24. L'albero di Giuda
"A quel dinanzi il mordere era nulla.
verso il graffiar, che tal volta la schiena
rimanea della pelle tutta brulla.
"Quell'anima lassù che ha maggior pena",
disse il Maestro, "è Giuda Scariotto,
che il capo ha dentro e fuor le gambe mena."
Dante Alighieri - Inferno - Canto XXXIV
Lazar ha i capelli scompigliati, mossi in intrecci di nodi e vento freddo oltre gli spifferi, avverte una distanza incolmabile fra i due corpi distanti.
Deya si riveste di fretta, con le guance rosse e una vergogna che ora precipita, seppur prima fosse estinta, o inesistente. L'intimo in seta rosa che risale lungo le cosce in una carezza di morbida stoffa, poi i pantaloni e la maglia ora sporca di polvere, adagiata sul pavimento che non viene lavato da troppo tempo. Scaccia via i granelli con i palmi e qualche colpetto leggero.
«Se tu fossi un albero saresti un siliquastro», mormora Lazar, con le mani dietro la testa, i gomiti che toccano i lati della bara in cui ancora giace, e una gamba a penzoloni fuori, per assicurarsi che non venga rinchiuso lì dentro un'altra volta, per essere certo di non rimanere al buio.
Inclina il capo nella sua direzione per guardarlo, l'aria interrogativa.
«L'albero di Giuda. Ha i fiori rosa», allunga un braccio fino alle caviglie, si tira su i pantaloni e cerca le sigarette nelle tasche. Il pacchetto è sgualcito, malmesso, e nella foga dell'amplesso un paio di bacchette di cartina e tabacco sono andate in frantumi. Per fortuna, pare che qualcuna sia ancora rimasta intatta, e può condurla fra le labbra ora secche, prosciugate dalla saliva e dalla fatica di un coito fin troppo sentito a livello emotivo, sebbene non voglia dimostrarlo e preferisca nascondersi dietro parole enigmatiche e scherni che filtrano verità malcelate, soffi su ferite fresche e infette.
Deya non risponde, ma si volta per rubargli un bacio. Veloce e falso, bugiardo e meschino. Come farebbe Giuda dopo aver raccontato la sua menzogna.
Ma quante bugie ha interposto fra di loro?
Quante verità ha omesso, fra fiori rosa e germogli di dolore?
In fondo Lazar è il marchio di una sigaretta, un cerchio latteo come la larva di una nuova ape regina, pronta a nascere e dare altra vita, rinchiusa nella sua cella d'oro dopo l'abbandono di una famiglia diventata troppo grande.
Cicatrici che si ramificano, si espandono in macchie amorfe. Tagli che non si risanano.
Ago, filo e un gioco di frammenti di pelle, di cristalli di sangue coagulato.
«Oggi rimango con te in agenzia, non voglio tornare a casa», decide, senza chiedergli il permesso, invitandosi con prepotenza nella sua giornata.
«Perché?», non glielo vieta, ma si domanda quale motivazione ci sia dietro.
«Perché sì, fatti gli affari tuoi», non vuole dare spiegazioni.
♱
La televisione non funziona.
Lazar sta lavorando – cosa ci sia di tanto importante da fare in un'agenzia funebre situata in un luogo tanto morto è un mistero – e ha lasciato Deya in un piccolo scantinato, una stanza a fianco a quella in cui lui lavora su fogli bianchi e scartoffie piene di noiosa burocrazia, con una televisione vecchia, un catorcio che funziona solo se gli si tira qualche colpo sopra. Ha inserito una videocassetta anacronistica e antica, un film horror – Nosferatu, il principe della notte. Non l'ha mai visto, e dura troppo. Ci sono scene lunghissime, fotografie spettacolari della Transilvania e riprese geniali per l'epoca, però lunghe fino a far venire l'esaurimento nervoso. In fondo è un bel film, le fa venire gli occhi lucidi in alcuni punti, e la fa innervosire quando deve alzarsi dal divano per tirare un colpo allo schermo e sperare che spariscano quella serie di linee e frammenti di uno specchio rotto.
