23. La bara

"Il sesso è l'arte di controllare la mancanza di controllo."
Paulo Coelho


Il sole filtra con dolcezza oltre le tende, tiepido come un abbraccio quando si ricerca con bisogno. Il corpo di Tiana è appiccicato a quello di Deya, una mano se la stringe contro, sembra quasi temere con terrore di vederla fuggire da un momento all'altro, è come se avesse paura di saperla sveglia e sentirla sgusciare via dal letto, come farebbe l'amante di una notte e poi nient'altro, chi ricerca un divertimento di qualche ora per poi sprofondare nell'indifferenza e in un silenzio privo perfino di saluti.

Guarda il soffitto bianco e si sente fuori dal suo corpo, non percepisce la viscida stretta che la tiene ancorata al materasso, non sente niente, a parte un brusio lontano e ovattato che copre il rumore del vento leggero, un lamento che danza fra gli alberi e le foglie rimaste appese ai rami come equilibristi su una fune spessa.

Poi Tiana, nel sonno, si agita appena, e le volta le spalle senza rendersene conto. Quello è il momento in cui Deya può fuggire, sottrarsi alle braccia tentacolate che la tenevano arpionata al cuscino. Scende dal letto senza fare rumore, recupera i vestiti del giorno prima, abbandonati su una sedia in disordine, e va a indossarli fuori, cercando di non fare produrre alcun suono che possa destare i suoi coinquilini dal sonno. Sposta gli occhi sull'orologio appeso in cucina, sopra il camino spento ma non ripulito dalla cenere e dalle braci roventi ora estinte, le lancette segnano le otto e un quarto. L'agenzia funebre a quell'ora dovrebbe essere già aperta.

Non ha voglia di fare colazione, anche se ne avrebbe bisogno. Gli zuccheri, come Lazar le ripete sempre, restituiscono le energie e il buon umore.

Ha il terrore di fare rumore e trovarsi Tiana di fronte, e non può sostenere una conversazione a quell'ora, soprattutto ha bisogno di riflettere prima di giungere a conclusioni affrettate.

Si rende conto, specchiandosi sul vetro della finestra, di aver bisogno di una doccia, e quindi opta per il bagno al piano di sotto e si lascia scorrere l'acqua bollente addosso, sperando possa disinfettarla dalla confusione.

La fa stare meglio, ma non sana i tormenti impressi nella sua psiche, e mentre si asciuga realizza che deve davvero vedere Lazar e farlo subito, ha bisogno di tornare alla normalità – o quasi – della sera prima.

Non sta bene. L'idea che trascorrere quel momento con Tiana le sia piaciuto l'ha scompigliata, e ora ricerca la chiarezza nelle poche certezze che le appartenevano.

Non le piacciono le ragazze. Non vorrebbe una relazione con Tiana, ed è lecito, nessuno può imporle dei rapporti interpersonali, solo lei può stabilire con chi trascorrere le notti e chi può sostare in mezzo alle sue cosce, solo lei ha il diritto di decidere chi può darle piacere.

Era solo ubriaca, e i preliminari piacciono a tutti, no?

Poco più tardi, l'agenzia funebre si staglia maestosa contro un manto azzurro ora nuvolo, grosse macchie di zucchero filato andato a male, cariche del grigiore insito al pianto del cielo.

I gargoyle all'ingresso, minacciosi, la guardano coi ghigni distorti e i denti aguzzi affilati, fauci pronte a sbranarla, se solo potessero prendere vita. L'erba andrebbe falciata, ma a quanto pare il proprietario di quel posto non ne ha voglia, né vuole chiamare un giardiniere e pagarlo per quel compito, con la conseguenza che avanza nel verde e spera di non portarsi dietro qualche zecca attaccata ai vestiti o, peggio, alla pelle.

Bussa contro il legno, convinta che verrà aperta la porta da lì a poco, ma nessun rumore di passi l'accoglie, e ciò le fa corrucciare la fronte in un'espressione confusa. Controlla l'ora sul cellulare, sono le nove del mattino, perché non c'è nessuno?

Lazar non fa mai tardi a lavoro, e non salta un giorno neppure quando c'è il sospetto di una giornata buttata a fissare le ragnatele agli angoli della stanza all'ingresso.

Con l'ansia che striscia sottopelle, si affretta a chiamare al suo numero, timorosa che possa non rispondere.

