5. Impronte nel fango

"Potreste fare rivelazioni che vi costano per poi scoprire che la gente vi guarda strano, senza capire affatto quello che avete detto, senza capire perché vi sembrava tanto importante da piangere quasi mentre lo dicevate. Questa è la cosa peggiore, secondo me. Quando il segreto rimane chiuso dentro non per mancanza di uno che lo racconti ma per mancanza di un orecchio che sappia ascoltare."
- Stephen King, Il corpo


Alla prima birra ne segue una seconda, e poi anche una terza. Fra le due, Lazar comincia a tritare dell'erba con uno strumento tondo in metallo, fatto apposta per lo scopo, e la rinchiude tutta in una cartina che accartoccia con le dita. Passa una striscia di saliva sulla colla, poi l'attacca facendola girare con dolcezza fra i polpastrelli esili. Ne viene fuori una sigaretta rollata bene, con il filtro più stretto della punta. Infine l'accende, riempiendo la stanza di una nebbiolina di fumo, mentre si lasciano andare alla leggerezza del perdersi dentro un vizio.

Deya ancora non ha mandato giù la storia del finto fidanzamento, e continua a insistere, sostenendo che non sia una buona idea. «Una bugia così grossa non può durare a lungo, non è una soluzione ai tuoi problemi. Se mi dicessi quali sono, però, potrei aiutarti a trovarne una più efficace.»

Preferirebbe uscirne senza complicarsi troppo la vita. Non le va proprio di fare l'attrice, e rischia di innamorarsi prima che Lazar possa ripetere che quella storia è tutta finzione. Si conosce bene, e si affeziona in fretta alle persone, anche se ci mette del tempo a iniziare un dialogo – tutte le volte che ne ha l'intenzione, la timidezza la rigetta indietro con una frenata brusca.

«Smettila di pensarci, non cambierò idea», Lazar invece non vuole proprio discutere, ha già deciso che diranno quella bugia e che si faranno carico di una menzogna ben architettata, e l'idea sembra piacergli e non creargli alcun problema. Sbuffa una nuvoletta di fumo nella sua direzione, poi l'invita a provare. 

Deya quasi si strozza col fumo – quasi, perché con Iuri in casa, sempre con gli occhi scoppiati e una canna in mano, un po' è abituata a quello passivo. Sa che anche quella di fumare è una pessima idea, ne ha discusso con la psicologa, ma in fondo non sta più prendendo i farmaci, quindi non c'è nulla da temere.

Qualcosa attira l'attenzione di Lazar, fuori dalla finestra. Nello scompiglio di una pioggerella sottile e leggera, i suoi occhi s'incupiscono per scrutare nel buio. Si alza, scosta le tende. «Ho visto una luce nel vecchio obitorio», dice, e già non sembra per niente rassicurante. «Vado a controllare chi è.»

Deya scatta in piedi. Non le sembra intelligente lasciarlo andare da solo, con quell'oscurità tetra e torbida all'esterno, che pare quasi volerlo inghiottire, mangiarlo fino alle ossa per non risputarne neanche un pezzetto. «Vengo con te», recupera il cellulare per accendere la torcia.

Fuori il vento sibila inquieto, e in effetti sembra proprio esserci una luce accesa nel vecchio capannone a fianco.

Così si proteggono con il cappotto, si avvolgono la sciarpa intorno al collo, e sono subito pronti a uscire. 

«La luce è tremolante, come la fiamma di una candela», sussurra Lazar nel buio, e la sua voce roca risulta ancora più suggestiva fra le sterpaglie che solleticano i pantaloni a ogni passo. «E tu spegni quella, o si renderanno conto che c'è qualcuno.»

«Fermati, se c'è davvero qualcuno potrebbe essere armato, e non saremmo pronti», gli fa notare, suggerendogli un po' di amor proprio. La situazione si fa sempre più strana e inquietante, e inizia a non capirci poi molto fra gli effetti della marijuana che accentuano sensi e paranoie e l'alcool che circola irrequieto nelle vene.

«Sull'ingresso c'è un forcone. Pensavo di usare quello, lo recuperiamo prima di aprire. Ora stai in silenzio, ci avviciniamo», Lazar continua a parlare sottovoce e a camminare con passo felpato. Una curiosità incandescente gli brucia nello sguardo, ed è percepibile perfino al buio, all'ombra degli alberi che oscurano ogni traccia della beffarda luna alta in cielo.

