26. Ti mangerà un pezzo alla volta
"Tutti gli psicopatici tengono dei trofei delle loro vittime."
"Io no."
"Lei se le mangiava, dottore!"
Il silenzio degli innocenti
Odore di alcool.
È la prima cosa che avverte con l'olfatto appena mette piede dentro casa. Sono più di ventiquattro ore che ha lasciato la sua dimora abituale, ma la piccola pausa dal solito mondo è finita, la normalità è informe e spaventosa. Ha il sapore del mal di testa che ancora le fa pulsare le tempie. L'emicrania è un male devastante e non riesce a liberarsene.
C'è un elemento che stona: la macchina di Iuri, fuori, non c'è. E Deya spera che ciò voglia dire che ha già preso le sue cose ed è andato via.
Ripensa alle fiamme, un ricordo di poco prima che emerge senza controllo. Hanno chiamato i vigili del fuoco, ma ormai la terra era secca, bruciata, arida. Le tombe rovinate da macchie di cenere, il marmo bianco sovrastato da sfumature nere come la notte.
C'era una buca, ma distante. Un fosso stonato e senza alcun senso. Vicino al punto in cui, tempo prima, hanno seppellito il gatto. Nient'altro di degno di nota, almeno pare.
Lazar sa qualcosa, ma non lo dice.
Deya è stanca di insistere, di indagare, di provare a capire le cose. Più ci pensa, più il mal di testa la assale. Più ci pensa, più Lazar sembra in qualche modo colpevole.
Più ci pensa, più non ricorda la fiaba di cui si parlava in città.
Il dolore alle tempie sovrasta ogni memoria, ogni pensiero.
In giro nota un paio di bottiglie di birra vuote, altre sembrano appartenere a vini scadenti bevuti fino all'ultima goccia da gole avide di felicità alcolica, lacrime di afrodisiaco piacere.
Poi anche il suo udito richiama attenzione. Avverte il mormorio di un pianto sommesso, di uno sfogo contro il cuscino col muco che cola e si mischia al sale.
Tiana, sdraiata sul letto, piange e ha gli occhi blu circondati dal rosso delle vene esplose, quasi avesse fumato una, due o forse decine di canne. Si asciuga le guance umide e che brillano, illuminate appena dalla lampadina appesa sopra alle loro teste, usa la manica della felpa per strofinarsi il naso.
«Pensavo che non saresti più tornata...», è disperata, trascinante, e la attrae in un turbinio di sensazioni negative, tristezza sottopelle capace di incidere gli organi come un bisturi affilato. Dolore di ossa spezzate, rotte, e poi di lividi.
Il cuore ha smesso di battere, almeno così sembra; Tiana non lo sente. Lo percepisce ridotto in poltiglia, rotto come un vaso che si è disintegrato in cocci e nessuno ha più un ricordo della sua forma originale per poterlo ricostruire pezzo dopo pezzo senza modificarlo per sempre. La sua anima non sarà mai più la stessa dopo una ferita del genere.
Perdere chi ami è come lasciarsi amputare un braccio, un braccio essenziale per vivere, che rende l'esistenza più semplice. Senza quel braccio puoi sopravvivere, puoi imparare nuovi modi di fare le cose, ma non tornerai mai più quello di prima, e non sarà facile. Sarà una partita a scacchi giocata contro un avversario apatico, impassibile, strategico e per nulla impulsivo. Una partita persa dapprincipio, dalle prime pedine mosse sui quadrati bianchi e neri.
«Ti ho detto che non me ne vado, e non lo faccio», tenta di rassicurarla, sebbene sia sconvolta dal suo stato. Non l'ha mai vista così.
Si trascina vicino a lei per abbracciarla, per farle sentire che è presente, non andrà via, non le farà del male.
Tiana si avvinghia alle sue spalle come se avesse ora di fronte la salvezza, come se la fragile e deviata Deya potesse essere in grado di colmare i vuoti dentro il cuore, i buchi neri fra le emozioni.
