XXVIII
Febbraio 2003
«Hai barato!»
«Non è vero, sono solo più bravo di te, ti rode che sono più piccolo!»
«Ti ho visto che baravi!»
Mi massaggio la fronte con afflizione, arrendendomi alla prospettiva di ingollare l'ennesima pastiglia per l'emicrania dell'ultimo periodo, una forbice temporale che varia dagli scorsi tre giorni agli ultimi quindici anni della mia vita. Sollevo gli occhi annebbiati dalla stanchezza verso il mio pacato, imperturbabile marito e lo imploro con lo sguardo e una voce che non riconosco come mia: pigolante, roca e disperatamente stufa.
«Gian...»
Lui continua a sistemare le posate nel cassetto e non si scompone: «Devono imparare a gestirsi.»
«Ma anche a non rompere i coglioni» ribatto con stizza. Dal piano superiore di casa nostra, dove abbiamo organizzato la mansarda in due stanze da letto piccole ma funzionali, Arturo strilla tanto da essere prossimo agli ultrasuoni, ancora glorioso nella sua voce di bambino.
«Ragazzi!» esplodo, recuperando il mio solito piglio imperioso, alzandomi in piedi con uno scatto e ignorando la vista che si scurisce all'improvviso, lasciandomi immersa in una danza di scotomi luminosi per un momento. «Riuscite a mettervi d'accordo?»
Si accavallano una serie di scuse frignate e di rimpalli di responsabilità all'uno e all'altro. Gianluigi sorride, ostinato, sebbene l'ombra del più che legittimo esaurimento inizi a farsi strada sul suo bel volto snello.
«Faccio io» mi rassicura: sempre accomodante, sempre sorridente, uscito dalla miglior pubblicità possibile della famigliola di bell'aspetto e cristallizzata in una serenità eterna. Lo osservo salire i gradini con passo forzatamente saltellato e sparire dietro la chiocciola delle scale mentre domanda «Avanti, cosa succede stavolta?», con l'eccessiva brillantezza dei presentatori di show da pomeriggio durante le dinamiche più rodate e trite.
Sospiro.
Io lo odio.
Alcune relazioni nascono perché frutto di un caso apparente, che solo dopo dipana un quadro nitido e un ipotetico destino già segnato: sono figlie di mille "E se" e centomila "Pensa te che", che portano sempre un sorriso di nostalgia in chi racconta e di divertita tenerezza a chi ascolta.
Io e Gianluigi no.
Nati e cresciuti nello stesso paesino, separati da due anni di età che, nell'ambito del cortile dell'oratorio e nel parco cittadino rappresentavano un nonnulla, siamo stati a contatto da prima ancora di essere senzienti: stesso asilo, stesse scuole elementari, stesso percorso alle medie.
A differenza della maggior parte dei tardo infanti di sesso maschile, lui era un ragazzetto fondamentalmente buono, innocuo nelle parole e maldestro nei gesti, estroverso ma mai sfrontato, simpatico ma cristallizzato nell'essere a modino, al punto tale da beccarsi qualche infelice soprannome che di solito grava sugli omosessuali come una pietra tombale.
E forse era proprio per quella sua attitudine quasi femminea che era attratto da me.
La mia adolescenza era stata costellata con orgoglio da giacche in pelle dalle spalle ampie, spille da balia disseminate in ogni dove e una fiera abbondanza di fantasia tartan e magliette nere troppo larghe e spessi, pesanti anfibi: sfogavo la mia femminilità nel trucco, nelle collant strappate e nelle gonne troppo corte che, però, non mi erano concesse in un istituto magistrale dove una maglietta dei Ramones generava già troppo scandalo e sguardi di spregio.
Gli studi superiori avevano invece sospinto Gianluigi verso un liceo scientifico, a cui alternava un lavoro da un gommista nei pressi dell'istituto, allontanandolo dai giochi e dalle attività sociali del paesino: sebbene lui adesso sostenga che l'energia per studiare, frequentare le lezioni e lavorare le trovasse solo nell'età, ricordo con assoluta precisione quanto io fossi svogliata a quattordici anni e trovassi nell'oziosa lettura sul letto un ottimo diversivo per impegnare le mie giornate.
In quinta superiore si era licenziato.
Il pensiero dell'esame di maturità lo martoriava al punto da renderlo distratto al lavoro, e prima ancora che il suo superiore (che non ho mai incontrato, ma mi ha sempre descritto come un classico burbero di gran cuore, nella sua eterna mentalità infiocchettata) potesse fargli qualche ramanzina, gli aveva spiegato la situazione e si era congedato con la promessa di tornare.
Tornò, in effetti. Per dirgli che non sarebbe tornato mai più, perché avrebbe inseguito il sogno di diventare ingegnere.
