4. Messaggi dall'obitorio
"Non fare domande, e non ti verranno dette bugie."
- Charles Dickens
Le nuvole disegnano informi masse grigiastre sul cielo incupito dal crepuscolo. Gocce di pioggia sottili scendono sul mondo, danzano al confine fra la realtà e il sogno, si muovono come scosse da un vento silenzioso.
Deya guarda i disegni sulla tela senza astri con uno strano languore avvolto intorno allo stomaco, le caruncole riempite da cristalli di lacrime e pece, le guance infrante da acquerelli di miele, cascate di sale oltre le ciglia lionate. Neppure un tramonto speciale tanto da sembrare dipinto riesce a risollevare il suo umore da quella brusca frenata.
Non riesce a sostenere lo sguardo di Tiana, la sua coinquilina, e preferisce proiettare le pupille oltre i vetri della finestra. «L'hanno investito, quando l'ho trovato sull'asfalto ero così sconvolta che non ho voluto pensarci un secondo, ho chiamato un amico e sono andata a seppellirlo», ha un disperato bisogno che il suo alibi regga e che Tiana non lo trovi strano. Non sa come spiegarlo.
Deve già nascondere i suoi disturbi mentali per non venire guardata male; se venisse fuori anche quel segreto, se scoprissero del sangue che le macchia i polpastrelli e l'anima, non la guarderebbero più con la stessa pietà di adesso.
Iuri, cinico e disadattato, è seduto a tavola e aspetta che la cena sia pronta, senza aver mosso un dito per prepararla. «Era solo un gatto, fai bene a non farne una tragedia.»
Deya reprime le lacrime e le sembra una follia, una vera follia. Come può non condividere quel dolore?
Tiana, per fortuna, non è dello stesso avviso del suo fidanzato, e viene ad abbracciarla, inondandola del suo profumo di limoni, un aspro giallo – come il maglioncino che indossa – in contrasto con il blu del mare dipinto sui capelli con un po' di ricrescita scura al di sotto. La stringe in un abbraccio consolatorio, poco stritolante, di quelli che danno gli amici quando provano compassione per il tuo stato quasi catatonico, pur consapevoli di non poter fare granché con qualche pacca alla rinfusa sulla schiena.
Iuri, per niente toccato da quella scena, si passa le dita fra i capelli da accorciare, di un biondo pallido e riflesso d'oro. Ha un po' di occhiaie intorno alle sclere rosse, sempre inviperite dall'uso frequente di marijuana. Si alza da tavola e apre il fornetto, controllando al suo interno lo stato di cottura della pizza; sta morendo di fame. È sempre così quando fumi troppo: la fame chimica ti divora.
L'abbraccio si scioglie, Deya striscia con i piedi fino alla poltrona. Lei, al contrario, non ha voglia di cibo, e anzi sente lo stomaco chiuso, sigillato.
Avverte il cellulare vibrare all'interno della tasca della felpa, così lo recupera e sblocca lo schermo, asciugando le lacrime che cominciano a ritirarsi e schiarirle gli occhi corrotti dal pianto di un lutto. È morto un amico, un fedele compagno, un alleato contro il mondo... ed è strano che sia legato allo stesso istante in cui lei e Lazar hanno cominciato a camminare sulla stessa strada incendiata, costellata di rovi e rovine.
Una morte per una vita nuova, per un cambiamento.
Il messaggio di Lazar, poi, è ancora più strano. "Ehi, sono io. Hai da fare questa sera?"
Deya trova insolito quell'invito, inspiegabile. È evidente che voglia riscuotere ciò che gli spetta, ma sperava di ricevere prima almeno qualche indizio. Si sono visti quella mattina, e aveva fretta di tornare in agenzia – come se i morti fossero all'ordine del giorno, da quelle parti.
"No. Non ho nulla in programma", digita, pur rimanendo pensierosa. Non ha l'umore adatto per uscire, ma nemmeno quello adeguato per restare chiusa fra quattro pareti e impazzire, perdere il senno dietro alle lacrime e al sale.
Dopo una manciata di minuti, Lazar le scrive di nuovo. "Ti mando la posizione di casa mia. Vieni per le nove, va bene?"
Deya non è molto rassicurata da quella proposta, ma ancora qualcosa la spinge in una direzione che già sembra sbagliata in partenza. Sembra celare dentro di sé cristalli di puro masochismo. "Okay. Ci vengo."
E ci va per davvero. Prima fa una doccia, vuole essere carina, vuole profumare di fragole, poi mette a soqquadro l'armadio come una qualunque ragazza di fronte a un appuntamento immediato e non premeditato. Decide di indossare un vestito carino, di un grigio chiaro, poco elegante e dal taglio semplice, le fascia morbido i fianchi senza merletti e ghirigori. Si copre con la sciarpa, il giubbotto, le calze alte fino a poco più sopra del ginocchio, spruzza un po' di profumo e ricontrolla il trucco; non ha fatto nulla di esagerato, solo un po' di mascara, ed è pronta e graziosa di fronte allo specchio, con la sua solita carnagione pallida, quasi cadaverica, e i capelli neri appena spazzolati, in perfetto ordine attorno al volto, fino alle clavicole.
