7. Sangue sulla città
"Sono poche le ragioni per dire la verità. Mentre quelle per mentire sono infinite."
- Carlos Ruiz Zafón
Deya non riesce proprio a credere di aver accettato di sottostare alle follie di Lazar, ma ormai il danno è compiuto: deve cenare con lui e sua madre.
È tornata a casa dopo qualche ora trascorsa a chiacchierare con lui in agenzia, con la promessa di raggiungerlo al calar del sole. Non pensa che sia una buona idea, sa che si sta cacciando in un guaio, che sta imboccando una strada senza via d'uscita, eppure ha deciso di accettare quelle condizioni assurde, basate sulla menzogna. Non sa nemmeno perché, forse solo per avere qualcosa da fare.
Trascorre il pomeriggio sui libri, studiando per esami che poi non riesce a dare, perché l'ansia comincia a sopraffarla, a morsicare invadente prendendosi ogni traccia di luce nella sua vita.
Sottolinea tutto negli appunti, fino a non sapere più perché lo fa, quando potrebbe studiare ogni parola e non consumare matite.
Poi si prepara, e decide di farsi carina, di rendersi presentabile – se tanto lei e Lazar devono fingere, è meglio che faccia una buona impressione a sua madre. Di certo non potrà raccontarle di come l'ha conosciuto, o di quando l'ha portata su una lapide per dei preliminari. Dovrà inventare una storia credibile, strada facendo.
Prima di uscire, però, vede Tiana in cucina, con i suoi capelli blu e un maglione pesante addosso, vittima del freddo che sembra non lasciarle mai scampo. È vicino al camino, con una tazza fra le mani piena di un intruglio ambrato, quasi oro che gocciola, denso di miele.
«Dove vai? Non ceni con noi?», le chiede.
Deya pensa che nell'ultimo periodo Tiana non si preoccupa affatto di dov'è o cosa fa, e quindi trova inopportuna quella domanda, e decide di servirle la stessa menzogna, quasi come un riflesso automatico. Una riproduzione di una bugia sempre più pianificata, e che ora assume dei chiari contorni. Ora ha dei vantaggi anche per lei, li percepisce in quel preciso momento, mentre la mente viaggia a mille. «No, vado a cena con un ragazzo che frequento da un po'», semplice e diretta, e nemmeno troppo distante dalla verità.
È solo che vengono celate troppe cose, e Tiana non ne ha idea, e allora il suo volto si illumina di curiosità. «Ma perché non mi hai detto niente? Chi è? Lo conosco?»
Troppe domande e poca voglia di rispondere, con l'orologio che sta per rintoccare un altro minuto. Odia essere in ritardo.
«Non credo, è una persona che sta sulle sue, non conosce molta gente. Si chiama Lazar, ed è carino, parecchio», l'ultima cosa in fondo è quella fondamentale per Tiana, e basta a incrementare le fiamme della voglia di sapere.
Deya, però, avverte una sensazione simile al gelo che assale al primo albeggiare, una nebbia densa di dubbi che le vortica intorno furiosa.
«Ora devo andare», dice, come se potesse andare via sul serio, scivolare via dalla realtà con un passo nel vuoto. «Non so quando tornerò... a domani, credo», non aspetta una risposta prima di chiudersi la porta alle spalle. Un'ultima uscita spavalda in grado di rendere quella bugia, quella macchia nera d'inchiostro pronta a espandersi, sempre più evidente e reale.
♱
Casa di Lazar è più dolce e accogliente, un tepore sicuro si diffonde nell'aria mentre la legna brucia nel camino e rende il freddo sopportabile. Il cielo è denso del presagio di un tuono lontano. Mura arcigne li imprigionano in una cena difficile da sostenere. Le domande sono tante, e non è semplice mettersi d'accordo, far combaciare le versioni, ma riescono a districarsi bene dentro quell'impiccio. Sembrano attori nati.
Lui le carezza appena la mano, di tanto in tanto, e lo fa sopra il tavolo, in modo che si veda. Le riempie il bicchiere dell'acqua, da perfetto gentiluomo, e sfodera una dose così massiccia di sorrisi che per Deya diventa quasi insostenibile. Ha un ghigno vispo sul volto, furbo – ammaliante.
Deya non ne può più di parlare di sé e di mostrare soltanto i punti luminosi; deve nascondere tutti i difetti, i dettagli marci, sotto uno spesso tappeto, in modo che non si veda la polvere che le riveste l'anima. Si mostra cordiale, gentile, disponibile nell'aiutare a sparecchiare e lavare i piatti, ma la madre di Lazar non ne vuole sapere niente di avere un aiuto per mettere in ordine dopo cena, così li lascia andare al piano di sopra, a continuare la serata fra qualche birra – magari qualche bacio.
Non li ha messi troppo a disagio, tuttavia, e non ha esagerato con le domande, affatto.
Quando si avviano verso il piano di sopra, però, le maschere crollano, i sorrisi finti si spengono, l'aria non è più spensierata e leggera, lo stomaco è appesantito dal mordicchiare di alcune falene feroci, impazzite.