«Mi spieghi perché c'è un obitorio fuori da casa tua?», pensa che sia comunque molto strano, e preferisce chiederlo.

«Era della mia famiglia, ma il posto è scomodo, ed è inutile e inutilizzabile, perciò poi hanno costruito l'agenzia in paese. Al momento, è il mio laboratorio.»

«A che ti serve un laboratorio?»

«A passarci il tempo quando ne ho voglia.»

«Sì, va bene, ma intendevo...»

«Shhh!», la silenzia brusco Lazar, «se continui a fare domande ci sentiranno.»

E in effetti, ora qualcosa cambia. Dall'unica finestra presente dietro la struttura dalle pareti grigie e uniformi, con l'edera abbarbicata sulle facciate in maniera amorfa e invadente, anche la piccola luce presente e traballante si spegne, facendo piombare tutto nel buio e in un silenzio ossessivo, soffocato solo dal soffio lugubre del vento, instabile litania che addensa l'aria di perversa cupidigia.

Negli occhi allocroici di Lazar passano diverse emozioni, e quella più chiara nel buio è la certezza di essere stati scoperti. Deya apre appena le labbra per protestare, ma riesce a zittirla premendovi il palmo della mano sopra e trascinandola sull'altro lato della costruzione, al riparo della parete, stringendola contro di sé per mantenere il controllo di un fastidioso imprevisto.

Deya viene scombussolata dalla sua presa, dal calore istantaneo del corpo che le si spalma contro la schiena, dalle mani che le impediscono di parlare e la costringono in una morsa ferrigna. L'alcool rende la mente irrazionale, l'erba la fa viaggiare veloce e i pensieri ora scorrono come il sangue.

Alcuni rumori provengono dalla facciata frontale, dove i cardini vecchi della porta d'ingresso cigolano lugubri, segno che qualcuno ha aperto; poi, lo scricchiolio di alcuni passi fra le foglie secche, orme impresse sul terreno, fra il fango e il terriccio. Quello sarebbe un momento ottimo per saltare fuori allo scoperto e cogliere i furfanti con le mani nel sacco, ma Lazar continua a tenerla stretta e muta, le dita premute sulle sue labbra con il terrore che possa azzannarlo e mettersi a strillare, alimentando il pericolo.

Solo quando gli scricchiolii sono cessati Lazar lascia la presa. Deya balza distante da lui, si volta a guardarlo con gli occhi saturi d'ira. «Avevi ragione, c'era qualcuno, e te lo sei fatto scappare!»

«Se tu non avessi fatto tutto quel baccano saremmo riusciti a recuperare il forcone e coglierlo proprio con le mani nel sacco», puntualizza Lazar, infastidito da quell'accusa senza fondamento. Le dà le spalle, poco incline a continuare la discussione, e si avvia in direzione del fronte dell'obitorio, accendendo ora la torcia del suo telefono, poiché tanto sono andati via e si sono persi fra i ramoscelli secchi e i salici nel bosco. Si ferma a pochi passi dalla porta d'ingresso, ora socchiusa, abbandonata a metà, segno inequivocabile della presenza di qualcuno lì dentro. L'unico segno del suo passaggio, al di là della porta, è un'impronta lasciata nel fango. 

Lazar la illumina con la luce, attento a non calpestarla per non rovinarne i contorni. A occhio, si potrebbe intuire che chiunque sia stato lì ha un piede umano. Mette la sua scarpa a fianco, per paragonarla, e si rende conto che nell'orma ci sono almeno due o tre centimetri in meno rispetto al suo. Sembrano le impronte di un paio di grossi stivali adatti a camminare sulla neve – ma che di certo non passano inosservati nel fango.

Nel frattempo, Deya l'ha raggiunto e l'ha scrutato di sottecchi, in silenzio, studiandone il comportamento e cercando di decifrarlo, senza troppe complicazioni. È facile intuire dai suoi gesti cosa stia cercando di capire. Lo supera, spingendo la porta per avere accesso al vecchio obitorio, e lo illumina con la torcia. 

All'istante, un rancido odore di muffa e di chiuso le penetra nelle narici, dandole una lieve nausea. Poi, avverte subito l'odore ferruginoso del sangue, e l'immagine che le si para davanti è così raccapricciante da metterle a soqquadro le viscere. Le viene da vomitare.

