XXV

Non esisté più nulla.

Arturo sapeva che nella stanza rimbalzavano urla di acclamazione, fischi, applausi e qualche parola oscena fuori luogo, ma non udiva niente: nella sua mente era esploso un rombo di tuono che aveva reso tutto ovattato e distante, e il balugino di una luce accecante gli impediva di vedere alcunché.

Isabella intrecciò le dita alla sua mano sinistra con una presa gentile ma salda, rimanendo il suo solo contatto con la realtà: Arturo portò la mano sinistra al suo viso, sentendolo rovente di vita e di gloria, risalì al mare di ricci e ne seguì per un momento eterno il moto delle onde, e solo allora si ricordò di dischiudere le labbra per accoglierla. In risposta, lei gli succhiò con dolcezza il labbro inferiore, lasciandogli addosso il vago retrogusto dello champagne bevuto alla villa, prima di separarsi e sorridere, orgogliosa.

Lo lasciò stordito e ubriaco, a osservarla in preda alla confusione, sopraffatto da una miscela caotica di emozioni di cui non riusciva a trovare il bandolo: dall'altra parte della stanza, Isabella gli sorrideva confortante e fiera, con vaga alterigia, il volto che palesava, per contro ad Arturo, una fermezza di intenti e una nitidezza assoluta riguardo a ciò che era appena accaduto e l'aveva condotta sino a lì.

Sentì un vociare diffuso e lontano, sebbene fosse accanto a lui, fatto di versi di derisione beffarda ma innocente, che il suo cervello si ostinava a celare sotto un tappeto di rumore rosa assordante, che prese forma pian piano nel volto di Romeo che gli faceva le smorfie di fronte.

«Tutto bene?» arrivò alle sue orecchie con precisione. Si destò, sbattendo le palpebre di corsa e scoprendosi ancora con le labbra semiaperte. Ridacchiò, nervoso, riassaporando la dolcezza del vino per un momento.

«Sì, scusate, sono rimasto un po' disorientato» ammise, senza smettere di ridacchiare: una tensione improvvisa, tenue ma soffocante, stava iniziando a sopraffarlo. Cercò di nuovo lo sguardo di Isabella, sempre saldo, specchio di una felicità non euforica e consapevole. Gli fu spontaneo voltarsi verso Livio, che rispose al suo sguardo spaesato con un sorriso carico di trionfo e consapevolezza.

«L'ho sempre saputo» gli disse, in un soffio. «Davvero non te lo aspettavi?»

Arturo rimase in silenzio, e Livio lo interpretò come un assenso muto.

Quando il gioco riprese il suo corso e i commenti si dissiparono con la stessa fretta con cui avevano preso forma, Isabella si alzò con una scusa e strinse le spalle di Arturo con un gesto rapido e deciso prima di allontanarsi.

Lui si aggrappò a quella stretta e ci basò le sue certezze.

Nessuno dei due avrebbe saputo ricordare come fosse proseguita la serata.

Sapevano di essere rimasti in camera, che Romeo avesse occhieggiato spesso verso suo fratello e che il fracasso era proseguito fino a che qualcuno non aveva iniziato a sbadigliare, e loro avevano colto l'occasione per chiudersi nella stanza di Arturo con un accenno di assurda incertezza che Arturo aveva scacciato con determinazione, osservando Isabella ridere di imbarazzo e di soddisfazione gioiosa.

Rise mentre gli sbottonava la camicia a singhiozzi con mani incerte, mentre tentava di slacciare da sola la cerniera posteriore dell'abito in paillettes, mentre disseminava sul collo di Arturo una scia di baci leggeri e poco prima di subire la dolce tortura del sesso orale; Arturo la osservava, ipnotizzato da tanta, traboccante euforia che li stava travolgendo a mano a mano, studiandone le espressioni del volto e le reazioni ogni volta in cui le imponeva le sue iniziative.

Voleva spingerla oltre i suoi stessi confini, ora che aveva tracciato il punto di non ritorno una volta per tutte, senza cercare tappe intermedie con il rischio di trasformarle in destinazioni.

La osservò abbandonare ciascun freno mentale di fronte ai suoi occhi avidi, mentre non smetteva di accarezzarlo con tenerezza affamata, come a voler imprimere nelle sue mani ogni suo dettaglio e conservarlo come un bene prezioso, senza forzarsi per compiacere lui e la sua ossessione, ma presa soltanto da sé e dal suo piacere.

E lui non avrebbe potuto esserne più soddisfatto.

