PAROLE E SILENZIO
Minerva udì qualcuno bussare alla porta della sua stanza.
"Chi è?", chiese lei, riemergendo dai propri pensieri.
"Sono io," rispose Albus dall'altra parte della porta.
"Entra," disse lei, abbassando lo sguardo. Non si preoccupò nemmeno di alzarsi e Albus la trovò al buio, seduta sul bordo del letto.
Lui prese posto accanto a lei e le prese una mano, che la donna strinse con forza.
"Cornelius non vuole sentire ragione, vero?", gli chiese.
"Purtroppo no," rispose Albus.
"Che razza di idiota," sbuffò lei.
"È un uomo spaventato, Minerva," disse lui, "un mediocre in una posizione troppo grande per lui".
"Vorrei avere la tua saggezza," sospirò lei, "e il tuo autocontrollo".
"Non saresti tu," ribatté lui, "e non avresti quell'onestà e quell'orgoglio che ti caratterizzano".
"Vuoi dire il mio pessimo carattere?".
"Non dire così," le bisbigliò Albus.
Rimasero in silenzio per alcuni minuti, mentre Albus le accarezzava il dorso della mano con il pollice.
"Albus?", chiese lei, con voce incerta.
Lui la guardò, aspettando che continuasse.
"Sei ancora arrabbiato con me?".
"Perché dovrei?", chiese, anche se immaginava di conoscere già la risposta.
"Per non aver fermato Fudge, per aver perso la calma, per non aver protetto Crouch... come mi avevi chiesto," disse Minerva, la voce alterata dalla vergogna.
Albus le cinse le spalle con il braccio.
"Hai fatto del tuo meglio, Minerva, come tutti noi," disse. "Io per mesi mi sono fatto ingannare: non ho capito che quell'uomo non era Alastor Moody, uno dei miei amici più cari. Sono stato cieco e questa è stata la conseguenza".
Le diede un bacio sulla fronte.
"La colpa è mia, non tua," aggiunse.
Lei appoggiò la testa sulla spalla del mago. Si sentiva esausta: quella serata, quegli ultimi mesi, erano stati terribili, gravidi di presagi e ombre.
"Se solo fossi riuscita a evocare un Patronus," bisbigliò, quasi tra sé.
"È inutile pensare al passato, Minerva, Cornelius avrebbe comunque trovato un modo per screditarci. Avrebbe negato anche l'evidenza".
"Io ho visto cose orribili, Albus," continuò Minerva, "durante la guerra, ma questa sera, quando ho visto quel... quel mostro avvicinarsi a Crouch... credevo che sarei svenuta... È stato orribile! Nonostante tutto quello che ha fatto quell'uomo, io ho provato pena per lui".
Albus la sentiva tremare lievemente al ricordo di quella macabra scena e la strinse a sé com maggior forza.
Sapeva che la sua compagna era una donna forte, ma sapeva anche quanto sensibile fosse il suo animo, sotto l'apparente severità.
"È giusto provare compassione, Minerva, anche per chi ha commesso azioni orribili," disse lui. "Questo non fa che renderti più straordinaria.
"Vedi, il male - se ci lasciamo toccare da esso - ha la capacità di renderci insensibili ed egoisti. È la compassione l'unità di misura della nostra umanità. Il fatto che tu abbia provato pietà per Crouch, che non ne ha mai avuta per nessuno, significa che lui ha perso, che non può farti nulla, che tu sei più forte di lui".
Minerva lo guardò negli occhi, perdendosi in essi, assaporando le sue parole, sentendo più che mai di amare quell'uomo saggio, che sapeva sempre mantenere la calma anche nelle situazioni disperate e che sapeva sempre cosa dire.
"E adesso?", chiese Minerva, ma sapeva già la risposta e anche Albus.
Avevano già vissuto una guerra e l'avevano superata; avevano combattuto e sofferto insieme e lo avrebbero fatto di nuovo.
Albus la baciò e continuò a tenerla tra le braccia, accarezzandole la schiena. Nella sua saggezza, Albus sapeva anche quando restare in silenzio, sapeva quanto le parole potessero essere superflue.
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