19. Rovine e polvere
"Non voglio morire senza cicatrici, perciò picchiami, sennò perdo il coraggio."
Fight club
Fra le luci del tramonto, il bosco appare meno cupo e tenebroso di com'è di notte. Il cielo è privo di nero e di stelle. Le nuvole formano linee che delimitano i contorni del sole morente dietro le montagne, è impossibile vedere dove voglia andare a nascondersi, ma ancora i suoi raggi schiariscono l'eterea distesa troppo in alto. Nell'aria si disperde un'atmosfera mistica, anagogica. Suoni laconici nell'aria, lugubri spifferi di un vento freddo, scricchiolii fra le foglie a ogni passo.
Il respiro si è incastrato in gola, le orecchie sono pronte a captare qualunque rumore, ogni traccia di pericolo, perfino la più piccola.
Deya si sente più sicura a tenere con sé un coltellino. Saranno giusto tre o quattro dita di dimensione, la lama non appare molto affilata, ma le dà sicurezza, e tanto basta. Avanzano nel bosco, inoltrandosi fra alberi e sentieri disintegrati dalle erbacce incurate e selvagge.
Lazar segue la direzione indicata dal suo cellulare – non è come nei film horror: la connessione funziona, non ha problemi, e riescono a ritrovare il punto corretto senza neppure troppa fatica.
Sono avanzati molto in profondità, tanto che senza cellulare non riuscirebbero a capire che strada imboccare per poter tornare sulla retta via. I sentieri si intrecciano tutti uguali, un labirinto di alberi identici e foglie cadute dai rami, un tappeto di fuoco esteso ovunque, in ogni direzione, fine a un piccolo fiumiciattolo dalle acque verdi. Ha piovuto parecchio negli ultimi giorni, ed è pieno, l'acqua fluisce veloce e arrabbiata. Quando giungono lì, però, e si guardano intorno, sebbene sia il posto che il cellulare indica, non trovano nessun corpo – eppure Lazar l'ha visto, e ne è convinto, e in realtà non ha idea di quale sia il punto preciso, era buio ed era notte, e non si è avvicinato abbastanza, è sempre rimasto a debita distanza, tanto che non è neppure sicuro di ciò che ha visto. Ombre sfocate, poi le memorie sono offuscate dall'alcool.
«Come vedi non c'è niente di strano», può esalare un sospiro sollevato. Questo la scagiona, fa crollare qualsiasi prova abbia contro la sua persona – e poi, se è vero che ha aiutato qualcuno a seppellire un corpo, perché non ha conservato alcuna immagine di quei momenti?
In fondo non sa neanche cos'è accaduto a Derry, eppure i segni erano inequivocabili e il suo pigiama era sporco di sangue – e, diamine, ci ha messo due ore a ripulire quella dannata casa per colpa di quel felino ormai divenuto cibo per vermi.
«Non ricordavo ci fosse un fiume qui, e vista la quantità d'acqua non ci avrà messo troppo a spostare un corpo morto... seguiamo la corrente, dovrebbe essersi fermato da qualche parte», Lazar è più razionale e preferisce approfondire quella faccenda, anche se Deya vorrebbe solo darsela a gambe. Il tramonto si tinge di un rosso ancora più profondo, quasi sanguigno, e presto scenderà la notte, gettandoli in un incubo senza via d'uscita.
Con rammarico, si avvia al suo fianco, e camminano per una ventina di minuti, mentre lei protesta, e protesta, e protesta: è spaventata, e parla davvero troppo, tanto che Lazar fatica a starle dietro e a concentrarsi al tempo stesso, strizzando le palpebre come per scorgere una mano che sorge dall'acqua, l'amaranto che abbandona le viscere di un corpo distrutto.
Niente di tutto ciò avviene dinnanzi ai loro occhi increduli e allucinati, finché continuare a inseguire il fiume diventa un piano inutile, e lo stomaco di Deya comincia a calmarsi. Non c'è niente, niente di niente.
O almeno non c'è ciò che stanno cercando. Tuttavia, l'attenzione di Lazar viene attirata da una piccola struttura diroccata che sorge al di sopra di una collina, in alto rispetto al fiume, dove le acque non possono arrivare pur gonfiandosi di pioggia. «Andiamo a dare un'occhiata», decide, anche se lei non è d'accordo neppure quella volta, ma stringe la presa intorno al coltello, e avanzano anche se il buio comincia a tingere il cielo, a macchiarlo di astri in fermento, schiarito solo da un pallido quarto di luna.
