1. Le urla di un angelo, il sibilo di un demone

Avvertenze: Mi dissocio dalle azioni dei miei personaggi, non condivido quello che fanno; leggete solo se siete consapevoli che i loro comportamenti potrebbero darvi fastidio (come sempre, per chi è abituato ai miei libri).
Per i nuovi arrivati, vi ricordo che scrivo horror, e l'horror è spesso malsano... soprattutto il mio.


"Il tuo sguardo, divino e infernale,
dispensa alla rinfusa il sollievo e il crimine,
ed in questo puoi essere paragonata al vino."
Charles Baudelaire - Inno alla bellezza


Il sabato sera, la notte che scende melliflua sul mondo e lo ricopre di un tetro buio macchiato di rosso. 

Dentro al locale la musica è alta, e come al solito c'è troppa gente in uno spazio grande eppure straripante di individui diversi. Ha perso Tiana e Iuri da un po', ormai, e l'alcool che le scorre nelle vene è eccessivo. Per fortuna ha smesso con gli psicofarmaci, non reggerebbe il mix, diverrebbe un miscuglio letale. Lo psichiatra le ha ripetuto tante volte che non deve lasciarsi sopraffare dalla voglia di bere, scolare intere bottiglie di liquidi dolci e amari, ma non ha mai avuto intenzione di ascoltarlo.

Le luci psichedeliche danzano sulle pareti come i piedi scoordinati degli esseri umani all'interno delle quattro mura. Tutti in festa, compreso lo stomaco di Deya, ora in subbuglio. Deve vomitare, ha bisogno di trovare i bagni. Un bisogno urgente, se non vuole tanfare di rancido tutta la sera. È la prima volta che indossa quella gonna rosa a quadri, le piace parecchio; è corta, ma non troppo, e adora indossare capi colorati. Il nero la incupisce e la rende triste – chi ha detto che il nero sta bene su tutti?

Deya è smorta come un cadavere, con la carnagione troppo pallida e i capelli così scuri che sembrerebbe la controfigura di Morticia Addams, ma senza la medesima classe. Preferisce vestirsi di rosa – anche se poi si vede il rosso del sangue, anche se macchia il candore e non lo nasconde come il buio.

«Sembri uno zombie.»

Si guarda intorno, e nella confusione generale identifica lo stesso volto che ricorda come un sogno lontano – eppure non è poi così distante nel tempo, solo qualche settimana. Trova gli stessi occhi di ghiaccio, la stessa rigidità del vetro non sfiorato dal calore delle fiamme, un abisso profondo in cui annegare e perdere la ragione.

«Mi hai stancato. Non fai ridere. Sei solo inquietante.»

Sincera, diretta. Raddrizza la schiena e respira con il naso, impedendo alla mente di sentire l'alcool pungerle la gola, supplicando il corpo di non lasciarlo defluire fuori, in un gabinetto lercio a pochi metri dal corridoio.

Una risata cristallina si libra nell'aria, allontana il suono claustrofobico dell'orrenda musica elettronica, tipica delle feste e delle menti incapaci di pensare, godersi una riflessione autentica. Ride come se qualcuno avesse appena pronunciato la battuta del secolo. Ride con insania, con il volto stravolto da una follia grottesca; ride con orrore, e raccapriccio, e morte. Ride in un modo che ghiaccia il sangue nelle vene, riempie la pelle con scaglie di brividi.

«Perché ridi?», il quesito è dunque lecito.

«Perché sono ubriaco», la risposta è ancora più ovvia. 

Lei pensa che sia anche fatto, lo deduce dalle sclere scoppiate, dalle vene che tracciano ramificazioni sul bianco.

Poi, nell'aria si libera un urlo. Un suono ancora più raccapricciante; l'affanno di un demone, il sibilo di un angelo. Vetri infranti, caos e tormenti. Tutto diviene confuso, i suoni si fanno concentrici, una nebbiolina leggera avvolge il mondo e reprime il respiro della psiche.

«Andiamo via da qui», le dice Lazar, e la prende per mano.

Si ustiona a quel contatto, l'addome quasi divorato dalle farfalle; è un contatto fisico strambo e insolito, mai più ricercato negli altri.

Lo segue fuori – anche perché non ha altra scelta. I palmi sudati e appiccicaticci per l'alcool si stringono con forza, con il terrore che qualcuno possa dividerli in quel gran caos di esseri umani. E non è giusto dividere due inetti quando si trovano, quando possono specchiarsi l'uno nel tormento dell'altro e tramutare il dolore in incanto.

Corrono un po' troppo, avanzano con il cuore che batte forsennato, con l'adrenalina trasformata in un fiume vermiglio che rompe gli argini delle vene. Poi si fermano nel bosco lì vicino, fra le montagne e gli alberi maestosi che si spingono cupi verso il cielo, vorrebbero sfiorare la luce e invece non possono neppure muoversi senza l'aiuto del vento fra i rami nudi.

«Dove stiamo andando?», ha bisogno di risposte, e approfitta del momento in cui si fermano lì, nascosti fra le ombre dei tronchi, con le foglie che scricchiolano a ogni passo e la luna alta in cielo come unica fonte di luce.

«Ti porto in un posto romantico. Siamo quasi arrivati», le tira appena la mano per spronarla ad accelerare un passo, come se avessero fretta di andarci, come una fuga per nascondersi dagli occhi spietati delle stelle.

«Non so nemmeno come ti chiami e pretendi un appuntamento romantico», decide di sottolineare, che fra la confusione dell'alcool riesce ancora a essere lucida appena e a protestare per essere certa che non ci sia alcun doppio fine.

