XX
Le prove si intensificarono in fretta.
In circa tre settimane riuscirono a sviluppare un rapporto fatto di umorismo, interessi simili e, com'era prevedibile, musica: il loro repertorio spaziava ovunque fosse loro possibile grazie alle conoscenze dei rispettivi strumenti e ovunque arrivassero i loro gusti e interessi, seguendo la logica per cui sceglievano un brano per ciascuna band, senza favoritismi. Era un rapporto fatto di rispetto, confronto, molto dialogo e senza mai desiderio di prevaricazione, cementato dall'esclusivo interesse di fare musica insieme e, come ripeteva spesso Armando, "pazzia' 'nu poco"; Arturo li aveva convinti in fretta ad aggiungere un paio di brani all'arsenale, e aveva preso il vizio di cantare senza vergogna anche in casa, in ogni occasione possibile.
Quando sapeva di non essere visto, Romeo si commuoveva ad ascoltarlo.
Lo vedeva sereno, giocoso, a suo agio in casa e disinibito; scherzava più spesso, rideva molto, proponeva iniziative di qualsiasi natura, fosse concedersi una cena fuori casa o recuperare commedie frivole on demand al puro scopo di riderne e passare due ore privi di pensieri. Le cene fuori le aveva offerte lui, senza che Romeo sapesse con che risparmi e senza domandarglielo, temendo che lo considerasse un tentativo di chiedergli una parte di utenze, spesa o mutuo. Addirittura i vestiti iniziarono ad essere di colori più brillanti.
Qualche giorno prima, Umberto si era presentato alle prove trafelato e col fiato corto, come se arrivasse da una corsa forsennata.
«Abbiamo una data.»
Per quanto ne fosse felice, era palese che l'idea lo intimorisse. Gli sguardi scioccati degli altri tre lo fecero deglutire rumorosamente e sbiancare.
«Quando?» aveva rotto il silenzio Tommaso.
«Tra un mese, più o meno.»
«Ma tu si' pazz'.»
«Ci pagano.»
«Ok, figata, ma non possiamo fare figure di merda e un mese è poco. Pochissimo.»
«Proveremo di più. Ogni momento possibile. Via Zoom, piuttosto.»
«No, grazie, dopo la pandemia l'ho disinstallato. A vita» aggiunse Armando, puntando l'indice sulla cassa della chitarra.
«Dove?» incalzò Tommaso, serio.
«Alla Pulcetta.»
«Eh be', bello!» Tommaso annuì, ammirato: si trattava di un locale modesto e buio, in cui Arturo aveva visto un paio di concerti locali, ma dall'acustica ottima e la posizione centrale. Soprattutto disponeva di un palco effettivo, a differenza di altri luoghi che confinavano i musicisti in un angolo, tra un aperitivo e un'ubriacatura di troppo.
«Ha ragione» prese parola Arturo, guardando i compagni con serietà. «Proveremo a casa, da soli, in pausa pranzo, anche mezz'ora ogni giorno, ma che sia ogni giorno. Tanto qua tra poco scoppieremo di caldo, quindi tanto vale.»
«Cosa proviamo, ognuno per sé e poi facciamo un collage?» lo interrogò Tommaso tra i denti, sarcastico. «Scusa se te lo dico, ma per te che sei il cantante è più facile.»
«Tu sei il batterista, sei il motore del gruppo» gli ricordò Arturo, serio, blandendolo senza suonare ruffiano. «Se non ho il tuo riferimento, io mi muovo alla cieca, ma almeno ho la voce allenata a sufficienza da non arrivare tra un mese a metà concerto che sembro una gallina. Piuttosto ci mettiamo in mezzo degli assoli strumentali, uno per ciascuno, chi l'ha detto che possono farlo solo le grandi band?»
La voce di Armando si fece strada a malapena: sembrava più preso da un ragionamento tra sé, che dalla discussione, quando esordì con «Io, il mercoledì sono di riposo.»
«Posso chiedere di fare solo il mattino o il pomeriggio al mercoledì» gli diede manforte Umberto, mentre le guance iniziavano a riacquistare colore. Tommaso storse la bocca.
«Be', se si facesse di mattina, anche iniziando presto... Iniziamo con le ballate, pezzi tranquilli per non dar fastidio, poi ci diamo dentro...»
