XXII
Il live club "La Pulcetta" era un distaccamento del teatro locale, dedicato alla messa in scena di piccoli festival, presentazioni minori e spettacoli dal pubblico ridotto: la facciata era stata ridipinta sui toni del verde petrolio, la serranda d'ingresso decorata con un murales astratto e il muro che cingeva lo spazio antistante invaso da vecchi volantini degli spettacoli trascorsi. Il foyer era immerso in un'eterna penombra, ospitava un bancone da bar grande e spartano ed era separato dalla sala da una spessa tenda in velluto blu notte. La sala aveva il pavimento in legno, la regia in fondo e un palco piccolo, privo di quinte, ma rialzato rispetto alla platea e grande a sufficienza da ospitare anche dieci musicisti per volta.
Il gestore era un ragazzo di mezza età, privo di rughe ma tradito dai capelli striati di grigio, dal sorriso gentile e che, a parere di Arturo, era l'incarnazione della parola "minuto": minuto era in altezza, minuto era il fisico di chi è avvezzo alla solerzia, minute erano le mani alle prese con cavi, microfoni e potenziometri, minuto era il pizzetto sotto le labbra strette, minuto era il tempo che impiegava a scoprire un qualsiasi problema all'interno del locale, individuarlo e risolverlo. Ciò che rendeva la situazione più buffa, era il fatto che i suoi genitori avessero deciso di battezzarlo con il nome di Massimo.
«Spero non vi dispiaccia» esordì, appena la serranda d'ingresso del locale fu sollevata del tutto, «questo discorso del fare il soundcheck il giorno prima.»
«No, guarda, se posso essere sincero, a me tranquillizza» ammise Umberto, annuendo. Massimo gli sorrise con fare paterno.
«Primo live?»
«Per me e lui, no» si intromise Tommaso, indicando Armando. «Avevamo una band al liceo, abbiamo anche fatto un paio di piccoli festival, di quelli che vanno a votazione, cose così, eravamo piccoli e pieni di sogni.»
Arturo ridacchiò: ne avevano parlato di recente, una domenica sera a fine prove con una pizza d'asporto sulle ginocchia. Armando aveva confessato di aver provato a scrivere qualche testo, ma che già allora, a suo dire, "sembrava come se Max Pezzali provasse a scrivere come Fabrizio De André", facendo scoppiare tutti in una grassa risata, e concludendo la serata con la promessa di ritrovare le fotografie di Tommaso con i capelli lunghi e il giubbotto in jeans saturato di toppe, borchie e spillette.
«Il fatto è questo» riprese Massimo, mentre li aiutava a scaricare batteria e amplificatori dall'auto di Armando. «Ho uno stagista che sta muovendo i primi passi in questo mondo, è molto motivato ma anche molto insicuro. Mi faceva piacere l'idea che potesse gestire lui un'intera serata, visto che siete solo una band e non deve settare mille suoni diversi, però un giorno di tempo rende tutto più rilassato.»
«La roba è al sicuro?» si volle sincerare Tommaso, serio, battendo una mano sul rullante.
«Abbiamo un magazzino chiuso a chiave e tiriamo giù la serranda, fino a domani non ci entrerà più nessuno. Comunque ho preparato un foglio che attesta che in caso di sparizioni ci prendiamo la responsabilità noi, tranquillo.»
«Mi fido, mi fido» si tirò indietro, in leggero imbarazzo. Umberto rise.
«No, davvero» li rassicurò Massimo, serio. «Ho avuto una band anch'io e so quanto ci vuole ad accumulare l'attrezzatura. Ah, eccolo.»
Li raggiunse un ragazzo che dimostrava poco più di vent'anni: una massa di capelli neri disordinata e schiacciata da un casco gli cadeva sul viso affilato, e gli occhi color pece dimostravano, a differenza di quanto preannunciato da Massimo, una serena fiducia nelle proprie conoscenze e capacità; il fisico asciutto si perdeva in un paio di pantaloni cargo neri e una maglietta degli Yes sbracciata. Aveva le mani sottili, i polpastrelli ruvidi e un callo fastidioso sotto il pollice, da chitarrista, e un anello sottile in argento sull'anulare sinistro.
«Sono Maurizio» si presentò, sorridendo. «Scusate per 'sto fatto del giorno prima, è colpa mia.»
