XXVII
Isabella si accomodò nella sala da pranzo e inspirò a lungo l'odore salmastro del porto, sorridendo alla cittadina che la stava ospitando; di fronte a lei, una mastodontica nave da crociera candida e dalle linee rigorose dominava il porto, mentre un formicaio di passeggeri e lavoratori si snodava tra prua e banchina.
Chiuse gli occhi e inspirò ancora: il mare aveva lo stesso profumo di Arturo, la sua stessa natura aggressiva e accogliente al contempo, la sua stessa profondità celata, per certi versi addirittura il suo stesso colore.
«Hey» la strappò Livio dai suoi pensieri, accomodandosi di fronte a lei: i capelli erano ancora stropicciati, e l'ombra di una grinza del cuscino gli attraversava la guancia destra. Isabella gli sorrise con dolcezza.
«Buongiorno.»
«Quanto hai dormito, esattamente?»
Isabella ribadì il sorriso: «Mi sono riposata molto.»
«Si vede» ammise, con invidia genuina. Poi, con un movimento del capo, indicò un ristorante giapponese oltre l'ampia vetrata della sala, dietro le spalle di Isabella, e sorrise.
«Ti ricordi la nostra prima uscita?»
Lei si concesse una risata leggera: «Come no, dopo averla sognata per anni.»
«A me il sushi neanche piace» confessò Livio con lieve imbarazzo. «L'ho scelto solo perché secondo me faceva chic. Sai, quelle ciotole nere, le vaporiere, l'etnico... Le bacchette...»
Stavolta, la risata di Isabella fu esplosiva: «Chic? Un all you can eat secondo te era chic?»
Livio restò piccato per un momento: «Era un all you can eat molto sfizioso, devi ammetterlo!» ribatté, punto sul vivo. Isabella gli sorrise, confortante.
«Avevamo anche un bel tavolo.»
Il ristorante che li aveva ospitati era un sushi bar aperto di recente: era composto grandi lampadari dalle linee snelle, pareti ricoperte da finte pietre tonde e decorate da quadri in metallo che rappresentavano carpe koi e kanji, suddiviso in tre sale e cinque piccole stanze dalle luci soffuse, con le porte in finta carta di riso a separarle dal trambusto della sala principale.
A loro era stata assegnata una di quelle.
Il tavolo era basso, in legno scuro e lucidato, apparecchiato con un piccolo runner grigio traforato, un tovagliolo in carta dello stesso colore, una ciotola, bacchette in plastica nera e posate in acciaio; una candela accesa al centro dondolava su una struttura in metallo dorato a forma di diamante e un piccolo lampadario dalla luce calda, non insistente, illuminava il tavolo con un fascio netto e avvolgente.
Isabella era rimasta ammaliata.
Lo stomaco si era torto del tutto in una morsa gioiosa, mentre il cervello macinava ipotesi e scenari successivi e le gambe traballavano sui tacchi. Aveva osservato Livio che, nella sua camicia di lino bianco, con una piccola decorazione in filo verde scuro sul petto, sorrideva alla cameriera e la ringraziava mentre gli porgeva i menù.
«Puoi dirmi una cosa, per favore?» azzardò Isabella, con leggera apprensione. «Ma il tavolo così isolato l'avevi chiesto apposta o è stato un caso?»
Livio scoppiò a ridere, imbarazzato: «A caso. Se posso essere sincero, quando l'ho visto ho pensato "Oh, no", perché ho temuto che il cibo non arrivasse più e che tu mal interpretassi in pieno.»
«Cosa che ho fatto» ammise lei, senza riuscire a celare un'ombra di amarezza.
«Dio, mi dispiace tanto, Isa.»
Isabella rise: «Non drammatizzare. È passato ed è andato tutto bene, anche se mi hai stupito quando mi hai detto di brutto "Allora, secondo te erano almeno decenti quelle riprese?".»
«Non sapevo come iniziare un discorso, dai! Però...»
Si interruppe un momento, sebbene avesse dipinto in viso il desiderio di cambiare discorso. Isabella lo invitò a proseguire con un gesto della mano.
«Però..?»
«Però eri bellissima» ammise. «Il blu ti dona.»