Fu nel periodo pasquale del mio terzo anno di scuole magistrali che Gianluigi D'Alessandro rispuntò nella vita sociale del paesino.
Guidava un Califfo rosso ciliegia, che si vantava di aver acquistato a prezzo ridicolo e aver rimesso a nuovo da solo: era il solo dettaglio che, a detta di amiche, conoscenti e coetanee varie, lo differenziava dall'essere una trasposizione reale dell'archetipo del principe azzurro.
In effetti, Gianluigi era una bellezza classica composta da capelli biondi e sbarazzini, occhi di ghiaccio e fisico asciutto, modellato dal sollevamento dei carichi al lavoro; i modi troppo fini dell'infanzia si erano trasformati in sofisticati, il dialogo diretto con la clientela l'aveva reso brillante, l'eterna gentilezza verbale era evoluta in un sorriso accogliente e luminoso, gli abitini inamidati in uno stile sbarazzino che non precipitava mai nella sciatteria.
Tutte le mie amiche sbrodolavano per lui come lumache.
Il mio interesse in fatto di uomini rifletteva il mio stile scuro e appuntito con spontaneità, senza la necessità di mentire a me stessa allo scopo di rendere un ipotetico personaggio credibile per poi guardare i visi dei vari Simon LeBon e Tony Hadley con timido desiderio, per cui il mio disinteresse verso Gianluigi era quanto di più naturale potesse verificarsi.
E, come in una commedia, lui ronzava intorno a me come una zanzara.
Era silenzioso, discreto e mai invadente, ma tutte gli leggevano in viso un interesse rinnovato quando mi palesavo dal muretto di fronte all'asilo dove ci ritrovavamo, e non mancavano di ribadirlo a me che, con distacco e vago disprezzo, ribadivo un caustico, ostinato: «E quindi?»
«Sareste tanto carini però, Marti» mi aveva detto una volta Sonia, che conoscevo dall'asilo e stava sbocciando in una ragazza dal viso a cuore, guanciotte di fragola e finissimi capelli neri che cascavano sul volto come un sipario. «Tutti e due biondi, con gli occhi azzurri... Certo, la piantassi di conciarti così, visto che il punk è morto con gli Anni Settanta...»
Io interpretavo tutto come un rumore bianco.
E mentre Gianluigi se ne andava all'università di ingegneria meccanica, io mi disfavo dell'istituto magistrale una volta per tutte, cedevo allo stile conformato e conformista degli ultimi Anni Ottanta e mi rintanavo in un negozio di abbigliamento per signore arricchite e rompicoglioni, sognando di accumulare abbastanza soldi da correre a Berlino per spaccare il muro armata del solo pestacarne di casa mia.
Fece la sua terza e ultima comparsa di fronte al negozio durante una pausa imprecisata che stava trascorrendo tra casa e biblioteca a redarre la tesi.
Dal lato opposto al negozio un ragazzo aveva perso il controllo del motorino, che gli era scivolato da in mezzo le gambe e aveva iniziato a correre in equilibrio maldestro alla cieca: Gianluigi si era lanciato in mezzo alla strada, era riuscito ad aggrapparsi al manubrio e a evitare per poco un frontale con un'auto che arrivava dal lato opposto, spegnendolo al volo e dirigendosi verso il ragazzo con apprensione e solerzia.
In quel momento, vidi in lui ciò che sembrava evidente a tutte le mie amiche.
Lo osservai con un assurdo senso di fascinazione tanto forte da tramutarsi in ipnosi, lanciata da un improvviso desiderio fuori dal negozio, dove lui mi guardava con l'eterno, immutato interesse che, ne ero certa, l'aveva spinto di fronte all'ingresso della Ditta Secondi: il nostro fidanzamento lo rivedo a sprazzi, a fotografie istantanee dove entrambi sorridiamo verso un obiettivo inesistente, tra luoghi non meglio definiti, e cristallizzati di fronte al televisore mentre il muro di Berlino viene finalmente giù.
Anche senza il mio pestacarne.
Rido, a ripensare che mi sono innamorata di lui perché è buono.
Non l'ho mai sentito alzare la voce contro nessuno, mai parlare sull'onda della rabbia, mai lamentarsi di qualcuno con qualcun altro: credo che la sua purezza d'animo trascenda le normali condizioni umane, elevandolo a una sorta di livello superiore. Col tempo, avevo imparato a sentirmi una specie di eletta, ad essere stata scelta come compagna di vita di un uomo così.
E siamo al limite del comico se penso che quello che mi ha fatto capitolare una volta per tutte, ora è la ragione per cui prenderei a schiaffi il suo viso dal mattino alla sera, senza sosta, cercando una reazione violenta o incontrollata una volta per tutte, prima di voltargli le spalle e lasciarlo attonito per un po'.