Viste tutte le morti insolite degli ultimi tempi, non ci sarebbe da stupirsi se qualcuno l'avesse catturato e tagliato in tanti pezzetti per poi rinchiuderlo dentro il tronco di un albero caduto nella foresta.

L'idea le mette i brividi, un velo di lacrime e preoccupazione incupisce le iridi scure, inviperisce le sclere lattee. Poi, dopo una serie di squilli incessanti e insistenti, la chiamata viene accettata.

Dall'altro lato, lui risponde col tono di voce stravolto dal sonno. «Buongiorno.»

«Perché non sei in agenzia?», non si perde in chiacchiere e convenevoli.

Seguono un paio d'istanti di silenzio. «Merda, è tardissimo», lo sente imprecare, poi una serie di rumori e cigolii, segno che si è appena alzato dal letto di fretta. «Hai fatto bene a chiamarmi, non ho sentito la sveglia, stanotte ho avuto da fare. Ora arrivo, dammi mezz'ora al massimo, se viene qualcuno digli di tornare fra un po'.»

Riattacca, e la lascia sommersa dai dubbi.

Cosa ha fatto la notte prima?

La risposta a quella domanda, però, tarderà un po' ad arrivare.

Quando l'altro parcheggia la sua vecchia auto nera di fronte all'agenzia, oltre i mostri alati che danno il benvenuto all'inferno, ha gli occhiali da sole e l'aria di chi non ha dormito molto bene.

«Strano che tu abbia fatto così tardi.»

Infila la chiave nella toppa e la fa girare nella serratura. «Te l'ho detto, avevo da fare ieri sera.»

Non sembra volerle fornire altre spiegazioni.

«Capisco», decide di non indagare oltre, perché al momento ha dei dilemmi più importanti da risolvere, questioni che la riguardano in prima persona, ancor più degli omicidi, perché quando un dubbio risale fino alla coscienza non c'è modo di mandarlo via, se non chiarificandolo o sopprimendolo con altre certezze.

E in fondo, in tutto quel gran caos che è l'esistenza umana, Lazar è una delle sue poche certezze, e ha il sapore del miele e delle bugie.

«Che ci fai qui?», la lascia entrare dentro e richiude la porta alle loro spalle. «L'orario è insolito.»

«Ho un favore da chiederti, per quella storia del finto fidanzamento...», comincia, ma è difficile mettere in fila le parole quando la richiesta è così imbarazzante che si fa fatica a pronunciarla.

«Un'altra festa a cui devo presenziare in veste di fidanzato?»

Scuote il capo. «No, ormai ho già dimostrato che esisti, e tanto penso che Iuri non durerà molto dentro casa», rivela, quasi sovrappensiero, e s'incupisce in volto quando riemergono i chiari ricordi della notte appena trascorsa, le viscere si accartocciano su se stesse, si aggrovigliano in una matassa di nodi stretti, quasi come se un marinaio le stesse intrecciando le interiora.

Fa un respiro profondo, poi si sbilancia in avanti, gli getta le mani intorno al collo, gli rapisce le labbra in un bacio che sa di dentifricio alla menta. 

Lazar rimane impietrito, sobrio e confuso. Mantiene gli occhi aperti, il corpo immobile, la mente arrovellata da dubbi che vorticano in spirali concentriche.

Poi la scosta con delicatezza. «Perché?», il contatto fisico lo ricercano solo da sbronzi, mai senza gocce di alcool che scorrono tiepide nelle vene.

«Perché ho bisogno di affetto e tu puoi darmelo», mormora, in bilico fra la realtà e la menzogna. Non può certo dirgli che la sua coinquilina le ha fatto delle cose, quella notte, e ora si sente confusa e deve ritrovare delle certezze.

E quel bacio, difatti, non le dispiace, tanto che cerca ancora i suoi capelli con le dita, li intreccia sulla nuca, poi sopprime il respiro dell'altro in una morsa di denti e labbra, saliva e lividi che diventano borgogna, ma sotto la pelle. Scende con le mani fino all'altezza della cintura, la slaccia di fretta, col fiato corto e il cuore che batte troppo forte. E in qualche astruso modo ormai è riuscita a coinvolgere anche Lazar, che non sembra intenzionato a tirarsi indietro, e semmai le infila la lingua in gola e scende con i polsi a tirarsela più vicina, ora ubriaco del suo profumo e non di svariati bicchieri di vodka.