Lazar dovrebbe comprarsi una nuova televisione.
E passare ai DVD, magari.
Il film termina. Rimane ferma e in silenzio, immobile di fronte allo schermo, concentrata a razionalizzare ciò che ha visto. Un film horror – no, dai, forse più un film gotico, dove la paura si intreccia a un turbine di sentimenti sempiterni, incastrati in un tempo lungo e immortale. Di quelli strani, angoscianti, capaci di sconquassare l'anima fino a ridurla a un'ampolla colma di lacrime.
Si asciuga le guance, turbata e tremolante, e con le maniche del maglione raccoglie l'umidità condensata sul volto che ha incastonato due sclere bianche come neve, rosse sanguigno che si ramifica ai lati e tinge le caruncole come vino rosato.
Poi, la televisione emette un rumore strano, un suono dicotomico e instabile, elettronico; come se qualcosa si stesse fondendo al suo interno, come se un animale bramasse di uscire da quel quadrato nero, come se una forza invisibile la stesse trascinando verso di sé, dentro lo specchio, dietro una realtà che forse non è tale. Strizza le palpebre, assottiglia lo sguardo, si sporge oltre il divano per guardare più da vicino, per udirne meglio i suoni confusi. Per un istante, lo schermo sembra ingigantirsi e inghiottirla, renderla parte di sé.
Poi tutto finisce, veloce com'è iniziato. Non rimane niente, solo il soffio del vento fuori, orgoglioso e arrabbiato come sempre, e lo scricchiolio della penna sul foglio di Lazar, oltre la porta – e ancora, quasi può sentire il suono del suo respiro, di ogni battito del cuore rapsodico quando si trova di fronte a un dettaglio incomprensibile, a una parola mal scritta, a una bega di quelle noiose e petulanti. Quasi può percepire il ticchettio di un orologio che lo anima di vita umana, quasi può avvertire la melodia del sangue che scorre sottopelle, che genera altra vita.
Suda freddo, e deve passarsi le mani sul volto per ritrovare la lucidità, per sentir sfumare i troppi dettagli che si incastrano male, si aggrappano uno all'altro e non le lasciano via di scampo né zone di luce per capirci qualcosa.
Si alza in piedi e raggiunge la porta, esce, se la chiude alle spalle. Ormai sono trascorse almeno due ore dall'inizio del film, e presume che nel mentre Lazar si sia liberato dei suoi impicci. Lo trova piegato in avanti sulla scrivania, concentrato, i capelli scompigliati e gli occhi di chi ha bisogno di un minimo di riposo – o, almeno, questo è ciò che vuole leggerci, stanca di stare da sola.
Gli si siede di fronte, sulla sedia che di solito occupano i clienti.
«Beh? Hai finito? Facciamo qualcosa di divertente?»
«Ti è piaciuto il film?», le chiede, distogliendo lo sguardo dalle sue scartoffie e richiudendo i fogli su cui sta lavorando.
«Sì, abbastanza, era un po' lento e vecchio, ma non era male. Ci sono film moderni che a confronto fanno davvero schifo. Però dovresti comprare una televisione nuova», rabbrividisce al ricordo dei suoni dentro l'aggeggio elettronico, e così decide di pensare ad altro, di sorvolare su quella follia – in fondo, non è la prima volta che la sua mente le gioca strani scherzi, e finché rifiuta di vedere la psicologa e di prendere farmaci non pensa che accenneranno ad andarsene.
E non vuole più sentirsi vuota per colpa degli psicofarmaci. Non vuole più sentirsi un cadavere, uno spettro invisibile e morto.
La follia è vita.
È meglio essere matti che apatici, vuoti, morti.
«Nessuno la usa mai. I miei genitori avevano creato quella stanza, quando ero bambino, per tenermi fra i piedi mentre erano qui in agenzia. Per la verità non mi volevano davvero fra i piedi, quindi stavo lì dentro a guardare film a ripetizione», scrolla le spalle, come se volesse allontanare via quelle memorie, seppur non troppo infelici.
«Che fine ha fatto tuo padre?», pone una domanda indelicata e se ne rende conto appena ha finito di pronunciarla. Si morde le labbra, consapevole di aver appena creato un danno.