«Vai tranquillo» lo tranquillizzò Tommaso. «Anche per noi è più comodo, in effetti.»
«Se serve, facciamo anche una specie di prova generale» gli diede manforte Umberto con aria speranzosa. Arturo annuì con vigore: «In effetti sarebbe una buona idea per tutti.»
Iniziarono a caricare la strumentazione sul palco, ma ci volle poco prima che Maurizio li congedasse: ogni volta in cui si proponevano di aiutarlo a stendere cavi o sistemare speaker si limitava a dir loro «Voglio farlo io, per favore» con serietà e ostinazione. Sistemava i cavi con rigore e logica, fasciandoli nel nastro adesivo con gesti metodici e raffinati che Arturo osservava con interesse e privo di imbarazzo; per quanto giovane, Maurizio sapeva il fatto suo.
«Uà, non so voi, ma io mi sento una rockstar proprio» commentò Armando con entusiasmo, dopo aver acceso una sigaretta. Tommaso ridacchiò.
«In effetti ci manca solo che ci offrano da bere e un camerino.»
«Mai visto un trattamento così» proseguì Armando, serio. «Di solito è già tanto che ti sorridano, altro che. Bellissimo.»
«Senti un po'» deviò il discorso Umberto, osservando Arturo tentare di creare cerchi di vapore con la sigaretta elettronica. «Se quell'aggeggio lo usassi anche domani sera per fare atmosfera, ti andrebbe? Secondo me si può fare qualcosa di figo.»
Arturo sorrise: «L'ho comprata perché fa scena, non posso che essere d'accordo.»
«Prossima cover da studiare: "Fumo blu" di Mina» commentò Tommaso, tra il serio e il faceto. «Secondo voi ce l'hanno la macchina del fumo, qui?»
«Per forza, sennò non si vedono gli occhi di bue.»
«Ogni volta che qualcuno chiama i seguipersona "occhi di bue", da qualche parte, nel mondo, un tecnico piange» li raggiunse la voce di Massimo alle loro spalle, scherzosa. «Quando volete, abbiamo finito con il palco. Vi avviso, il soundcheck potrebbe portare via un'eternità.»
Ci volle tempo, più di quanto Tommaso e Armando, già avvezzi al palcoscenico, avessero mai immaginato, ma l'attenzione che ebbe Maurizio nel curarlo fu parimenti straordinaria: girava la sala a passi lunghi con occhi chiusi e la mano destra ad accarezzare il mento, pensoso, confrontandosi con Massimo riguardo a risonanze e controfasi; sistemò con precisione millimetrica gli speaker sul palco e i microfoni sulla batteria, informandosi su come volesse muoversi Arturo lungo la sala per gestire volumi e cavi, e concluse lasciando che suonassero il brano che avevano scelto per aprire il concerto, complimentandosi con applausi e urla.
Uscirono dalla sala come ubriachi, euforici, correndo fino al parcheggio e tornando al garage ascoltando musica ad alto volume; Arturo recuperò il motorino per tornare a casa, dove oltre a Romeo, lo attendeva Isabella.
«Sempre qua stai?» la provocò, divertito, soffiandole il consueto bacio sulla mano: «Cambiato crema per le mani?» aggiunse senza vergogna, di fronte all'odore di cocco. Isabella rise.
«La cambio sempre, d'estate» mentì.
«Comunque volevamo solo festeggiare il tuo esordio di domani sera» spiegò Romeo, divertito. «Non ho ancora iniziato a cucinare solo perché mi hai detto che ci avresti messo un secolo ad arrivare, Mister Musone.»
«Gnegnegne» ribatté Arturo con una smorfia. Isabella, in risposta, recuperò un grembiule bianco, decorato a pennarello con firme, piccoli disegni elementari e il suo nome sulla parte superiore, invitando Romeo a seguirla: Arturo la osservò muoversi con passi brevi, quasi saltellati, mai notati nei mesi precedenti, mentre le lunghe gambe flessuose erano nude, esposte da una gonnella a metà coscia a fantasia fiorata di colori vivaci; le mani guizzavano lungo la cucina con decisione, il viso abbronzato aveva un nuovo tono, come se all'interno fosse stata accesa una luce piccola ma intensa. Valutò più di una volta se domandarle come stesse, ma quando provò a prendere parola la vide strizzargli l'occhio e fargli un cenno di tacere, indicando Romeo con un piccolo movimento del capo.
