6. Ombre nel passato

"Ti amo con un amore che è più dell'amore."
- Edgar Allan Poe


Deya si sveglia con un dolore sordo alle tempie. Pulsano vive, vene che pompano sangue con rabbia e contaminano il suo cervello. Un caleidoscopio di colori le impediscono la vista per una manciata di secondi, vietandole di mettere a fuoco il mondo circostante. 

Fra il delirio del risveglio, la lampada sul comodino appare sformata, continua a cambiare dimensioni senza una logica apparente. Si rimpicciolisce, poi si ingrandisce tanto che la ceramica che la riveste potrebbe frantumarsi in milioni di cocci e schegge.

Si tira su a sedere. Indossa il suo pigiama. Non ci sono macchie scarlatte in giro. 

Tutto sembra normale.

A parte quel lancinante mal di testa.

Coltelli che le trafiggono la nuca da parte a parte, come se un carro armato le fosse passato sul capo, sfracellandolo, riducendolo in una viscida poltiglia rossa e densa.

Della notte prima ricorda solo Lazar, tre birre e un giro all'obitorio. Il resto è nebbia densa. Com'è tornata a casa? Quando ha rimesso il pigiama?

Non lo sa, e non essere in grado di ripescare nella memoria i ricordi della notte precedente le rovina l'umore fin dal risveglio. 

Recupera il cellulare, questa volta sa cosa fare. Apre la rubrica, cerca il numero di Lazar e avvia una chiamata.

Il telefono squilla un paio di volte, poi si interrompe e sente la sua voce dopo solo una manciata di istanti. «Buongiorno, Deya.»

«Buongiorno un cazzo. Devo parlarti. Mi vesto e vengo da te. Sei a lavoro, no?», arriva dritta al punto, e mentre tiene il telefono nell'incavo fra il collo e la spalla comincia a togliere i pantaloni del pigiama, aprendo un'anta dell'armadio per cercare dei vestiti comodi e caldi.

«Non riesci proprio a stare un solo secondo senza di me... d'accordo, tanto non c'è nessuno qui. Né vivo né morto, s'intende.»

Non ha proprio voglia del suo pessimo senso dell'umorismo. «A dopo.»



Tiana si è addormentata sul divano, un braccio a penzoloni sul pavimento e un rivolo di saliva che pende appena oltre le labbra. Iuri non c'è, sarà andato a letto, lasciando lì la sua fidanzata mezza collassata per l'alcool e le droghe ingerite. Deya non ha voglia di svegliarla, così scribacchia al volo un post-it che lascia sul tavolo della cucina, poi prende il cappotto ed esce.

Il tragitto fino all'agenzia è veloce e nebuloso, a quell'ora del mattino si alza una coltre oscura, rende il mondo un sogno sospeso in un presente invisibile; è difficile guardarsi intorno e deve accendere l'aria condizionata per evitare che le si ghiacci il parabrezza. Guida piano, l'asfalto è scivoloso di brina, i lampioni si sono appena spenti per lasciare il posto alle luci dell'alba.

Il cancello di ferro aguzzo, poi la porta senza campanello e giusto qualche rintocco sul legno che sussulta. Il chiavistello gira, un rumore metallico e l'ingresso si apre. Lazar, quella mattina, ha l'aria riposata, sembra aver dormito bene – meglio di lei, di sicuro. Magari ha anche avuto il tempo di fare colazione.

«Tu mi hai drogata. Mi hai messo qualcosa nella birra, ieri sera, ne sono sicura», è la prima accusa che interpone fra di loro, dopo che hanno quasi collaborato – con non pochi problemi d'incompatibilità a fare da sfondo alle loro bizzarre vicende.

Lazar la guarda con confusione evidente, non ha idea di che cosa stia dicendo, e Deya si sente sprofondare ancora di più – perché crede ai suoi occhi e a quei dubbi.

Sa bene che la soluzione più razionale sarebbe chiamare la sua psicologa e fissare un appuntamento, smettendo di darle buca. Però sa che anche come finirebbe, con un rimprovero per le pastiglie non ingoiate e per la mancanza di amore verso se stessa. L'ennesimo fallimento di una vita passata a lottare con i suoi disturbi mentali.

Non vuole proprio riacciuffare il filo della realtà.

Le immagini sono confuse, si sovrappongono e si interrompono. Nette. Fotografie tranciate a metà da un paio di forbici. Non sa come assemblarle.

Non è il primo black-out, e teme che possa non essere l'ultimo.

In fondo non c'è modo di uscirne, o ci lotti per tutta la vita e cerchi a stento di sopravvivere o anneghi in un dolore lacerante, di pelle distrutta e ossa in frantumi, di cicatrici sul cuore e sulle braccia.

«No. Magari hai bevuto troppo, sei stata male? Quando sei tornata a casa sembravi tranquilla», Lazar non riesce proprio a comprendere la situazione. Dall'esterno tante cose non si vedono, e l'insania si nasconde dietro a un sorriso.

Deya erca di assemblare i pezzi sfatti di quel puzzle intricato, ma più ci prova, più la mente stride, si rifiuta di proiettare immagini coerenti e di far tornare a galla qualcosa di utile.

Silenzio tombale.

Poi, lo squillo di un telefono antiquato, di quelli con una rotella centrale che devi strascicare per comporre i numeri, e con una suoneria sgradevole, assordante, che ora rimbalza fra le pareti dai vecchi infissi, fra le finestre dai cardini cigolanti oltre i gargoyle di pietra all'ingresso. Lazar raggiunge la cornetta e la solleva, portandola di fianco al volto, e ascoltando ciò che gli viene detto dall'altro lato. 