La mozione era stata approvata all'unanimità, iniziando il mercoledì stesso. Di ritorno da quasi cinque ore di prove, Arturo sfilò il casco con calma e rimase in silenziosa attesa: il leggero ronzio nell'orecchio destro che l'aveva accompagnato dall'uscita dal garage si era attenuato fino a sparire, per sua fortuna senza trasformarsi in acufene. Ripose il casco sotto la sella del motorino e salì le scale interne del garage a passi allegri, quasi a saltelli, con ancora addosso l'euforia delle prove e della data segnata con tanto di cerchi, stelle e punti esclamativi sul calendario. Si sentiva come un bimbo a Natale.
A metà tragitto udì un'eco sommessa farsi strada dalla base del portoncino di casa e spandersi nel vano alto e stretto delle scale: scosse la testa, ridendo, augurandosi che suo fratello non avesse deciso di sconquassargli le orecchie già stanche con grandi successi radiofonici e generi che non fossero di suo gusto; anche arrivato sul pianerottolo, non riuscì a distinguere di più di un brusio e una voce maschile acuta e strillata.
Infilata la chiave nella toppa, la musica proruppe in una chitarra monotona e incalzante, la batteria a darle manforte e la voce maschile a coronare il tutto, a volume tanto alto da coprire il rumore metallico della chiusura del portoncino: li riconobbe subito, sorridendo al pensiero del cantante e della sua estetica ispirata a Joan Jett e Freddie Mercury, di cui imitava le sonorità risultando solo una copia carina. Li aveva sentiti spesso e imparati ad apprezzare, al punto che aveva imparato il testo senza mai averne letto un rigo.
Si affacciò oltre il corridoio con l'intenzione di far sobbalzare Romeo, ma trovò Isabella.
Era nel corridoio che conduceva alle camere da letto, che dava le spalle alla zona giorno e si dimenava: scoordinata, caotica, come una bambina che tentava di imitare una coreografia vista in TV senza conoscenze di danza, a volte senza seguire il ritmo, ma spensierata. Ne percepiva il senso di libertà pur non vedendola in viso, a vederla mulinare i capelli sciolti e seguire passi solo suoi, a piedi nudi.
Sorrise tra sé.
Si nascose in un punto cieco del corridoio, aspettando che scemasse il primo ritornello, non riuscendo a evitare una risata di giocoso scherno.
Stava per vendicarsi.
Non appena il ritornello si concluse si avvicinò a lei, seguendo il ritmo lineare della batteria e cantando a bassa voce, recuperando in fretta la serietà necessaria per sembrare credibile: lasciò cadere la giacca in pelle per terra mentre lei si voltava e, com'era prevedibile, sussultava, si bloccava e apriva la bocca per mettere a tacere la musica.
Arturo la raggiunse e le mise l'indice sulle labbra, lasciando che le altre dita le cingessero la mascella: «If it's my imagination, stop me if I'm wrong!» esclamò seguendo il testo, iniziando a dimenare le anche e lasciando le mani libere per schioccare le dita a tempo, senza smettere di guardarla con aria di sfida.
In realtà, se ne rese conto allora, non voleva vendicarsi. Voleva portarla allo stremo dell'imbarazzo, sciogliere ogni sua remora e poter osservare il suo dannato potenziale esplodere, permeare la stanza, la casa, l'intera città e non solo i suoi occhi d'ambra: vide il volto di Isabella tremare un momento, poi aprirsi in un sorrisetto beffardo, accogliendo in silenzio la sfida, portando le mani dietro la schiena.
Arturo le concesse una breve smorfia ammirata, prima di riprendere a seguire la voce principale e il testo, incentrato sull'importanza del linguaggio corporeo e della sua incapacità di mentire, lasciandosi trasportare dall'allegria vivace della parte strumentale, al punto da dimenticare i suoi propositi e muovendosi a sua volta senza criterio, né vincoli, ad occhi chiusi.
Quando li riaprì, Isabella aveva ripreso a ballare in libertà: nonostante i movimenti sgraziati, quell'assoluto menefreghismo la rendeva eterea e sensuale al contempo, trasformandola in un veicolo di perdizione e ascesa, ponendo in luce la sua essenza di contrasti. Dovette imporsi di non fermarsi a osservarla, seguendone invece i passi, senza levarsi dal volto la maschera di spocchia arrogante che si era imposto, a cui lei rispondeva con crescente diletto e imitando coreografie a due rubate dai film, tentando di adattarne i passi al ritmo della canzone.
Arrivarono nel salone, scalciando via il chiodo che Arturo aveva lasciato cadere poco prima, improvvisando una partita di acchiapparella fintamente coreografica, in un cerchio senza inseguito né inseguitore, rischiando di rovinare sul divano: riconoscendo l'approssimarsi del termine, Arturo si azzardò a prenderle il braccio, farle fare una giravolta (era certo che lei ne avrebbe riso: glielo confermò subito) e approfittare del suo istante di debolezza per stringerla a sé senza malizia o desiderio, al solo scopo di ripristinare lo stordito imbarazzo iniziale.
