «Non lasciarmi mai più,» disse con la voce rotta.

Le accarezzai i capelli, affondando il viso nel suo collo. «Non potrei nemmeno se volessi,» le risposi.

Fanny mi strinse più forte, e per un attimo dimenticai tutto—Cleopatra, la maledizione, il futuro incerto. C'era solo lei, la mia ragazza. Mia, e di nessun altro.

La presi in braccio con un gesto deciso, le sue gambe si strinsero attorno alla mia vita mentre la sbattevo contro il muro con troppa forza. Sentii il suo gemito di dolore, ma non mi fermai. Il suo respiro caldo mi sfiorava il collo, e io sentivo solo rabbia e desiderio intrecciarsi in un nodo impossibile da sciogliere.

«Voglio punirti,» sibilai contro la sua pelle, mordendole il collo con una forza che la fece tremare. «Per avermi detto vaffanculo. A me. Al tuo amore.»

Lei ansimò, le sue unghie scavarono nella mia schiena attraverso la felpa, come se volesse graffiarmi l’anima. «Richard...» sussurrò, la sua voce spezzata tra il piacere e il dolore.

La guardai negli occhi, il mio respiro si fece più pesante. «Tu sei mia, Fanny. Capito?» le dissi stringendole il mento tra le dita, costringendola a guardarmi.

Lei annuì debolmente, le sue labbra leggermente dischiuse. Le baciai con violenza, con rabbia, affondando nella sua bocca senza lasciarle scampo. Le sue mani si aggrapparono ai miei capelli, tirando con forza, come se volesse fondersi con me.

«Dimmi che sei mia,» ordinai, mordendole il labbro inferiore fino a sentirla gemere di nuovo.

«Sono tua... solo tua,» ansimò, i suoi occhi lucidi, il suo corpo arrendevole sotto le mie mani.

Sorrisi, soddisfatto, e la strinsi ancora più forte contro il muro. «Brava ragazza,» sussurrai, e iniziai a scendere con le labbra lungo il suo collo, il suo respiro che si faceva sempre più irregolare, il suo corpo che si muoveva contro il mio con impazienza.

Mi tolsi la cintura e calai i pantaloni, sentendo il battito accelerato del cuore. Entrai in lei, e il suo sussurro mi colpì: «Mi dispiace per prima, amore mio.» Mi baciò il viso, dicendo «Ti amo da morire.» La spinta fu intensa, senza pietà; le dissi: «Dimmi che sei mia.» Le nostre fronti si toccarono, e le dissi: «Sei tu il mio amore.»

Sentii le sue unghie graffiarmi la schiena. Volevo farle capire che era la mia puttana. La baciai, ma non ricambiai il gesto; non se lo meritava.

La stanza era avvolta in un silenzio carico di tensione, rotto solo dai nostri respiri affannati. La pelle di Fanny era calda sotto le mie mani, e ogni movimento sembrava amplificare il desiderio che ci univa. La sentivo tremare leggermente mentre mi avvicinavo di nuovo a lei, i nostri corpi che si cercavano come magneti.

«Sei mia,» ripetei, la voce bassa e carica di una possessività che mi sorprendette. Volevo che capisse quanto fosse importante per me, quanto fosse unica. Ma c'era anche un'altra parte di me che bramava di dimostrarle il potere che avevo su di lei.

Iniziai a muovermi dentro di lei, lento all'inizio, assaporando ogni istante. La sua espressione passò dalla sorpresa al piacere, e quel cambiamento mi fece sentire invincibile. Le sue mani si aggrapparono ai miei fianchi, le unghie affondarono nella mia pelle, e io risposi aumentando il ritmo. Ogni spinta era un’affermazione del nostro legame, un modo per farle capire che non c’era spazio per dubbi: era mia.

«Dimmi che sei mia,» insistetti, mentre la guardavo negli occhi. C’era una scintilla di sfida nel suo sguardo, ma anche un accenno di resa. «Dillo,» la incitai, mentre continuavo a muovermi in lei con sempre maggiore intensità.

«Lo sono,» sussurrò, e quelle parole mi riempirono di una soddisfazione profonda. Ma non era solo il desiderio fisico a guidarmi; c’era anche una certa frustrazione per tutto ciò che era successo prima. Volevo che comprendesse quanto fosse importante per me, quanto fosse speciale.

Le mie mani si spostarono lungo la sua schiena, afferrando i suoi fianchi mentre aumentavo il ritmo. Ogni colpo era più forte del precedente, e la stanza si riempì dei nostri gemiti e dei suoni dei nostri corpi che si univano. Laura chiuse gli occhi, abbandonandosi completamente al momento, e io sentii una scarica di piacere misto a una certa rabbia. Volevo che comprendesse che era solo mia.