Il sesso era diventato il mezzo estremo di un cammino iniziato insieme per caso, in cui l'aveva prima raccolta, poi guidata, fino a condurla all'apice di se stessa.

Quando Isabella arrivò all'orgasmo prese le mani di Arturo con decisione, con la stessa fame che l'aveva condotta da lui poco prima nella stanza di Romeo, come se cercasse ancora un appiglio tangibile al mondo: lui si forzò a privarsi di quel contatto, osservandola inarcare la schiena sopra di lui, chiudere gli occhi in preda a un sogno estatico, le mani stringersi al petto in un abbraccio, i lunghi ricci liberarsi dalla presa incerta dell'elastico piazzato alla bene e meglio poco prima, le gambe tremare fino a cedere e lasciarla febbricitante sul letto, ancora col sorriso stampato sulle labbra.

Arturo si congedò in bagno per sfilare il preservativo e concedersi un sorriso di vittoria.

Il vulcano si era svegliato.

Iniziava ad albeggiare.

Le tapparelle finestra della stanza di Arturo, esposta a est, erano rimaste aperte, e il primo sole della giornata rimbalzò subito sul volto di Isabella. Arturo la ammirò con attenzione, notandone per la prima volta i dettagli: una voglia rossastra sopra il labbro, a destra, le lunghe ciglia nere, gli occhi che, col sole dell'alba, si trasformavano in pozze di miele.

«Hai un dubbio» constatò lei, serena, guardandolo in viso. Parlava piano, la voce abbassata e morbida. Arturo sorrise.

«Sei sagace.»

Isabella sorrise e rivolse l'attenzione alla finestra, con l'orecchio appoggiato allo stomaco di Arturo: «È che...» esordì, incerta.

«Che hai riversato mille aspettative su qualcosa che non era così dorato come immaginavi?» ipotizzò Arturo, con un sorriso ispirato; Isabella sorrise a sua volta, con vaga nostalgia.

«In realtà, no. La prima sera che sono uscita con Livio siamo andati in un ristorante giapponese, e ho sentito subito addosso il timore di ordinare troppa roba, di fare brutta figura, di tutto ciò che si associa ai tipici primi appuntamenti in cui vuoi fare una bella impressione. Michelle mi aveva tirata a lucido, avevo dei boccoli perfetti, uno strato di trucco spesso un dito che mi rendeva la pelle levigata, l'eyeliner da gattona, insomma, ero una strafica, posso dirlo? Sì, posso dirlo eccome.»

Arturo rise: la immaginava artefatta, conformata ad altre migliaia di bellezze canoniche, con addosso una maschera sopra l'abito che i bulli le avevano cucito addosso.

«E lui era lì: bellissimo, elegante, divertente, e per me, per me, soltanto per me. Io, lui e solo il sushi a separarci. Un sogno. Abbiamo cenato, ha offerto lui, abbiamo preso un gelato, un appuntamento da commedia romantica da pochi spiccioli, di quelle che sai già come vanno a finire ma ti spensierano per due ore. Gli ho chiesto senza vergogna se a Linda, la collega che avevo visto scherzare con lui, non fosse infastidita, e lui mi ha subito fatto presente che non stavano insieme. Ma a fine serata, mi sono accorta che non mi andava di baciarlo.»

Si fermò un momento, più per efficacia narrativa che per necessità di tempo. Arturo restò in silenzio, accarezzandole i capelli con un gesto monotono.

«Ho pensato di aver bisogno di tempo. Ho aspettato tutti i nostri appuntamenti con eterno entusiasmo, ho custodito il segreto con Romeo facendo una fatica monumentale, ho letto i libri a cui ha accennato mentre parlavamo, guardato i film che ha detto per impressionarlo, fatto gli straordinari per fare bella figura sul lavoro. Ma c'era qualcosa che non andava.»

Corrugò le sopracciglia.

«Ne ho parlato con le altre e hanno ridotto la questione alla mia eterna insicurezza, ma sapevo che non era quello» strinse un poco il lenzuolo nel pugno. «E un giorno, mentre mangiavamo insieme, l'ho capito.»

«E che era?» domandò Arturo per mera cortesia, sapendo che ormai il discorso si era trasformato in una cascata di parole. Isabella sembrò non udirlo neppure.

