13. Divorare le farfalle
"Ricordate quando vi ho detto che mi sembrava di essere in un romanzo di Dickens, ma con le parolacce?
Sapete perché tante persone leggono libri del genere? Perché si sentono felici all'idea che tutta quella merda non capiti a loro."
Stephen King
La pelle quasi nuda, le ombre sul bianco.
Deya è voltata di spalle, in reggiseno.
Tornare a casa è stato difficile. Ha guidato lui, pare che regga meglio le allucinazioni, sebbene abbia le pupille forse ancora più sgranate delle sue.
Ha dovuto lottare per tutto il tempo contro il desiderio di vomitare, mentre il mondo sfrecciava tutt'intorno come un'unica buia galleria senza fine, senza tracce di luce in fondo al tunnel. I mostri aggrappati alla carrozzeria dell'auto, i vermi che strisciano addosso – li vede, li sente, poi si gratta e scompaiono.
Il pianeta è diventato tutto colorato, dopo è precipitato in un'oscurità tetra e destabilizzante.
Non ci sono più i colori, li hanno rubati.
Chi ha rubato i colori?
E le sfumature? E le luci? E le ombre? E il volume, e le dimensioni?
Che fine hanno fatto i suoi vestiti?
Fissa il suo corpo nello specchio che la riflette, corrucciata su se stessa, in avanti, con la schiena che forma una curva spezzata dalle vertebre ossute, disegnano una lisca centrale tutta tratteggiata, come le ossa di un mostro.
Una linea che Lazar insegue con le dita fredde, e solo allora Deya ricorda di nuovo di non essere da sola.
«Ho fame», dice, e smorza così la tensione, e forse ora il giorno inizia a brillare fuori dalla finestra e dà nuove speranze, le ricorda che il buio della notte non può durare in eterno.
«Bene, meglio, mangiamo qualcosa.»
Solo che Deya non se lo ricordava così difficile. Alzarsi per andare a tavola, s'intende. Comunque si alza sulle sue gambe, con il mondo che oscilla come dopo una sbronza – in effetti, ha bevuto così tanto che c'è mancato poco al coma etilico. Non va bene, non va affatto bene, ma lo realizza sempre quando ha già torturato il suo fegato e non c'è molto che si possa fare per rimediare.
L'acqua aiuta, però. Ne manda giù un bicchiere ed è assurdo, bere al mattino è difficile, ma aveva la bocca impastata dal sapore dell'acido ancora rimasto fra le memorie della gola.
Poi Lazar le allunga di fronte alle labbra un cucchiaino colmo di una sostanza ambrata e viscosa, oro che cola, finché non diventa evidente che si tratta di miele.
Gli zuccheri la fanno sentire meglio, o almeno danno questa impressione.
«Vedi, te lo dicevo che il miele è la soluzione a tutti i mali del mondo.»
Pensa alla vecchia leggenda dell'uomo mellificato. Seppellire i corpi nel miele per preservarli, come si fa con la tassidermia. Un collegamento macabro, l'ennesima traccia di un pensiero distorto, ma che segue una sua bizzarra logica. «Non puoi fermare la morte», gli dice, convinta. «Non puoi. Deve fare il suo corso. Tutto è destinato a sgretolarsi. Non puoi pretendere che il tempo non lo usuri.»
Un accenno ai suoi mostri impagliati, immobilizzati nel tempo.
Si sente piccola di fronte alla morte. Minuscola, soltanto una scheggia invisibile. Si sente piccola per davvero, in tutti i sensi; la sedia è grande e dispersiva e le blocca il corpo in una morsa di panico.
È minuscola, e Lazar e il resto della casa sono enormi, così grandi che lui non riesce più a vederla. È sparita dalla sua vista, è solo un microbo, è come Gregor Samsa che si ritrova a un tratto con un corpo da insetto. La situazione è identica, ma può vedere il suo corpicino, ora in piedi sulla sedia, mentre il mondo si dilata senza curarsi di lei. Può camminare fino al bordo e capire che farà male lanciarsi di sotto, che l'altezza è infinita. Saltella, cercando di attirare l'attenzione di Lazar provando ad agitare le braccia, ma lui non la vede. È così minuscola da essere impercettibile come un granello di polvere.
Poi, sulla sedia, che ora sembra un vasto campo di legno, compaiono delle farfalle.
E Deya se le caccia in bocca, le mastica, le divora tutte, perché è un istinto irrazionale.
Solo allora torna normale, alle dimensioni di prima, e tutto sembra solo un sogno grottesco, un film a occhi aperti e perplessi. Si porta le mani alle labbra, sporche di ali, di sangue che macchia le dita.
E Lazar la vede, come vede le farfalle, come la vede divorarle, forse, perché ora la guarda con la fronte corrucciata e solleva le dita per pulirle il mento dal rosso.
