XV
«Sei sicuro che non ti dia fastidio?» ribadì Romeo, nervoso. Arturo, in risposta, gli tirò uno dei guanciali in viso, ridendo.
«Sarà la quinta volta che me lo chiedi, e la quinta volta che ti dico che a casa tua ci fai quello che ti pare, a maggior ragione quando si tratta dell'unica persona che ho effettivamente conosciuto del tuo ambiente.»
Romeo sorrise, amaro: «Non è che ci sia un grande ambiente da conoscere» spiegò, sprimacciando il guanciale per sistemarlo. «Alla fine della fiera, Isabella è tutto il mio mondo o quasi, anche se adesso stiamo valutando di espanderci. Sai, prendere un ufficio vero, una redazione, qualcosa di un po' più cicciotto di una sala di posa arrangiata in una camera.»
«E cosa te ne fai di una redazione e di un ufficio?»
«In che senso?» temporeggiò Romeo.
«Senti...» esitò Arturo, intimidito. «L'altra notte non dormivo e...»
«Un altro incubo?» lo interruppe Romeo, serio. Arturo trattenne l'impulso di andarsene.
«No, tranquillo. Comunque, ti dicevo, ho visto tutti i tuoi video.»
Romeo non riuscì a trattenere un sorriso di orgoglio e soddisfazione che gli arrivò fino agli occhi, illuminandoli: «E allora?»
«Quindi mi è sembrato tutto gestibile qui, alla fine siete tu e una videocamera.»
«Isabella sta pensando di passare anche ai podcast» spiegò Romeo, calmo. «E se devo dirti la mia, credo che si sia rotta il cazzo di stare tutte quelle ore al computer a occuparsi di tutta la parte di redazione, credo che voglia farsi aiutare da qualcun altro ma non si osi a chiedermi niente per un discorso di soldi.»
Arturo scosse la testa, ridacchiando: «Quindi siete colleghi, ma in pratica parlate più della vostra vita privata che di lavoro?»
«No. Ad esempio, non ho idea del perché mi abbia chiesto se può fermarsi qui stanotte.»
Per la prima volta da quasi due mesi, Romeo lesse un lampo di apprensione negli occhi di Arturo; lui abbassò lo sguardo con solerzia, imbarazzato.
«Non vorrei che diventassi uno di quei... divi arricchiti e pieni di sé che si ritrovano soli con la loro carriera e i loro soldi.»
«Un po' lo sono già» ammise infine Romeo, amareggiato, stringendo le braccia al petto.
Era ben consapevole di non avere alcuna necessità di un luogo di lavoro al di fuori di casa sua, né di un gruppo nutrito che lo seguisse; aveva preso l'abitudine di barricarsi dietro gli impegni lavorativi per non confessare a cuore aperto che, sebbene fosse circondato da volti, il cellulare scoppiasse di messaggi ed esistesse addirittura una pagina fan dedicata a lui, era in realtà rimasto solo.
Il gracchio del citofono li fece sussultare entrambi, e Isabella piombò in casa con uno zainetto in tessuto giallo dall'aria vissuta, scarabocchiato sulla tasca anteriore e ingrigito dal tempo: i suoi modi deferenti e timorosi erano scomparsi, lasciando spazio a una fretta di stanchezza rabbiosa. Romeo le corse incontro, aiutandola a sfilarsi il cappotto con galanteria, mentre Arturo la fissò da distante, sotto la volta tra la sala e le camere da letto, limitandosi a salutarla con un inchino appena percettibile.
«Che è successo?» indagò Romeo recuperando lo zaino da terra e sistemandolo sul divano. Isabella scosse la testa, abbozzando un sorriso amaro.
«In realtà non è niente di che, davvero. Solo che non avevo voglia di stare sola.»
«Isa...»
«Meo, davvero, sto bene» ribadì, sicura. Arturo non riuscì a negarsi un risolino divertito, che Romeo accolse con uno sguardo inceneritore.
«È un po' apprensivo» spiegò, avvicinandosi e non accennando a smettere di sorridere, sempre più divertito. «Spero che la cosa non ti offenda, madame» concluse, afferrandole la mano destra con dolcezza (un anello al medio, grosso, pesante, sproporzionato per quelle dita sottili, con una pietra azzurro chiaro sopra che lo stranì un momento). Anche se di palese controvoglia, Isabella arrossì con puntualità.
«Credevo di risparmiarmelo, stasera!» provò a redarguirlo con tono severo, senza riuscire a nascondere la lusinga che gli generava quel gesto. Arturo sorrise.
«Consideralo il mio bacio della buonanotte.»
***
«Anche tu insonne?»
Arturo sussultò e sgranò un poco gli occhi, trattenendo un'imprecazione che gli risaliva dalla gola.
«Ti pare il caso di arrivare alle spalle così, in silenzio?» domandò, spegnendo la sigaretta elettronica con foga.