Non può decifrare dall'esterno la conversazione, avverte solo un brusio elettronico e confuso.

«Mi pareva di essere stato chiaro con te. Non mi devi chiamare, e non devi farlo sul telefono del lavoro», le parole di Lazar rendono un po' più chiara la situazione. Di poco, in ogni caso, perché Deya ha un casino così grosso in testa che sbrogliarlo sembra impossibile.

«Non mi interessa», continua a dire Lazar, «trovati un altro modo per risolvere i tuoi problemi. Non ne voglio sapere nulla.»

Non è mai stata brava a leggere gli esseri umani, né è mai stata capace di carpirne i gesti e movimenti inconsci, fremiti rapsodici di nervi sottopelle che rendono chiara ogni emozione. Il corpo parla più dell'anima, alle volte. Quello è uno di quei casi in cui è semplice percepire ciò che prova qualcuno solo osservandolo, solo ponendo la giusta attenzione su dei dettagli piccoli, ma non trascurabili, come la mascella ben serrata di Lazar, ora delineata più che mai. Le sopracciglia sono aggrottate e le vene sul collo sembrano voler scappare via dal posto che gli spetta, gettandosi in un fiume vermiglio pur di non sopportare quell'ira che lo corrode.

«No che non puoi venire qua, sono impegnato. Sto lavorando, e ho anche ospiti in agenzia, per la verità», è chiaro che debba lottare con tutte le sue forze per trattenere chiunque sia dall'altro lato della cornetta. «Con ospiti intendo che c'è una ragazza qui con me, sì. L'ho anche presentata a mia madre. Stiamo insieme da un po', sai com'è, nella vita si va avanti.»

Okay, ora è chiaro: Lazar sta scaricando qualcuna. Magari una ragazza che ha illuso, un po' come ha fatto con lei e la storia dell'appuntamento romantico – che poi era un preliminare al cimitero, fra tombe e marmo. 

A Deya non piace essere utilizzata così, come un oggetto per mettere a freno gli istinti omicidi delle ragazze con cui va a letto e poi abbandona a se stesse. Non gli sono mai piaciuti quel tipo di ragazzi, e ha timore che possa contagiarlo con il virus della poca empatia verso il prossimo, da come risponde alla voce gracchiante al telefono.

La sua mente vola, viaggia lontano, sorvolando su svariate possibilità.

Lazar, stanco e frustrato, emette un sospiro pesante, poi riaggancia, e subito dopo averlo fatto sposta la cornetta, in modo che le chiamate non arrivino più. Dall'altro lato, ora la linea risulterà occupata, e ogni tentativo sarà vano.

«Mi devi delle spiegazioni», non intende passarci sopra – non di nuovo.

È il secondo giorno di fila che Lazar la sfrutta per apparire, la spaccia per la sua ragazza, quando fra loro non c'è un bel niente – e non ci sarà mai niente, perché è chiaro. Sono incompatibili, si sopportano a mala pena, e se condividono quegli istanti è solo perché le rotelle girano confuse e gli ingranaggi sono bloccati in quell'istante raffermo, dove cercano informazioni l'uno nell'altro e tentano di collegarle agli eventi bizzarri degli ultimi giorni.

«Era Karen, è la mia ex ragazza», Lazar ha fatto il giro del bancone per andare a sedersi sulla poltrona all'angolo, nella sala d'attesa. Tanto non c'è nessuno, e se non muoiono persone non c'è nulla da fare, nessun corpo da seppellire e da preparare. Solo un silenzio tombale alterato dai sibili del vento beffardo, che si prende gioco di loro a ogni sussulto dovuto alle finestre e le porte che sbattono per la corrente.

Lo segue, si siede lì di fronte, ora curiosa di ricevere qualche altra informazione.

Lazar si rovista nelle tasche, tira fuori un pacco di sigarette e poi prende fra l'indice e medio una canna già confezionata, già rinchiusa in una cartina arrotolata con dolcezza e chiusa con un velo di saliva. Aspira una nuvoletta di tabacco amaro ed erba dolce come miele. «L'ho lasciata l'anno scorso perché era troppo gelosa, ma non è ancora riuscita a farsene una ragione. Mi ricontatta spesso, minaccia il suicidio, a volte anche l'omicidio.»

Le ultime sentenze, invece, sono tutt'altro che prevedibili. Un risvolto lugubre dell'amore, una piega insana che perfino nel sentimento più puro può esistere.

Siamo esseri umani: bruciamo insieme alla cenere delle sigarette.

«Dopo di lei, non ho più avuto una ragazza. L'amore non porta mai a niente di buono. Mia madre, però, è parecchio preoccupata per questo, ed è qui che entri in gioco tu. Un frammento di apparente normalità nella mia vita da solitario.»

Ora i pensieri di Lazar sono chiari, logici, comprensibili. Sebbene parecchio pessimisti.

Deya è abituata ai libri romantici e al modo in cui i film dipingono l'amore. Un paradiso talvolta composto di sofferenza e sacrifici, di rinunce, sconfitte e perdite, di coltellate al cuore e abusi nascosti dietro maschere d'indifferenza, eppure ancora vuole sperare che esista una metà mancante di ogni essere umano e vada ricercata con calma, lasciando al destino il suo corso, senza forzarlo in una precisa direzione.

Non è quello il caso, eppure la finzione inizia ad avere il sapore della libertà. 

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