«Ti sei morsa il labbro», e fra i residui dei deliri soppesa quell'istante per guardarla e studiarla da vicino, nel tentativo vano di scoprirne i segreti impronunciabili. Ma dall'esterno non si vede niente, e ogni sospetto muore soppresso dalla lingua di Deya che la ripulisce dal tono vermiglio. «Comunque, devo andare in agenzia», dice poi, quando si rende conto che a quell'ora, di solito, è giù sulla strada per andare a lavoro. Non si sente molto in forma, ma il dovere lo chiama.
«Sul serio? Vuoi farmi credere che fate qualcosa, lì dentro? Non muore mai nessuno», gli fa notare, non vede alcun motivo per andare di fretta e inseguire una vita che corre, tanto in paese sono stati tutti lasciati indietro.
Il tempo scorre in maniera diversa. Come se a nessuno importasse davvero dei fremiti degli orologi, dei rintocchi e delle campane che suonano in una chiesetta lontana, petulante, che spesso dimentica di risuonare ogni ora – e per fortuna.
Nonostante il tempo trascorso e i tentativi di Deya di far desistere Lazar dall'idea di andare a lavoro, alla fine si infilano in macchina.
«Quanto durerà questa roba?», chiede a un certo punto, sprofondata nel sedile dell'auto, con la cintura di sicurezza ben sistemata e il mondo che sfreccia tutt'intorno a quell'ora del mattino contaminata dal ritardo.
«In genere dura fra le otto e le dodici ore, a me è quasi sparito tutto, per te temo ci vorrà ancora un po', ed è meglio se rimani con me e posso tenerti sotto controllo», le risponde Lazar, concentrato a fissare davanti a sé, con gli occhiali da sole per evitare che lo accechino le luci.
«E non potevamo rimanere a dormire?», si sente davvero stanca, e in fondo hanno riposato poco.
«No, perché oggi l'agenzia è aperta e devo lavorare», parcheggia il veicolo all'esterno, poco più avanti rispetto ai vecchi gargoyle. Le mura sono grigie e tetre, tutto è luccicante di brina e il marmo emette un freddo gelido che penetra fino alle ossa.
Scende dal veicolo e poi apre la porta, s'infilano dentro di fretta perché all'esterno tremano per le temperature sotto lo zero.
Lazar si perde dietro ad alcune scartoffie, pagine bianche da riempire di chissà quali informazioni, e da dietro al bancone non le presta alcuna attenzione.
Così Deya, stanca e annoiata, dopo un po' decide di piazzarsi sul divano nella sala d'attesa e si addormenta prima di rendersene conto, recuperando un po' del sonno perso.
Quando si sveglia, alcune ore dopo, capisce che non è proprio vero che in agenzia non c'è mai niente da fare. Si tira su, strofinandosi le palpebre, ma ciò che ha di fronte è reale. Davanti al bancone ci sono due persone, un uomo senza capelli e col berretto in testa, con grossi baffi bianchi, e una donna più giovane e vestita di nero, stretta nella sua pelliccia sintetica.
Le sembra di non averli mai visti prima. Poche persone vivono da quelle parti, ma nonostante tutto non ha idea di chi siano alcuni abitanti. Certo, però, ricorderebbe di averli visti almeno una volta, ormai abita in quel posto da un pezzo e i volti sono sempre gli stessi.
Si mette seduta e prende il cellulare, decide di fingere di ignorarli, ma in realtà tende l'orecchio per captare ogni informazione possibile, e dal loro accento può intuire, siccome è simile al loro ma ha delle piccole differenze, che appartengono a una frazione lì vicino, giusto qualche chilometro di curve e strade. In fondo, quell'agenzia riesce ad avere qualcosa da fare soprattutto grazie ai posti limitrofi, perché se ci si affidasse solo ai cento abitanti ci sarebbe da morir di fame per Lazar, ed è chiaro.
Deya però è sicura di una cosa: non muoiono molte persone dalle loro parti, non si sente spesso parlare di funerali.
È un evento bizzarro, lugubre, e inquietante, ma in fondo la morte è il normale corso delle cose, è la fine di una storia e tutte le storie devono avere una fine.
Tutte le vite devono spegnersi, quando è arrivato il loro momento, e non c'è nessun incantesimo né alcuna pietra filosofale né nessuna tecnica che possa davvero preservare un'anima dalla sua dipartita.
Non crede in Dio, né nel paradiso, né nell'inferno – al massimo, trova che l'inferno sia la vita sulla Terra. Nella morte ci legge il buio, la fine dell'essere, la conclusione di ogni speranza, dei sogni, dei pensieri. Nella morte c'è silenzio e buio, e vuoto. E poi nient'altro.
I funerali sono una pratica vecchia, svariate civiltà li gestivano in modo diverso, credendo in divinità differenti. Ora consistono nel rinchiudere un essere umano in una cassa di legno e seppellirla, se non lo si vuole cremare.
È l'opzione più scelta, ed è il lavoro di Lazar, che tira avanti quell'impresa ormai da solo.
Chissà chi è morto, chissà perché.
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