Stappano una birra, e questa volta Deya beve piano, manda giù un sorso alla volta, solo piccole porzioni di luppolo, cercando di tenere sotto controllo il volume alcolico delle bottiglie che Lazar le rifila, mentre accendo la stufa per riscaldare anche quell'ambiente.
«Non ti sembra che in questo periodo stiano succedendo troppe cose strane?», la domanda di Lazar piomba come un fulmine dopo l'arcobaleno, dopo la fine di una dolorosa tempesta. Un cattivo presagio sibilante, ossa che scricchiolano e scheletri che fuoriescono da tombe profanate per divorare carne umana.
Scene raccapriccianti, d'orrore e panico, si diffondono nella sua mente, che tuttavia non ha ben chiaro a cosa si riferisca.
«Tipo?», l'unico evento strano che ha notato è un segreto seppellito dentro di sé, e non può farne parola con nessuno – neppure con il suo finto fidanzato.
Lazar è tutto vestito di nero, quando Deya posa gli occhi sulla sua figura, seduta sulla sedia di fronte alla poltrona, con un bicchiere colmo di birra fra le mani e la schiuma che quasi fuoriesce oltre l'orlo e gocciola. Neppure una nota di colore in tutta la sua persona, al di là dell'ambra brillante nel vetro. È tetro, ha abbassato la voce come se volesse sussurrarle un segreto raccapricciante, si è avvicinato al suo viso con le labbra luccicanti di alcool, l'odore impresso sulla pelle di foreste verdi e luppolo. La sua risposta la si può scorgere nel lampeggiare di un sorriso rappreso, un ghigno d'ipocrisia usato per mascherare i dubbi, i quesiti invadenti che gli si arrovellano nel cervello, dietro le ossa della scatola cranica.
«C'è stata un'aggressione al locale in cui ci siamo incontrati, quando ti ho portato via da lì. Quando ho sentito le urla non ho avuto dubbi, dovevamo allontanarci da là. È stato puro istinto di sopravvivenza, eravamo vicini e troppo ubriachi, potevano sospettare fosse colpa nostra. Però il giorno dopo ho fatto un giro in paese, e la notizia dell'aggressione si era già sparsa. La ragazza in questione, Emily Ross, era una diciottenne venuta alla festa con il fidanzato, ora indagato per quell'aggressione, siccome avevano litigato. Pare che abbia ricevuto un colpo in testa così forte da mandarla in coma, e non si è ancora svegliata», le spiega i dettagli con una precisione meticolosa, con gli occhi che brillano della classica fame di sapere, il bisogno di conoscere la verità macabra dietro a un oscuro mistero.
«Strano, certo, ma non assurdo o impossibile», prende un sorso stavolta più profondo di birra, ha bisogno che l'alcool entri in circolo per gestire conversazioni così cruente. Parlare di certi argomenti non potrà che farla stare male, alimentare la sua ansia.
«Lo pensavo anche io, ma poi il suo fidanzato è sparito nel nulla. Non si ha più traccia di lui da giorni.»
«Beh, ne dimostra la colpevolezza, no?»
«Non ne sono convinto. Non può essere sparito così, avrebbero dovuto sorvegliarlo, avrebbero dovuto notare dei movimenti sospetti, e lui avrebbe dovuto prelevare del denaro per fuggire», Lazar comincia a elencare quelle ipotesi, e ora i suoi pensieri cominciano a prendere forma. «Non risulta che siano stati toccati i suoi soldi sulle carte di credito. Io penso che sia morto.»
«Agghiacciante», non sa proprio che altro aggiungere. «In ogni caso, non possiamo farci molto, è la polizia che si occupa di queste cose.»
«Viviamo in un paese minuscolo, e c'è un assassino che si nasconde fra di noi», sibila Lazar, convinto.
«Mi sembra follia, ma sì, potrebbe essere... quindi?», non capisce dove vuole andare a parare. Forse, non vuole proprio capirlo.
«Quindi abbiamo un corpo da cercare, e non posso farlo da solo, perché potrebbe essere pericoloso. Tu sei coraggiosa, sei perfetta per aiutarmi nelle indagini.»
Un brivido le risale lungo la spina dorsale.
Lazar non sa che la verità potrebbe essere così vicina che la si potrebbe toccare con mano. Non potrebbe mai ipotizzare di avere di fronte a sé tutto ciò che sta cercando. Deya, invece, ne è convinta in maniera razionale, quasi totale.
Tutto sembra coincidere con i suoi vuoti di memoria.
Una consapevolezza dolorosa, un'agonia da rinchiudere dietro un'espressione assente, apatica, spoglia di qualunque forma d'emozione. Non si tradirà di fronte al nemico, solo accettando quella follia può conoscere sempre il piano d'azione e i sospetti dell'unico individuo interessato a cercarla, a fare chiarezza sulla vicenda.
«Perfetto, allora. Quando cominciamo?»
«Adesso. Andiamo a cercare il corpo.»
Quell'idea non le piace per niente.
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