Gianluigi torna senza saltellare, optando per un passo più pacato che quasi scivola lungo i gradini: non mi sorprendo neanche più, a scoprirmi speranzosa di vederlo inciampare e ruzzolare giù dalla chiocciola con malagrazia, speranza che, con infausta puntualità, non si verifica mai.
«Dannati Pokémon» minimizza, scrollando la testa con quella che, immagino, sia per lui eloquenza. «Mi viene voglia di sequestrargli i Gameboy mentre sono a scuola.»
«Non vedo perché non possiamo farlo.»
Per mia fortuna, la voce sta tornando a essermi familiare, recuperando tono, calma e autorevolezza necessari per sentirla davvero mia.
Lui sciorina le sue solite scuse: «Non credo che questo tipo di educazione serva a qualcosa, Tina, preferisco che ci ragionino su. Tanto una ragione per scornarsi la troveranno comunque, quindi portiamo un po' di pazienza e andrà tutto bene. Tu e Ivan non vi scornavate mai, da bambini?»
Ridacchio per prendere tempo perché, in realtà, la mia infanzia voglio ricordarla poco.
Gianluigi lo sa. Infatti, quasi subito, arrossisce.
«Oddio, scusa, non pensavo più...»
Ha sempre attribuito la mia ritrosia riguardo all'infanzia al fatto che, quando io avevo sei anni e mio fratello quattro, nostro padre è morto finendo fuori strada con la macchina e scontrandosi contro un pilone, ma la verità è che taccio perché se la me bambina potesse guardarmi ora, so che ne sarebbe infinitamente delusa.
E io non lo sopporto.
Scosta la sedia e si sistema di fronte a me, abbassando la testa per nascondere un sorriso divertito che scalpita sotto una maschera di grave serietà; poi, infila una mano dietro la schiena e recupera da chissà dove una busta blu e gialla.
«Buon San Valentino, amore» annuncia, serio.
A quel punto, alzo il capo per davvero, stupita al punto da aver paura: «Ma...» di nuovo esitazione, di nuovo timore, quando mi sono rammollita così? «Ma io non ti ho preso niente... E poi San Valentino era ieri, io...»
«Ho aspettato stasera proprio perché non ti sentissi in dovere di ricambiarmi: apri, apri» mi invita, sventolandomi la busta sotto il naso.
Un ventaglio di quattro biglietti per una crociera che si terrà da qui a quattro mesi si dipana di fronte a me: non riesco a trattenere un'alzata di sopracciglio, cercando di capire cosa muova tanto l'entusiasmo di Gianluigi che, con aria speranzosa, mi osserva da sopra i biglietti in attesa di un qualsiasi cenno.
«È per la crociera inaugurale della nuova ammiraglia» spiega. Io mi paro di fronte il mio biglietto senza vederlo davvero, pur di evitare il suo sguardo diretto e scavando nelle possibili ragioni di un regalo simile.
L'idea della vacanza in crociera la relego ai vecchi, alla noia, a chi non sa viaggiare davvero e preferisce un turismo preconfezionato, preriscaldato e premasticato; l'idea di chiudermi in una cabina in mezzo al mare mi atterrisce e mi fa mancare l'aria a prescindere; l'idea delle spaventose quantità di cibo che vengono mostrate in pubblicità e servite da camerieri in livrea è sospesa tra il disgusto nauseato e il disprezzo per lo spreco.
«Hanno un miniclub» spiega Gianluigi, ostinato. «Ho notato che da qualche tempo sei un po' stanca di stare appresso ai ragazzi, e in effetti da quanto tempo non ci prendiamo una vacanza? In questo modo staremo sempre tutti insieme, ma avremo tempo per noi due.»
Abbasso il biglietto, ritrovando il suo viso da cucciolo che aspetta la pallina.
Sorrido, mio malgrado intenerita dalla sua buona volontà e dal suo costante impegno per provare a comprendermi e venirmi incontro.
«Lo so che non è la vacanza avventurosa che sognavamo qualche anno fa» prosegue, con un eufemismo: il suo "qualche anno fa" si riferisce a prima che ci sposassimo, più di dodici anni or sono, «ma ho dovuto essere pragmatico, e poi siamo giovani, potremo...»
Gli metto un dito sulle labbra per zittirlo, senza smettere di sorridere.
«È un regalo meraviglioso, Gian» lo rassicuro, avvicinandomi per soffiargli un bacio a fior di labbra. «Scusa, sono solo un po' stanca e sono stupita. Grazie.»
Sorrido.
Tra un paio d'ore mi sdebiterò con un pompino d'ordinanza e mi ci sciacquerò la coscienza.
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