Le piange contro i vestiti fino a imbrattarli di trucco sbavato e lacrime, e Deya le carezza la schiena con la gentilezza di una morbida piuma.
Dovrebbe essere l'ora di cena, dovrebbero mettere innanzitutto qualcosa sotto ai denti, ma non sa se sia una buona idea quella di spronare Tiana a tornare a una vita normale. È così devastata che le viene da domandarsi se abbia pranzato quel giorno, se si sia alzata dal letto almeno una volta per bere e non solo per andare in bagno, da quando Iuri è andato via.
Deya si rende conto che quella non è una reazione normale.
Però l'amore fa male, ed è un dato di fatto. Una ferita aperta e infetta che brucia senza sosta, come un accendino a fiamma ossidrica puntato sulla pelle e pronto a ustionarla senza fine, sempre piano, per rendere la sofferenza sempre più intensa, viscerale, profonda. Presente a un livello tanto lontano da essere irraggiungibile da qualunque parola umana, da qualsiasi carezza di conforto e di supporto.
«Facciamo così», dice allora, «ora ordinerò due pizze buonissime, e nessuna delle due dovrà cucinare né lavare i piatti. Poi ci beviamo qualche birra e se ti va mi racconti com'è andata, altrimenti ci ubriachiamo, mettiamo un po' di musica e ci ricordiamo come si sta bene senza maschi fra le scatole», le propone, caricando le sue frasi di un entusiasmo un po' finto, eppure credibile. E poi ha bisogno di distrarsi dal mal di testa.
Colpa del viaggio, si dice. Sono stati in auto troppo a lungo, e le temperature le hanno ingarbugliato i nervi delle spalle, tesi come corde di violino.
Tiana tira su col naso. «Sì, va bene, non posso continuare a piangermi addosso, e non ho mangiato niente oggi.»
Deya la guarda asciugarsi le lacrime, le sorride per incoraggiarla. Ora non è da sola, ora sono in due, e la porta all'ingresso è chiusa, ben sigillata. Nessuno può fare loro del male, anche se c'è un assassino a piede libero in giro per la città.
La pizza arriva in orario – in fondo, sono anche troppo pochi in paese, e di sicuro le consegne non sono così numerose da occupargli troppo tempo, infatti mezz'ora dopo sono già a tavola.
Tiana ha gli occhi stanchi e tristi, sempre azzurri e sempre arrossati, ma ha smesso di singhiozzare e di tirare su col naso. Appare spenta, vuota, poco propensa al dialogo, e proprio perché non ha tanta voglia di raccontarsi preferisce lasciar parlare l'altra.
«Com'è andata con il tuo ragazzo? Che avete fatto di bello?», le chiede, ha bisogno di pensare a tutt'altro, di lasciarsi trasportare altrove.
Non trova sia una buona idea dirle la verità. Si fida di lei, ma non è il momento di aggiungere alla loro pietosa esistenza anche la presenza di un assassino in paese. Finché Tiana non se ne accorge, forse è meglio che non sappia. E, comunque, quello non è proprio il momento per tirare in ballo l'argomento.
«La nonna di Lazar si è trasferita da qualche anno e ancora non aveva riportato a casa un set di tazzine a cui era affezionata, così gliel'abbiamo portato noi, poi il tempo è peggiorato e siamo rimasti lì a dormire. Lazar si annoiava all'idea di un viaggio da solo, quindi mi ha invitata ad andare con lui, e in effetti ha guidato per un bel po'...», cerca di distrarla, pur non entrando troppo nei dettagli, finirebbe per attorcigliarsi fra realtà e menzogna. «Sua nonna vive in un posto molto bello, magari un giorno ci andiamo tutti insieme, te lo faccio vedere», aggiunge poi, quando la conversazione cala nel silenzio.
Tiana sembra lontana, non la sta più ascoltando.
Finiscono di cenare in silenzio, con la televisione che crea un brusio di sottofondo.