Poi, il baluginio di un'idea malsana, e un sorriso che si stira sulla bocca screpolata dal freddo. «Potrebbe entrare qualcuno, andiamo di là», la trascina oltre la porta dietro la scrivania sormontata di oggetti inutili, fogli e penne dall'inchiostro esaurito, ma che non ha mai voglia di gettare nel cestino, quasi speranzoso che possano tornare a funzionare.

La conduce in una stanza asettica, dalle pareti bianche – intaccate da macchie lievi di muffe mutanti che si abbarbicano sulle facciate fino agli angoli cosparsi di ragnatele mangia-insetti. Appoggiate ai muri, in posizione verticale, ci sono svariate bare vuote, inquietanti come vergini di Norimberga, imponenti e altezzose; li fissano quasi sibilando che un giorno anche loro dovranno giacerci dentro – ammesso che siano furbi a sufficienza da scampare al pericolo incombente che ormai ha puntato le loro teste con una grossa falce a mezzaluna.

In quella stanza l'amore e la morte si mescolano, si intrecciano come rovi spinati e rose scarlatte. 

Un'unica bara è posta al centro della camera bianca, su un rialzo di marmo. La apre e si inumidisce le labbra, Deya ha già compreso la sua idea malsana e non ha intenzione di tirarsi indietro – in fondo, un delirio condiviso è più rassicurante di impazzire in solitudine, e forse quella fantasia malsana ora stuzzica la sua curiosità fino a farle pulsare qualcosa proprio in mezzo alle cosce.

«Puoi tirarti indietro, se ti sembra troppo macabro», soffia Lazar, in un impeto quasi irreale di empatia. Forse ancora crede che lei possa spaventarsi e sottrarsi al caos che li trascinerà in un turbine di sfrenata lussuria.

Deya non sembra neanche ascoltarlo, ma non entra nella bara. Semmai ci spinge l'altro, lasciandolo appoggiare con la schiena contro il legno gelido. Per il tonfo e la fretta, il coperchio si chiude, e pensa che sarebbe quasi divertente lasciarlo lì dentro, sentirlo agitarsi, privarsi dell'aria attimo dopo attimo, fino a impazzire nel terrore.

Tentenna per qualche istante, poi però solleva il coperchio. «Volevo farti spaventare un po'», mormora fra gli estremi di un sorriso pregno di malizia, poi si abbassa i pantaloni e le mutandine rosa fino alle caviglie, li rimuove insieme alle scarpe, ma conserva i calzini per non sporcarsi di polvere al contatto col pavimento che non viene lavato da un bel po'.

Gli circonda il bacino con le cosce, poi cerca le sue labbra, scende a morderlo sul collo e a lasciargli ematomi violacei come veleno – perché l'amore, in fondo, sa proprio di questo. Tracce di possesso e desiderio su uno sfondo bianco, quasi un pittore con in mano una tavolozza dai colori oscuri, quasi Goya alle prese con l'ennesima opera macabra.

Gli toglie la felpa nera, poi la maglietta sottostante, e procede a sfilarsi i vestiti dalla parte superiore, fino a rimanere in reggiseno. Si morde il labbro inferiore e le pupille di Lazar la guardano con desiderio, colgono i dettagli, inseguono la punta della lingua rosa con un brillio torbido e malsano nelle sclere bianche, poi scendono a osservarla mezza nuda, peccaminosa e macchiata di malizia, posta sopra di lui come a volerne imporre un controllo che a volte s'inverte – e in fondo, è giusto che i ruoli si ribaltino e che nessuno dei due prevalga davvero sull'altro. È un equilibrio muto, un patto taciuto ma chiaro a entrambi.

Poi Deya non ne può proprio più degli sguardi, dei sospiri, delle attese in apnea e delle scaglie di brividi che ricoprono la superficie della pelle, causati dall'eccitazione e dal freddo che risuona acerbo fra le pareti. E allora decide di unirsi a lui in un intreccio di gambe e di organi, di mani che si cercano, di sospiri che si mescolano e scaldano il gelo che atrofizza i loro cuori da tempi lontani. 

Un calore che si espande in ogni direzione, fino a formare goccioline di sudore e di passione che tracciano sentieri lungo le scapole, poi la colonna vertebrale, e intaccano il legno della bara in cui dovrebbero star fermi e muti e morti, e invece sono anche fin troppo vivi.  

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