«Ho rivisto la piazza di fronte alla cattedrale di Canterbury dietro di lui. È stato un momento, ma lì ho capito che, per quanto lui si fosse trasformato in un uomo potenzialmente perfetto, che l'entusiasmo del ragazzino diciassettenne che mi piaceva tanto si era evoluto in un uomo di successo, che tutto collimasse per darmi riscatto... Io non volevo riscatto.»

Rivolse lo sguardo ad Arturo: l'espressione sognante e lontana di poco prima era stata sostituita da uno sguardo convinto e da un sorriso furbesco.

«Ho capito che se ero riuscita a chiedergli di uscire era solo merito tuo. Quando ti sei messo a ballare con me da Romeo, ricordi?» Arturo ridacchiò, divertito, «mi hai praticamente detto che non te ne fregava niente che fossi patetica, scoordinata o che cazzo ne so.»

Rise.

«Pensa che in quel momento nemmeno ti vedevo. Ero estraniata, mi immaginavo in un locale tipo quello di "Pulp Fiction", a sedurre Livio. Ma c'eri tu. C'eri tu anche quando non avevo sonno e sono stata tre ore a parlare delle mie cazzate. E ci sei tu ora ad ascoltare tutte queste , di cazzate» concluse con una risata sfiatata tra la vergogna e la gratitudine. Poi chiuse gli occhi, abbassando di nuovo il capo sullo stomaco di Arturo.

«Credo che i rapporti debbano portarci a qualcosa di buono, ma più di ogni altra cosa a crescere, a evolverci» proseguì, il tono sempre più basso, vittima della stanchezza dopo quella nottata intensa. «A spingerci... No, "spingerci" no, meglio "sospingerci" verso un miglioramento, una versione riveduta, corretta e sistemata di noi stessi. E se mi fossi cristallizzata su Livio, sarei invece rimasta attaccata ai miei sedici anni, alla Isabrutta vittima delle prese per il culo in bagno senza mai scappare, o affrontarlo a faccia aperta. Chi mi ha portata di fronte allo specchio e mi ha imposto di fare amicizia con il mio riflesso, sei stato tu. E scendere a patti con se stessi, esorcizzare e perdonarsi, è bellissimo. E io voglio continuare a farlo, e per farlo ho bisogno di te.»

Sbadigliò.

«Forse è un modo egoista di vedere la vita. Ma credo che un così grande, bellissimo ascendente sugli altri sia un dono stupendo. E poi sono stanca di seguire le farfalle nello stomaco, le emozioni da montagne russe... Voglio seguire quello che mi fa sentire nel giusto. E tu mi fai sentire giusta.»

«Ho temuto che ti fossi innamorata di me» confessò Arturo, celando l'apprensione dietro una maschera caustica. Isabella ridacchiò.

«Te l'ho letto in faccia, in camera di tuo fratello. No, niente sentimenti. Solo giustizia. E so che in cuor tuo sai anche tu, che è giusto.»

Sbadigliò un'altra volta. Quando ricominciò a parlare, la voce si abbassò ancora, avvolta dal sonno.

«Tu accendi la luce nelle persone. L'ho visto con Romeo, come si approccia al lavoro da quando sei tornato. L'ho visto con gli altri musicisti. Lo vivo in me.

E poi ho sempre pensato che Livio sarebbe tornato da me quando sarei stata pronta, ed era vero: ero pronta a lasciar andare la me stessa del passato una volta per tutte, lasciando da parte anche i vecchi sogni e ricordi carini, grazie a te. Senza di te avrei continuato a sentirmi a mio agio solo con i vestiti tristi, che mi scendevano addosso dritti e larghi, facendo brillare sempre e solo chi mi stava vicino e vivere di luce riflessa pensando che fosse giusto così. Ma la Stella Polare non smette di esistere solo perché c'è Sirio sotto lo stesso cielo, no?»

Rise ancora, di una risata sovrastata dal sonno, legata al mondo onirico. Si sollevò un poco, appoggiando il capo sul petto di Arturo.

«Dio, ma che cazzo ho appena detto? Non ha senso... Tutto questo non ha senso» concluse, la voce distante. «Non ha senso... Ma non deve avere senso se mi fa stare bene...»

Si addormentò piano, scivolando nel sonno con l'ombra di un sorriso e il respiro profondo. Arturo chiuse gli occhi e le prese una mano per annusare la persistenza tenace dell'"Air Du Temps" sul polso nudo, inspirando fino a sentirlo in fondo ai polmoni. Poi si lasciò andare a un lento sospiro di estatica soddisfazione.

Sì, Isabella era un vulcano dormiente.

Ma Arturo era Efesto.


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