Deya stappa due birre, e non la costringe a un brindisi perché non c'è molto da festeggiare – anche se lei vorrebbe esultare per il trasferimento di Iuri, ma non le sembra proprio il caso di dirlo, mancherebbe di tatto ed empatia.
Perciò le racconta dei posti che ha visto e spera di distrarla, di condurla con mano in un'immagine precisa e piena di verde, qualcosa per cui valga ancora la pena vivere.
Le bottiglie si svuotano, le teste sono più leggere e la musica risuona nell'aria finché non arriva l'ennesimo sbadiglio. Ormai sono stravaccate sul divano, quasi incapaci di arrivare fino in camera per dormire, e approfittano dell'ennesimo sospiro assonnato di Tiana per salire al piano di sopra, quello con le camere da letto.
Si alzano in piedi, si dividono in corridoio – ognuno nella sua stanza, e Deya trova quasi assurdo che Tiana non abbia avanzato la richiesta di dormire assieme, ma preferisce che sia andata così, non se la sente di trascorrerci un'altra notte avvinghiata in una stretta che non la lascia respirare.
Il sonno l'accoglie presto e a braccia spalancate, la soffoca in una morsa di lenzuola profumate e morbidi piumoni color cipria. Il capo dolorante sprofonda in un cuscino fresco e accogliente, quello su cui è abituata a poggiare la testa per sprofondare nel buio degli incubi.
Chiude gli occhi, e quando le sembra di riaprirli tutto è cambiato. Non è più nella sua camera, ma è da Lazar, in piedi. Lo sta aspettando, immobile come una statua di marmo, con la pelle gelida e i brividi che strisciano da una parte all'altra dell'esile corpo in attesa.
Poi, il suo finto fidanzato la raggiunge, e fra le mani stringe un nastro blu come il cielo, blu come il mare profondo, come una notte senza stelle e senza luci. Un filo rubato al cielo e ora incastonato fra dite lunghe e affusolate, dalle unghie corte e tagliate con attenzione, cosparse di cicatrici per quella dannata stufa che lo brucia sempre e gli screpola la pelle, la tinge di un rosa sofferente.
«Lazar? Che fai?», aggrotta le sopracciglia, la confusione dipinta sul volto.
«Ho un regalo per te», le sussurra con voce fievole, quasi carezzevole, dal tono mellifluo e con un sorriso istrionico fra gli estremi del volto. Solleva le mani sulla testa di Deya, e le poggia quel nastro fra i capelli, glielo lega con un fiocchetto sulla nuca, incorniciandole il volto dolce di azzurro.
Ricorda le parole, ricorda cosa vuol dire quel nastro, ricorda che delimita un confine. Se qualcuno toccherà il nastro blu verrà ucciso, lo dice la fiaba che non è una fiaba.
Non riesce a ricordare dove l'ha sentito, ma non c'è tempo per riflettere.
Lazar le pianta un coltello dritto nel cuore, scavalcando ossa e muscoli, pelle e sangue che ora gocciola e gli macchia le mani, poi il pavimento. Rosso che scorre, che imbratta, che si mescola agli indumenti e piange come lacrime da ferite profonde. Rigira la lama fra le viscere di Deya, spingendola verso il basso, e mentre si apre una ferita si apre anche la bocca di lei, che ora sputa flussi vermigli, vomita un fiotto scarlatto e grumoso. La saliva piange in filamenti traslucidi, quasi la tela di un ragno.
Lazar sorride, ancora. Crudele e spietato come il diavolo, affascinante come Lucifero prima della sua caduta irreversibile. Splendido tanto da far male, inquietante come un mostro senza forma, tutto sporco di amaranto, tutto immerso nel peccato di un omicidio brutale.
«L'uomo nero verrà a prenderti», le sussurra vicino all'orecchio, mentre si spegne fra le sue braccia. «E ti mangerà un pezzo alla volta.»
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