Avvicinandosi, la struttura si rivela una vecchia chiesa, di certo ormai abbandonata da tempo – forse è troppo lontana dalla civiltà di quei luoghi desolati e silenziosi, e dunque perché mai optare per quella catapecchia in disuso invece della piccola chiesetta al centro del paese?
Non è assurdo che sia stata lasciata lì, senza cura e senza fede.
E Lazar, che la passione per i luoghi abbandonati e macabri la percepisce scorrere nelle vene, non può certo fermarsi di fronte a una tale scoperta.
Contrariata, Deya gli sta dietro fra una lamentela e l'altra. «Possibile che dobbiamo cacciarci nei guai per forza, sennò non sei contento?», sta dicendo con tono contrariato, astioso. «Dai, torniamo a casa e beviamoci qualcosa su per dimenticare la pessima giornata di oggi», a furia di salire per terreni malmessi i polpacci cominciano a dolerle un po', e il freddo punge fin sotto ai vestiti che li proteggono dal freddo. L'umidità è tanta, è densa, e fa vibrare le ossa. E sta ancora malissimo, ha la gola in fiamme.
«Davvero non lo trovi eccitante?», Lazar sembra preso da tutt'altra idea, ormai neanche gli importa più del cadavere. Sembra affascinato dalla croce che ha abbandonato il punto più alto della facciata frontale, cadendo sul terreno, pur rimanendo intatta – seppur muschiosa, impolverata. Tutto è decadente, morto, imprigionato in un tempo immobile e tetro, colmo di misteri seppelliti sotto strati di fango.
La porta d'ingresso appare semichiusa, un chiaro invito a entrare, a varcare la soglia del peccato, a infiltrarsi in un luogo abbandonato dalla vita, ora dimora di rovine e ricordi. Nella fonte appena varcato l'ingresso non c'è traccia di acqua santa, neppure una goccia. Tutto è cosparso di polvere, grigio di terra e sporcizia. L'altare non brilla maestoso come dovrebbe, e le vetrate, un tempo verdi e rosse e blu, ora appaiono smorte e nebulose, quasi nuvole, quasi fumo incrostato in ogni angolo. Perfino l'oro ha perso la sua luminescenza, ora non luccica più d'incanto.
«Oddio, non mi sembra una definizione appropriata, considerando che siamo venuti fino a qui perché stavamo cercando un cadavere», non ci vede il romanticismo e il sentimentalismo di Lazar, che quei posti li percepisce un po' come un'estensione della sua stessa anima: diroccati, abbandonati, marci. Un intreccio di vita e morte.
Non l'ascolta neppure, e anzi avanza dritto verso l'altare, per scrutarlo più nel dettaglio.
Deya non intende rimanere da sola in un posto tanto lugubre, e così lo insegue oltre le colonne portanti che sorreggono i muri cosparsi di ragnatele.
Poi, gli occhi cadono su un vecchio confessionale posto a sinistra delle panche sommerse dalla polvere, e forse perché dopo quella lunghissima camminata sono entrambi stanchi morti, Lazar prende posto al suo interno, tirando la tendina per aprirla, e sospirando come per allontanare la stanchezza. «Stavo pensando che non mi sono mai confessato.»
«Beh, io non sono un prete», sta ancora cercando di sdrammatizzare per non trovare quelle circostanze così inquietanti, anche se lo sono. «Non posso accogliere i tuoi peccati.»
Rimane in piedi, bella e dannata, candida come una stella alpina, o forse più come un girasole – ma uno di quelli rossi, che sembrano inferno.
«No, sei troppo maledetta per fare il prete», le prende un braccio, tirandola verso di sé, oltre la tendina impolverata che si chiude intorno a loro, agitando granelli grigi di tempo decomposto.
«Che fai?», quasi balbetta, con le palpebre sgranate come di fronte a un'allucinazione, con il volto turbato da una confusione intrepida.
«Ho una disperata fame di te e non riesco più a controllarla», Lazar soffia quella confessione con una leggerezza che li destabilizza entrambi, anche se neppure una goccia d'alcool scorre nelle loro vene, anche se non è il luogo adatto per sugellare promesse nel tempo e quel posto è troppo lugubre per ritagliarsi frammenti d'amore; gli spifferi imperversano furiosi, fanno tremare quasi le pareti, lasciano scricchiolare i rami degli alberi nudi di foglie all'esterno.