Quella sera, Michelle le aveva prestato un abito in tessuto rigido e con una lieve iridescenza, blu elettrico, dalla gonnella svasata e la lunga scollatura decorata da nastri: aveva tentato di imporle un'aderenza sfacciata a cui Isabella si era ribellata con vago isterismo, bocciando poi i pochi abiti nel suo armadio e mediando in quel modo dopo una fitta videochiamata con Elena, Agata e svariati spritz.
Isabella non riuscì a fermare il rossore alle guance: «Ti ringrazio.»
«Niente, mi andava di dirtelo.»
A Isabella parve che Livio tentasse di nascondersi: piegò un poco la testa di lato, senza smettere di sorridere, accomodante.
«Livio, tutto bene?»
«Certo!» sputò lui, solerte. Gli fu sufficiente un'occhiata sarcastica di Isabella per cedere.
«Ho ancora paura di illuderti» ammise. «Insomma, cerca di capirmi, è una cosa che va avanti da anni, non voglio sminuire, non... Cioè, capiamoci, non è che mi sento un seduttore, però...» annaspò, mentre gli occhi guizzavano lungo la sala pur di evitare il viso di Isabella. Lei, in risposta, gli prese la mano con un gesto deciso, cercando il suo sguardo e sorridendo, serena.
«Ti assicuro che posso capire. Tranquillo.»
Mollò la presa subito, per non inibirlo ulteriormente. Livio le sorrise, voltandosi poi verso l'ingresso, indicandolo con un cenno del capo.
«Guarda chi c'è.»
Isabella rischiò di commuoversi fino alle lacrime.
Romeo cingeva le spalle di Arturo in una morsa complice e affettuosa, mentre Arturo rideva a gran voce, leggiadro: nonostante le avesse confessato che soffriva d'insonnia, quando lei si era svegliata l'aveva lasciato a letto immerso in un sonno profondo, con le labbra piegate in una smorfia di soddisfazione nascoste sotto gli spessi baffi che aveva deciso di farsi crescere in occasione della festa. E ora rideva, di quelle risate complici di umorismo segreto concesso solo a fratelli e sorelle che Isabella aveva sempre invidiato da distante e che non avrebbe creduto possibili da parte sua fino a qualche mese prima.
«Ti piace proprio, eh?»
Nella voce di Livio non v'era traccia di amarezza o insinuazione: sembrava più a caccia di una conferma di qualcosa di evidente ma troppo delicato da palesare al mondo. Isabella ridacchiò.
«È un po' più complicato.»
«Buongiorno belli!» li salutò Romeo con calore, soffiando un bacio sulla guancia di Isa. «Bestiaccia, i miei rispetti.»
Isabella porse la mano ad Arturo con un sorriso ombrato di malizia divertita: Arturo, in risposta, si abbassò sul suo volto per baciarla con rapida foga, in un saluto di bramosia e di possesso che la fecero arrossire.
«Qua è scoppiato proprio l'amore, eh?» li punzecchiò Romeo, sedendosi, col sorriso divertito da ragazzino e la stessa luce innocente. «Son contento.»
Che ci sperasse dal principio non era un mistero per nessuno: lo stesso Livio ne era venuto a conoscenza quella notte, quando Isabella e Arturo si erano congedati con poche parole sbocconcellate e lo sguardo velato di un timore che non riusciva a celare il reciproco interesse e desiderio.
«Isabella è una brava ragazza» si era ritrovato a dire, pentendosi subito di quella frase tanto semplice, da conoscente improvvisato. «Si merita qualcosa di buono.»
«Anche mio fratello» aveva concluso con una nota di dolcezza Romeo, rassettando i pochi rifiuti che avevano lasciato gli ospiti nella stanza.
Lo sguardo di Arturo era perso oltre la vetrata della sala: Isabella gli accarezzò un palmo con un gesto leggero delle dita, sorridendogli.
«Tutto bene?»
«Sì sì» non si scompose lui, serafico: era evidente che, per quanto la sua attenzione fosse rivolta altrove, era presente e consapevole e non perso in fantasticherie e ricordi. Isabella si sporse un poco, tentando di seguire la traiettoria dello sguardo di Arturo e ritrovandolo aggrappato alla mastodontica prua sbiancata della nave da crociera di fronte a loro.
«Romeo» chiamò, semplicemente, indicandogliela con un gesto molle della mano: Romeo si voltò e sorrise.
«Ti ricordi quando l'abbiamo fatta noi la crociera, da piccoli?» sembrò animarsi in preda ai ricordi. Arturo ridacchiò.