Lazar, però, mantiene la calma, pur evitando la domanda. «Ci sono cose di cui non si parla. Ci sono cose che devono rimanere nostre e basta.»
Deya, a disagio, e consapevole di essere stata tutt'altro che delicata, abbassa la testa e si tortura le unghie. «Hai ragione, scusa», mormora.
«Io invece mi chiedevo perché sei venuta a vivere qui. Non ci sei sempre stata», Lazar prova a mandare avanti la loro conversazione, sperando di non finire in un campo minato a farsi esplodere tutti gli arti.
«No, infatti. Ho dovuto cambiarla e ho preferito un posto silenzioso, isolato», tenta di mantenere la calma: in fondo si merita una contro risposta di quel tipo, dopo aver azzardato una domanda così invadente. Prende un respiro profondo. «La verità è che in città avevano una pessima idea di me. Girava un video in cui ero ubriaca, a una festa. Ho provato a farlo eliminare, ma ormai ne erano state fatte delle copie, e alla fine ho capito che l'unica soluzione era andare via, vivere dove nessuno sa niente della persona che ero prima. Creare una nuova vita, insomma.»
«Non voglio sapere cosa c'è nel video», la ferma. Sta per dire qualcosa, ma il suo cellulare comincia a squillare. Il suo viso sembra illuminarsi quando legge il nome sullo schermo, tanto che Deya avverte quasi un sibilo latente di gelosia, un irrequieto spasmo al cuore.
«Ciao, nonna, sono felice di sentirti», poi i saluti di Lazar bastano a placare ogni forma di paranoia.
Si sposta a parlare al telefono nella stanza con le bare, e Deya rimane seduta di fronte alla scrivania a girarsi i pollici. Controlla il suo telefono, e lo stomaco le si ribalta quando vede che ci sono delle notifiche da parte di Tiana.
"Buongiorno, non ti ho sentita uscire. Stavo pensando di cacciare Iuri, stasera, ma non me la sento di farlo da sola, ho paura che la prenda male. Potresti aiutarmi?"
Dopo ciò che è successo, non ha molta voglia di vederla, ma non può lasciarla da sola, e fa bene a temere che Iuri possa farle del male – l'ha già fatto, in fondo. La seconda volta sarà solo più semplice della prima.
Digita una risposta veloce. "Va bene. Torno stasera."
Lazar esce dalla stanza lì vicino, posa il suo cellulare sulla scrivania. «Devo andare in città a trovare mia nonna, devo portarle alcune cose che le servono. E capita a pennello, perché volevo farle alcune domande, ho dei dubbi riguardo agli omicidi che solo una veterana di questo posto potrebbe risolvere.»
Deya corruga le sopracciglia. «Pensi che tua nonna, che non vive neanche qui, ne possa sapere più di noi e dei giornali che hai ritrovato e letto?»
«Lei ha vissuto qui per tutta la vita. Si è trasferita quando è morto il nonno, c'erano troppi ricordi qui, ed è andata a vivere vicino ai miei zii. Qui, a parte me e mia madre, non aveva nessun altro. Si sono trasferiti tutti, solo io e mia madre siamo rimasti.»
«Posso chiederti il perché o anche questa è una domanda troppo invadente?», lo punzecchia, tentando di prendere con leggerezza la situazione.
«Perché il lavoro andava bene, perché non volevamo lasciare qui tutto come ha fatto lei. E perché in fondo questa è casa nostra, anche se le cose non sempre vanno bene. A me piace vivere qui. Anche tu ti ci sei trasferita per questo: qui c'è silenzio. A parte il vento.»
«Sì, è vero, non è poi così male... omicidi a parte», sospira, s'incupisce ogni volta che la sua mente ritorna a quei problemi.
«Vuoi venire con me in città? Il viaggio sarà meno noioso in due.»
Pensa che torneranno di sicuro prima di cena, in tempo per chiarire la questione con Tiana e Iuri, e nel frattempo avrà modo di distrarsi a sufficienza. Perciò annuisce. «Va bene, vengo con te.»
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