Lo stomaco di Deya si contrae in una morsa, e sono graffi sulla pelle, fino a scavare giù verso le ossa con unghie roventi, quasi a imprimerle marchi d'aghi e inchiostro invisibile, segni che non riusciranno mai più ad andar via – anche se da fuori forse non si vedono, quasi scarnificazioni traslucide, eppure dentro sanguinano.
La finzione è l'acerbo desiderio di una relazione mai nata, sorretta da pilastri di bugie. Si usano e si cercano per convenienza, escludono che possa esistere una qualunque altra ragione.
Le emozioni sono sentimenti amorfi, sono nuvole in viaggio su cieli variopinti.
«No, è solo che stiamo diventando così bravi a fingere che ci siamo calati fin troppo nella parte», non vuole lasciarsi trasportare dai sogni. L'amore ferisce, ed è giusto innalzare scudi per proteggersi dai mali che gli altri senza cura scavano nelle carni altrui, quando senza dolcezza affondano coltelli e arrivano oltre le costole per farsi beffa di un cuore che batte.
Quella risposta delude Lazar, però. Si scambiano le armi, e chi teneva il manico del coltello ora si ferisce le dita con una lama appuntita. Chirurghi ciechi in cerca di ferite da risanare, gli estremi di un taglio da stringere fino a formare cicatrici antiche.
Non lo dimostra, si rinchiude in un silenzio, e molla la presa sul suo braccio, l'allontana da una vicinanza che profuma di fragole e polvere, di acqua santa evaporata nel tempo.
Lazar quasi si sente in uno dei gironi dell'inferno. Ti apri un po', appena un po', lasci filtrare luce dalla finestra dalle tende sempre scostate per rintanarsi nel buio dei mostri... e poi tutto crolla. Acqua che dilaga e fuoco che divora le pareti, il caos sommerge il mondo fino a spegnere le fiamme della vita. La testa e poi il corpo sfracellati da una pallottola invisibile. Solo un delirio, le emozioni in un subbuglio incomprensibile, incongruente. Un tornado di sofferenze profonde, nascoste.
Scatta in piedi e si dirige verso l'uscita, ora stanco di quella passeggiata durata fin troppo, di quell'esplorazione che l'ha portato ad aprire appena le sue costole per farsi sfiorare il cuore; ma Deya ha prima assestato un colpo sadico e ben preciso, poi si è ritratta da quell'abbraccio diabolico, e ora lo segue fuori e non sa perché si è arrabbiato, perché ha le spalle così tese e le vene sul collo di nuovo gonfie di rabbia.
Lui non proferisce parola, però. Non si spiega, ma le accenna lo stretto necessario. «Mi sono ricordato che ho da fare stasera, meglio tornare», mormora, modulando il tono della voce fino ad apparire quasi tranquillo.
«Non capisco proprio che ti prende», fa finta di nulla – o forse davvero non lo comprende.
Ma poco importa, perché poi un tonfo li blocca entrambi, li pietrifica sul posto. Seguono quel suono con le pupille strette, e silenziosi sanno che proviene dalla vecchia chiesa, anche se non gli pare di averci visto qualcuno all'interno, nel breve arco di tempo che vi hanno trascorso.
«L'hai sentito anche tu?», chiede, e l'altro annuisce.
«Andiamo a controllare, tieni il coltello pronto», le suggerisce, anche se adesso anche lui è spaventato, trema appena sotto i vestiti e la rabbia sembra già dimenticata. Il pericolo rende lontana ogni cosa, distanti le emozioni, prevale solo la sopravvivenza di entrambi.
Sono una squadra, e non possono tentennare quando la situazione si fa delicata.
«Che idea del cazzo», commenta Deya, e stavolta lo fa sottovoce, perché ora avverte anche lei i danni che può fare una qualunque mossa falsa.
Rientrano dentro e illuminano le pareti con la torcia, allora si accorgono di una piccola porticina dietro l'altare, e se prima appariva come un muro come tutti gli altri, ora è semiaperta, quasi li invita a darci uno sguardo.
«Non è normale, dovremmo tornare a casa», suggerisce Deya, ma lui non l'ascolta, e curioso avanza fino a quel punto, puntando la torcia all'interno della fessura.
Ciò che vede è così agghiacciante che la luce gli cade dalle mani, e in seguito al colpo si spegne e li lascia precipitare nel buio.
«Cazzo, scappa», sono le uniche cose che riesce a dire, prima di gettarsi in una corsa frenetica in direzione dell'uscita.
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