Però si piace, e prepararsi fa parte di uno strano processo mentale: si prende cura di se stessa, è quasi come darsi un abbraccio, e l'autostima sale un po', il riflesso nel vetro non sembra più triste e smorto come prima di mettersi in movimento, di lavorare per essere presentabile.
Prende l'auto e guida fino a raggiungere Lazar, seguendo il GPS. Si trova appena fuori paese, bisogna salire un altro po', e anche se dovrebbe essere abituata ai cambi d'altitudine le si tappano comunque le orecchie. Quando arriva, non ha tanti dubbi su quale sia l'abitazione giusta, perché non ce ne sono altre nei dintorni. È una piccola villa di mattoni grigi, il giardino è costellato di alberi secchi, vecchi ciliegi e mandorli che fioriscono, ma a causa delle temperature estreme non danno i frutti quando giunge l'estate.
Parcheggia l'auto e scende. C'è una telecamera affissa lì in alto, all'ingresso; la fissa torva, lugubre, e con la spia rossa accesa.
Pensa di mandargli un messaggio, ma poi decide di suonare il campanello. Sapeva che sarebbe arrivata, dunque non lo coglie impreparato. Dopo alcuni secondi e il suono di passi sul pavimento, la porta si apre, ma rivela al contrario di Lazar la figura di una donna adulta, con i capelli neri raccolti in una crocchia e un'espressione confusa sul volto.
«Buonasera, sono Deya, Lazar vive qui?», decide di presentarsi subito, chiarendo un eventuale fraintendimento, se ha sbagliato posto sapranno di certo indicarle la giusta direzione, eppure è strano che il GPS si sia sbagliato.
«Non pensavo che aspettasse visite. Conosci Karen?», quella domanda la coglie di sorpresa.
No, non ha idea di chi possa essere. Scuote il capo. «No. Io conosco solo Lazar, lui mi ha chiesto di venire.»
«Entra pure», la donna sembra crederle, dopo averla scrutata un attimo in più. Si sposta per facilitarle l'ingresso, e Deya non può che accorgersi che intercorre una certa somiglianza fra lei e l'altro: la stessa fossetta sul mento e i capelli neri come la notte più buia.
Dentro casa si sta bene, il fuoco scoppietta nel camino, di fronte a un tavolo sparecchiato; alcuni piatti sono immobili nel lavandino della cucina, in attesa di essere messi al loro posto.
«Ti accompagno di sopra. Lazar non riceve molte visite, perciò sono un po' sorpresa», confessa la donna, che ora assume i chiari contorni della madre, anche se ancora quel nome estraneo le ronza in testa.
Prima che possa replicare, però, Lazar compare di fronte alle due, ha appena finito di scendere le scale. «Sei arrivata», sembra stupito di vederla, come se non l'avesse invitata lui stesso.
Forse non era così ovvio che l'avrebbe assecondato, e Deya è felice di scombussolarlo un po', di essere quasi un imprevisto, e per un momento dimentica i dubbi.
Segue Lazar al piano di sopra, con lo stomaco in subbuglio, incapace di prevedere che piega prenderanno gli eventi. Si sente in balia del caos, ma perdere il controllo le piace.
La legna brucia nella stufa e vicino al tavolo della cucina c'è una poltrona piuttosto comoda. In corridoio, una serie di attestati sono stati appesi sulle pareti, ma non c'è tempo per sbirciare e capire di cosa si tratta. Lazar le offre da bere una birra scura, e Deya si chiede se sia davvero il caso di ubriacarsi. Non succede mai niente di buono, quando si ubriaca.
Eppure accetta e assaggia, il sapore amarognolo e speziato del luppolo le fa venire voglia di mandarne giù un altro sorso. In fondo è solo birra, per i principianti che non reggono qualche bicchierino di vodka.
Fuori si è alzato il vento, danza fra i rami mentre il cielo si sfuma di pioggia.
«A proposito del gatto e del buco che ho scavato mentre tu stavi ferma a guardare, la verità è che ho acconsentito alla tua richiesta assurda perché per risolvere un problema avevo proprio bisogno di una ragazza. E sei capitata tu. È stato tutto chiaro, una soluzione ovvia.»
Deya corruga le sopracciglia. Ora le sembra già che si sia attraversato davvero il confine della follia. La lucidità non sembra più intatta. «Non ho capito...»
Lui sospira, poi prende coraggio. «Dovevo far sospettare a mia madre di avere una ragazza», le rivela, e questo rende tutto fin troppo chiaro. «Il perché non ti riguarda, ma visto che non sembra dispiacerti la mia compagnia, potresti essere la soluzione al problema.»
Deya lo guarda con il volto inclinato, poggiato sul palmo della mano, l'espressione accigliata e confusa. «Non credo che mentire sia una soluzione. Raccontare bugie non è mai una buona idea.»
Però non si tira indietro, non rifiuta.
In fondo, Lazar sa che in Deya brilla una luce diversa.
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