Le pareti sono costellate da animali morti e impagliati. Gli occhi flaccidi, che andrebbero in decomposizione in fretta, liquefacendosi e divenendo cibo per vermi, sono sostituiti da sfere di vetro colorate in modo da sembrare veri. Il pelo, pulito e lucido, sembra ancora vivo. 

Indietreggia di un paio di passi, terrorizzata, con gli occhi che saettano in ogni direzione. Ci sono tre lettini al centro della stanza, e in alto una lampadina appesa a un filo, che si accende sfarfallando lugubre quando Lazar schiaccia l'interruttore al suo fianco, facendola sobbalzare.

«Non ti facevo così impressionabile», sembra che voglia calmare il suo infarto in corso, ma non ci riesce con quelle parole cariche di presa in giro. Cerca di sottolineare la sua debolezza, ma lei sa di non essere una debole.

«Sei stato tu?», la domanda è lecita, come qualunque quesito ponga all'altro, anche se non sempre vuole davvero conoscere le risposte.

«Sì, li ho impagliati io. Si chiama tassidermia, non è niente di strano. Non li ho uccisi, se è quello che vuoi sapere», Lazar ci tiene a chiarirlo subito. «Sono animali che ho trovato morti nei dintorni. Investiti dalle auto, morti di fame o di freddo... dipende. Sarebbero rimasti sull'asfalto a marcire, a divenire cibo per vermi... così ho trovato un hobby che mi consentisse di dargli una vita nuova.»

Quella spiegazione rende tutto più accettabile, ma comunque strano e inquietante. Una moltitudine di occhi la fissano vuoti, spettrali, inanimati. Di vetro. 

Dopo aver pronunciato quelle spiegazioni, Lazar avanza all'interno della stanza dalla forma rettangolare. A fianco al lettino centrale vi è un carrello metallico pieno di attrezzi non identificati, fra cui un paio di bisturi di diverse dimensioni e dalle lame affilate. Ci sono anche delle soluzioni liquide con delle strane scritte sopra, e un barattolo colmo di occhi vitrei e sferici.

«Perché qualcuno dovrebbe venire qui dentro, secondo te?»

«Domanda intelligente, devo riconoscerlo», mormora Lazar, «forse volevano rubare gli animali e rivenderli ai collezionisti», è la prima ipotesi che gli viene in mente, «oppure cercavano di rubarmi il materiale, non è tutto reperibile in paese.»

Deya gira in tondo, ispezionando l'ambiente circostante. Le sue pupille saettano lungo le pareti rivestite di muffe e scaffali pieni di prodotti e animali impagliati, immobili nel tempo, con il divieto categorico di putrefarsi e divenire concime sotto terra. Poi la sua attenzione viene catturata dalla finestra, dal suo davanzale. 

Ci si avvicina, attratta dalle goccioline tonde sul legno. Cinque mezze sfere vicine, e quando ci passa il polpastrello dell'indice si accorge che quello è sangue fresco, viene via al più lieve tocco.

«C'è del sangue qui», dice, illuminandosi la mano per mostrarla all'altro. Nel buio, le ombre li rendono lugubri entrambi, cupi come la notte. Sussurrano e indagano nel fruscio del vento, tentando di cogliere un segreto rimasto impresso nei ricordi del tempo e nient'altro. Ormai le risposte sembrano andate troppo lontane.

Lazar la segue fino alle tracce di rosso che macchiano il davanzale. In effetti, sembrano proprio causate da una ferita fresca; nulla di grave, o sarebbero di più.

Ispezionano a fondo la finestra, ma non trovano nient'altro, se non un filo blu rimasto incastrato allo spigolo del vetro. «Questo c'era già, prima?», chiede, ma Lazar scrolla le spalle: non sa proprio cosa rispondere. «Deve essere entrato dalla finestra, perché così nessuno poteva vederlo dalla strada. Forse si è ferito, e nel farlo ha lasciato tracce dei suoi pantaloni o della sua maglietta.»

Lazar è sorpreso da quelle intuizioni. Sono logiche, sensate, e non è una dinamica così improbabile. Non l'aveva neppure soppesata per un istante come possibilità.

«Eppure non capisco proprio perché qualcuno dovrebbe voler entrare qua...», qualunque parola o discorso apparirebbe inutile, perché per quella notte non avranno altre risposte, è chiaro. 

«Stanno succedendo cose parecchio strane, in questo periodo», Deya vorrebbe ritenerlo solo un sogno.

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