«Your body talks» le ricordò, il naso che quasi le sfiorava la fronte, sorridendo sardonico.
Lo sguardo di Isabella, vivo, presente e disorientato fino a pochi secondi prima, non c'era più. Quando Arturo provò a guardarla negli occhi non vide nemmeno riflessi i suoi: era distante, persa in una dimensione onirica e temporanea che, a giudicare dal sorriso, la rendeva felice. Poi, così com'era fuggita, tornò cosciente di fronte a lui e rise, stringendo i pugni sul petto di Arturo e abbassando lo sguardo. Lui sciolse la presa, concedendole un sorriso.
«Uno pari» sentenziò, serio. Lei scostò una ciocca dietro l'orecchio con un gesto rapido, recuperando l'eleganza insita nella sua quotidianità introversa e lo sguardo famelico di Arturo che seguiva la sua mano destra.
Quel ritorno alle loro solite dinamiche relazionali riportò a galla l'imbarazzo per un momento: «Credevo fossi con tuo fratello.»
«Non so neanche dove sia.»
«A pranzo con vostro padre.»
Lo vide stringere le mani in un pugno leggero, residuo di una rabbia vecchia e mai sopita, assottigliare gli occhi e abbandonare le tracce della leggerezza di poco prima. Valutò in fretta le parole più adatte a consolarlo, ma fu anticipata da lui stesso.
«Non gli parlo più.»
Arturo restò in attesa del consueto "Mi dispiace" che seguiva quell'affermazione, escludendo la possibilità che Romeo gliene avesse fatto menzione in precedenza vista la sua supposizione: Isabella, invece, annuì seria, limitandosi a un «Ok.»
La osservò un momento, stupito: «Ok?»
«Ok.»
Arturo la osservò un momento: vide il volto oscurarsi in preda al rammarico per lui, i dubbi farsi strada sulla fronte, le mani torcersi e finire dietro la schiena senza sotterfugi.
«Comunque, uno pari» ribadì, per fugare il discorso e tentare di ristabilire l'atmosfera scherzosa di poco prima. Isabella abbassò il capo, incassando il pareggio a braccia conserte.
«Peccato che, mentre tu scoprivi un talento, io mi sia solo resa patetica.»
«No.»
Non gli credeva. Ma Arturo mise una tale fermezza di intenti in quelle due lettere che la schiena le rabbrividì un momento, come se la fonte del brivido fosse il cervello e non, come di consueto, la nuca. Sciolse le braccia, piegando la testa di lato.
«Eri solo libera. E la libertà non è patetica, mai.»
Isabella sorrise: non era ancora in grado di decifrare Arturo, nonostante il tempo già trascorso in compagnia e le piccole, ma a loro modo intense, esperienze vissute assieme. Talvolta le appariva come un ragazzino egocentrico mai cresciuto abbastanza che dispensava chicche di saggezza da libri new age, salvo poi scavare e trovare un giovane uomo pieno di irrisolti e conflitti, e non aveva idea sulla collocazione del passo a due di poco prima.
«Hai mangiato?» deviò ancora il discorso Arturo. «Scusa, ma dopo cinque ore di prove sono parecchio affamato.»
«A saperlo ti avrei preparato qualcosa» ammise Isabella. «Solo che sono venuta a controllare una cosa in studio, poi mi sono persa in procrastinazione e quello che hai visto, hai visto.»
«Direi che hai già mangiato.»
«Sì, e tra l'altro ora devo andare» si giustificò in fretta, recuperando lo zaino che le aveva regalato Romeo qualche tempo prima dall'armadio a muro: l'impaccio era tornato a galla come petrolio, inquinante e pernicioso, e la fuga era rimasta l'unica maniera per disfarsene.
Arturo la accompagnò alla porta e, prima di congedarsi, si inginocchiò un poco per il consueto baciamano e la ventata familiare di zucchero a velo sintetico.
Isabella gli sorrise senza arrossire.
A porta chiusa, Arturo avrebbe potuto giurare di sentire il pavimento tremare per un istante sotto i suoi piedi e assestarsi fino a che Isabella non terminò la rampa di scale che la conduceva all'uscita: chiuse gli occhi, si appoggiò alla porta e sorrise, glorioso.
Il vulcano si stava risvegliando.
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