«Sei la mia puttana,» dissi con un tono quasi provocatorio, ma nel mio cuore c’era più amore di quanto volessi ammettere. La guardai mentre le mie parole le colpivano come un’onda. Le sue labbra si aprirono in un sorriso malizioso, ma io non ricambiai il bacio questa volta; non se lo meritava dopo tutto.

Continuai a muovermi con forza, ogni spinta portandomi più vicino a quel confine tra piacere e possesso. La sua voce si alzò in un grido di piacere quando sentì l'onda del nostro desiderio crescere sempre di più. In quel momento capii che non era solo fisico; c'era una connessione profonda che ci legava.

La tensione aumentava in noi come una tempesta in arrivo; entrambi sapevamo che eravamo sul punto di raggiungere il culmine. Con ogni movimento, ogni respiro condiviso, ci avvicinavamo sempre di più a quel momento esplosivo in cui tutto sarebbe cambiato.

«Ti amo,» mormorai finalmente, mentre l’onda del piacere ci travolgeva entrambi. E in quel preciso istante capii che nonostante tutto ciò che era successo tra noi, c'era qualcosa di indissolubile nel nostro legame.

Gli tirai i capelli mentre uscivo da lei, il suo respiro era irregolare e il suo corpo tremava sotto di me. Ho preferito non venire dentro di lei, non ancora. Le accarezzai il viso arrossato e dissi con voce roca: «Ti amo, piccola.» Le baciai la fronte mentre lei cercava di riprendersi, ma le sue gambe cedettero e cadde a terra, sfinita.

Sorrisi divertito, guardandola da sopra. «Sei distrutta, eh?» dissi con un ghigno soddisfatto, mentre mi sistemavo i pantaloni.

Fu in quel momento che la porta si aprì di scatto. Mi voltai di scatto, e davanti a noi c’era Paolina, la madre di Fanny. I suoi occhi si spalancarono per l’imbarazzo, mentre Fanny gridava: «Mamma!» cercando di coprirsi alla meglio con le lenzuola.

Sorrisi più forte, sistemandomi la cintura. «Scusate, non volevo disturbare,» mormorò Paolina, chiaramente a disagio.

Ignorai il suo imbarazzo e presi in braccio Fanny, posandola dolcemente sul letto. Poi mi avvicinai alla porta e la spalancai del tutto, fissando Paolina con sguardo divertito. «Paolina, qualche problema?»

Lei sospirò, il suo viso serio e preoccupato. «Volevo parlarti, Richard. Della maledizione.»

Fanny si coprì il viso con le mani, esasperata. «Mamma, ti prego, non adesso!»

Paolina scosse la testa, determinata. «È importante.»

Mi voltai verso Fanny, il mio sguardo si incrociò con il suo. Anche se ero scettico su quella storia, qualcosa nel tono di sua madre mi fece capire che c'era più di quanto immaginassi.

Guardai Paolina senza dire nulla, lasciando che le sue parole si insinuassero nella mia mente. La maledizione. Ogni volta che qualcuno ne parlava, mi sembrava una favola stupida, un racconto per bambini. Ma poi guardavo Fanny. Guardavo i suoi occhi colmi di paura, quella fragilità che cercava di nascondere dietro il suo carattere ribelle, e qualcosa dentro di me si spezzava.

Avevo sempre pensato di poterla proteggere da tutto, di essere abbastanza forte per affrontare qualsiasi cosa. Ma come si combatte qualcosa che non puoi nemmeno vedere? Una maledizione. Una fottuta maledizione che aleggiava su di lei come un’ombra costante, pronta a portarmela via.

Stringevo i pugni, la mascella serrata. Non succederà. Non lascerò che succeda.

Fanny era mia. MIA. Nessuna leggenda del cazzo avrebbe potuto strapparmela via, nessun destino scritto nel sangue. Io non credevo nel destino. Io me lo creavo da solo, con le mie mani, con le mie scelte.

Eppure… quella voce nella mia testa continuava a sussurrarmi che c'era qualcosa di più grande, qualcosa che non potevo controllare.

Fanny si stava addormentando nel letto, le sue ciglia tremavano leggermente, e io sentii un dolore sordo nel petto. Non era solo il desiderio di proteggerla. Era la paura. La paura di perderla, di non essere abbastanza.

Mi passai una mano tra i capelli, fissando la porta chiusa. Se davvero c'era una maledizione, allora avrei fatto di tutto per spezzarla. Anche se significava perdere me stesso nel processo.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top