«Scommetto che ci ricordiamo entrambi la stessa cosa.»
Una timidezza improvvisa gli velò il viso. Romeo gli rispose con un occhiolino sornione.
«Ana?»
Arturo rise, punto sul vivo: «Indimenticabile.»
«Chi è Ana?» indagò Isabella, divertita dall'ombra di vergogna di Arturo. Romeo ribadì la risata di poco prima.
«L'animatrice più bella di tutta la nave. Ma che dico, di tutta la flotta. Brasiliana, i capelli lunghi neri, gli occhioni grandi, le labbra carnose, il fisico proprio da... Da brasiliana!»
«Aveva anche una voce molto dolce» rincarò Arturo. «E molta pazienza con i bambini.»
«Quanti anni avevate?» aggiunse Livio, mentre un cameriere zelante serviva pane, grissini e bottiglie d'acqua in vetro.
«Quasi otto io e undici lui» spiegò Arturo. «Aspettava la lettera per Hogwarts, e invece è arrivato il biglietto per la crociera.»
«Io la lettera per Hogwarts la aspetto ancora» ammise Romeo senza imbarazzo. «Non è colpa mia se i registri dei Nati Babbani tra il 1985 e il 1998 sono stati distrutti.»
Una vibrazione insistente dai pantaloni di Arturo lo obbligò ad alzarsi da tavola.
«Umberto, dimmi.»
«Allora, finito di mantenere i segreti?»
Sebbene di consueto amasse la riservatezza, non era affatto felice di dover mantenere il mistero sulla natura della sua assenza con i suoi compagni: aveva ammesso che si trattava di un viaggio legato al lavoro di Romeo e che non poteva svelare alcunché, preferendo non inventare scuse che avrebbe rischiato di dimenticare e mettere in discussione più avanti.
«Quasi» ammise, malvolentieri. «Penso di poter almeno dire che sono in Liguria, per il resto non mi sbilancio neanche sulla città, figurati.»
«Porta della focaccia buona per farti perdonare.»
«Sarà fatto. Cosa volevi dirmi?»
Per quanto tentasse di mantenere un tono pragmatico, Umberto tradì un'elettricità entusiasta: «Ti ricordi Maurizio, il ragazzo che ci ha fatto da fonico alla Pulcetta?»
«E come no.»
«In pratica tra poco avrà una data con la sua band, mi ha detto che fanno inediti un po' prog, non ho ben capito... E cercano qualcuno che gli faccia da apertura e ha pensato a noi. Ci stai?»
Arturo rise: «Apertura?»
Per un momento, gli sembrò patetico affibbiare il protagonismo della serata a quelli che, ne era certo, erano ragazzini tenaci e preparati, ma pur sempre ragazzini.
Ciononostante, si ritrovò a sorridere.
«Quando?»
«Tra due settimane.»
Ridacchiò senza entusiasmo: «Tu sai solo prendere date sulla breve distanza, eh?»
«Almeno prendo delle date» si pavoneggiò Umberto. «Per il resto, come stai?»
«Affamato» tagliò corto: Umberto aveva il dannato vizio di allungare le conversazioni allo stremo, ma sapeva che, quando si trattava di cibo, diventava intransigente; come da copione, Umberto si congedò in fretta e gli ricordò l'importanza dell'acquisto della focaccia prima di chiudere la comunicazione.
Arturo osservò ancora la nave: era un colosso mastodontico dalla prua squadrata come una rompighiaccio e che, più che una nave da crociera dalle linee fendenti che aveva sempre visto negli spot, ricordava una sorta di enorme muso da bestia dei cartoni animati. Ne osservò il nome in elegante corsivo blu e sottolineato da un nastro tricolore, ritrovandosi ad avvicinarsi spontaneamente al vetro e spostando poi lo sguardo sui passeggeri, sulle hostess solerti in giacca giallo chiaro e gonna blu notte, le guide turistiche in polo arancione e la sempiterna placca appuntata sul petto e che, a differenza dei suoi ricordi che la rammentavano gialla e tondeggiante, era color argento e dalle linee rigorose e solide.
Erano passati più di vent'anni dalla sua prima e unica crociera. A tale pensiero, una parte di lui sembrò ridestarsi, in una miscela inspiegabile e agrodolce di attrazione e rimpianto.
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