«Lazar», la sua voce è roca e bassa, lugubre nel silenzio, fra il mormorio delle foglie e di qualche insetto resistito al gelo che corre a nascondersi. «Non lo definirei un appuntamento, ma se lo preferisci...»

Deya è troppo ubriaca per protestare – e anche per comportarsi da sedicenne alle prese con la prima cotta. Sono solo due estranei che si tengono per mano per attraversare il confine fra realtà e follia. Nient'altro. 

Si pone davanti alla sua vista un cancello in ferro battuto, acuminato. Filo spinato più in alto, per evitare agli umani di scavalcare. Stringe le palpebre, fra lo squilibrio dell'alcool e le tombe oltre l'ingresso che nel buio diventano doppie, triple, poi un delirio di scheletri in fermento sotto la terra e di fiori secchi su lapidi profanate. Ghirigori di metallo e il tintinnio di una chiave. 

Lazar apre il cancello e si guarda intorno, poi la invita a entrare e lo richiude alle loro spalle, intrappolandoli al sicuro dove giacciono i fantasmi, dove irrequieti gli spiriti vagano errando e sperano di spirare in un paradiso eterno.

Non è mai stata dentro un cimitero di notte, e forse dovrebbe trovarlo inquietante, perfino grottesco. Una pessima idea, in ogni caso, ma la verità è che l'alcool lo rende semplice. Sorride e si guarda intorno come se ogni frammento d'arte fosse composto da magia – e non da marmo e granito e rocce scolpite da una pioggia infame. Ammira le tombe come un bambino di fronte a un regalo tutto da scartare, come una falena che insegue una lucciola per divorarla – e non per morire stremata vicino al bianco.

Gira su se stessa, gli occhi in fiamme come le foreste dell'Amazzonia, e sembra quasi nevicare, invece è solo la polvere che si sposta sotto la luce dei lampioni e dei lumini accesi. «Come facevi ad avere le chiavi?»

«Siamo l'unica agenzia funebre del paese», Lazar scrolla le spalle, non sembra trovarci nulla di strano.

Le ha lasciato la mano e non sembra volerla riprendere. Cammina in avanti, e Deya non intende rimanere lì, da sola, alla penombra, perciò accelera il passo e torna al suo fianco.

«Che ci facciamo qui?», pone quell'ennesima domanda con dubbio e tormento, con curiosa innocenza e il naso arrossato dal freddo pungente.

«Sesso», Lazar risponde con una tranquillità morbosa quanto spaventosa, terrificante.

Deya sgrana le palpebre, le guance ora scarlatte, la bocca schiusa dalla sorpresa. «Ma io non ti conosco neppure.»

Lazar si limita ad andare fino in fondo, dove le lapidi appese al muro fanno largo a uno spazio in cui sono situate soltanto bare sul terreno, più visibili, più inquietanti. Facili da profanare.

«Io però conosco te. Siediti là», le ordina con voce conciliante, e Deya, che vorrebbe protestare, in realtà esegue quel comando, grata di poter riposare le gambe dopo la loro camminata irrequieta nel bosco.

Lazar si inclina verso di lei, a un soffio dalle sue labbra screpolate e imperfette, ma dal profumo dolciastro di vodka alla fragola. Non la bacia, però, e scende con le mani gelide a cercarla sotto i vestiti, sotto il cappotto e il maglione, le sfiora la pancia e la sente sussultare per il tocco gelido, ma non ritrarsi – e non comprende se sia immobile perché vuole che continui o se sia più terrorizzata e incapace di proferir parola, ma per averne conferma le stringe il seno e la sente sospirare viva, le labbra si schiudono come a voler sussurrare qualcosa, ma ogni parola muore nel soffio del vento.

Le dita corrono in basso, sotto la gonna rosa che ora le lascia le cosce scoperte. «Voglio essere sicuro che tu ti stia divertendo.»

I collant pesanti la salvano dall'ipotermia, finché Lazar non li strappa senza cura, con infame arroganza e violenza animale, poi con delicatezza amorfa quando la sfiora da sopra il tessuto delle mutandine.

La dicotomia dei suoi gesti è instabile. Una sicurezza torbida mischiata a una paranoia malcelata fra gli estremi del sorriso, un taglio che la fissa beffardo come una striscia di sangue. Lazar è ammaliante, mefistofelico. 

La tocca su una tomba di freddo marmo bianco, fra i lumini accesi che scaldano l'atmosfera e lo rendono meno un film dell'orrore, fra gli spifferi dei dintorni e i cigolii sinistri nelle profondità di un cimitero gotico e diroccato, antico e tetro, da preservare come un segreto sussurrato nelle notti più oscure e da millantare come la storia di una vita – seppur sia più una notte e via, e forse nemmeno, forse solo un istante bloccato fra le lancette.

E a Deya sembra una fiaba – no, no: una fiaba macabra, scritta dai fratelli Grimm in persona, e da qualche parte di certo si nasconde una strega o la morte stessa in cerca di figli, o ancora il diavolo coi suoi tre capelli d'oro. Sono sfumati i ruoli, e forse si è rifugiata nel posto sbagliato, barricata in un abbraccio di veleno e spine, in un libro degli orrori composto da pagine e inchiostro. 

E appena pensa alle fiabe si ritrae, si chiude a riccio, sfugge a quel tocco che crea un doloroso piacere, un'incontestabile desiderio. Si tira giù la gonna e su le mutandine rosa, ora macchiate di un sangue che gocciola dai polpastrelli bianchi dell'altro.

Hanno sporcato il rosa di rosso. 

Hanno macchiato il bianco con tracce di nero. 

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