«Per quella storia dell'ufficio, invece?» esordì Arturo, dopo aver ingoiato l'ennesima tapa: Romeo aveva deciso di festeggiare trasformando il terrazzo in un piccolo angolo di Spagna, proponendo tapas, paella e polpo alla galiziana, in onore di un viaggio che si erano concessi più di dieci anni prima senza chiedere, per la prima volta, il permesso al padre e con i risparmi dell'estate a lavorare.
Romeo scrollò le spalle: «Se ne parlerà più avanti» spiegò. «Adesso continuo a concentrarmi solo sullo streaming, tutto il resto verrà dopo, con calma. Ti spiego, in pratica dopo il video della maturità ho fatto una live dove chiedevo come fosse andato l'esame, di parlare un po' di quello tutti insieme, una cosa così... Ha riscosso un buon successo, allora voglio concentrarmi su questa parte un po' più interattiva, per così dire.»
Isabella ridacchiò: «Senza arte né parte...»
Arturo sollevò un sopracciglio: «"Senza arte né parte"?»
Isabella rise ancora: «No, niente...»
Cercò nello sguardo di Romeo un assenso per affrontare il discorso in arrivo: «Quando io e lui ci siamo conosciuti, lui non aveva più un management» spiegò, abbassando lo sguardo sul piatto ormai vuoto, «perché stando a quelli dell'agenzia lui era un bel faccino senza arte né parte. Insomma, l'avevano spremuto abbastanza e non gli serviva più.»
«Per questo ci siamo conosciuti su Twitter» aggiunse Romeo, lo sguardo fisso su un bicchiere, a mezza voce.
Arturo annuì senza convinzione, mentre lo sguardo saltava da un viso all'altro: gli sembrò di leggere nel loro discorso una sorta di giustificazione, di tentativo estremo di porre una pietra tombale sulla rottura tra lui e Romeo con una chiusura che verteva su un futuro che non gli sarebbe mai potuto appartenere, come a rassicurarlo che ci fosse la mano di un destino in cui non credeva nessuno di loro.
Abbassò anche lui lo sguardo sul piatto vuoto e, nel silenzio afoso, gli parve di risentire le urla incitanti di Maurizio, quelle felici di Umberto accanto a lui in auto e le risate di tutti loro durante le ore di prove, chiusi in quel garage opprimente e ormai saturo di odore di sudore, birra e gomma, il pavimento appiccicoso qua e là. Ripensò al tempo passato con i suoi vecchi coinquilini, a quanto odiasse i cattivi odori, la sciatteria della casa, la presenza di altri tre insieme a lui e a come ora tutto ciò fosse per lui motivo di alzarsi col sorriso.
Con la coda dell'occhio, vide Romeo alzarsi per sparecchiare e lo fermò con un cenno della mano, versando un bicchiere generoso di vino a entrambi e uno di acqua tonica a Isabella, sorridendo.
«Voglio brindare» spiegò, solenne. Romeo sorrise.
«L'avevamo capito.»
Arturo rise: Romeo aveva il vizio di rompere le atmosfere più serie da che aveva memoria, temendole e vivendole addosso come un'oppressione.
«Voglio brindare a questa sera, a domani, a tutte le sere a venire. Perché siamo felici» ammise, col cuore gonfio di leggerezza.
Romeo lo osservò con gratitudine. Isabella gli scoccò uno sguardo complice e un sorriso enigmatico, soddisfatto.
«Al successo» aggiunse, sollevando il bicchiere. «Qualsiasi esso sia. Skumps!»
«Prosit» gli fece eco Romeo, euforico, facendo spillare qualche goccia di vino dal bicchiere, fatto che lo fece ridere ancora più forte.
«Santè.»
Isabella bevve di corsa, prese la bottiglia di vino e se ne versò due dita, osservando Arturo con divertimento e porgendogli ancora il bicchiere in un secondo brindisi.
«Credevo fossi astemia» azzardò, appena Romeo si alzò per andare in cucina. Isabella sorrise, battendo il fondo del bicchiere sul tavolo.
«Sta cambiando il vento, Arturo.»
Abbassò un poco la testa, guardandolo da sotto in su, sorridendo ancora, sorniona.
«Ah, a proposito... Domani vengo accompagnata.»
Arturo, osservandole gli occhi, vide con nitidezza un rossore di fuoco rischiararle le iridi scure.
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