«Non sapevo fumassi» proseguì Isabella, serena: indossava un paio di leggings bordeaux scoloriti, una maglietta bianca che recitava uno slogan appena leggibile stampato in pressofusione e una felpa appoggiata addosso, incorniciata da un paio di semplici infradito verdi ai piedi e una treccia morbida che le lasciava scoperto il viso. Arturo risistemò la sigaretta al collo, nascondendola sotto la fedele maglia dei Muse.
«Non c'è nicotina, è solo per scena.»
«Scena?»
Piegò la testa verso destra, come un cucciolo curioso, senza avvicinarsi o alzare il tono della voce, ridotto quasi a un bisbiglio rispetto all'iniziale protesta di Arturo. Lui sorrise.
«Fanno un bell'effetto nelle fotografie e sanno di buono. A onor del vero, avevo anche dimenticato di averla, me ne sono accorto quando ho traslocato qui ma la uso di rado, solo che non ho sonno, non ho libri e non ho voglia di incollarmi al telefono, per cui dovevo trovarmi qualcosa da fare.»
Era una verità parziale: aveva preso la decisione di acquistarne una per riempire i momenti di attesa solitaria, pur di non farsi trovare con le mani incollate allo smartphone o con lo sguardo in corsa alla ricerca di qualcosa da scrutare per ingannare il tempo, optando per una soluzione che, per quanto si rendesse conto che tale pensiero era in realtà infantile, trovava che gli desse un alone di maggior carisma.
«E tu?» la imbeccò, mentre Isabella si accomodava sulla chaise longue e gli porgeva una bottiglietta di acqua tonica, facendolo ridere.
«Scusa, sono astemia» si giustificò. «Astemia e insonne.»
Arturo prese la bottiglietta, senza smettere di sorridere: «Non ti preoccupare, anche perché per me è meglio se mi tengo distante dagli alcolici per un po', non so se Romeo ti ha spiegato...» lasciò la frase in sospeso: lei fece un cenno di diniego con l'indice.
«Non so niente, e se devo essere sincera non mi interessa. Per quanto sia paradossale, io di Romeo so poco e viceversa.»
«Come mai sei insonne?» ribadì Arturo, serio, accomodandosi su un pouf vicino a lei. Isabella fuggì dal suo sguardo e sbuffò.
«Stupidaggini. Stupidaggini che a trent'anni compiuti non dovrebbero neanche esistere. E ti prego, non guardarmi così, con quella faccia seria e le mani giunte da analista, che mi sento ancora più in soggezione.»
Rimasero un momento in silenzio.
«Non ne parlo con nessuno. Non ho voglia di giudizi, di sentirmi dire le solite quattro o cinque cazzate di pseudo conforto che mi fanno solo sentire peggio, voglio solo...»
Sospirò. Un sospiro pesante, che ad Arturo suonò umido.
Portò una mano al viso per nascondersi, alzando gli occhi al cielo.
«Voglio solo starmene tranquilla ad ascoltare musica triste e piangere in pace.»
Arturo ridacchiò: «"Ogni lacrima è una storia, Marabel".»
Isabella sembrò illuminarsi: si issò sullo schienale della sedia, lasciando il viso libero e le labbra spalancate in un piccolo cerchio: «Conosci Massimo Bubola?»
Arturo si scoprì in imbarazzo: «No, l'ho solo letto sul tuo zaino.»
«Hai capito Sherlock Holmes!»
Si accomodò di nuovo, più rilassata, appoggiando la bottiglia a terra, lo sguardo perso nel cielo: «Ho rischiato di chiamarmi così» spiegò. «Papà è un fanatico della musica italiana, così, quando i miei hanno scoperto che ero femmina, il ballottaggio è stato subito tra Marabel e Jesahel. Mamma ha mediato con Isabella, e papà ha ceduto dicendo che faceva una bella crasi con il cognome e sembrava molto figo.»
«Isabellauri... Laurisabella...» assaporò piano Arturo, a mezza voce e ad occhi chiusi.
«Fino alla terza media sono stata la classica bambina sveglia che secondo gli adulti avrebbe potuto diventare un fenomeno. Solo che, come nei film, c'era il rovescio della medaglia: ero secca secca secca» e insisté su quell'immagine, esibendo entrambi i mignoli alzati, «con l'apparecchio, i denti storti, i baffi e la fronte altissima. Mi tiravano addosso le cartacce per poi dirmi "Oh, scusa, credevo fosse il bidone", penso sia inutile dire che mi chiamavano "Isabrutta" o "Isacessa", pure le amiche appena andavo in bagno iniziavano a dirmene di ogni. Così ho provato ad arrivare alle superiori con la cosa di dire "Scuola nuova, nuova me" e tutte quelle idiozie, ma in realtà ero sempre io. Così, pure le superiori hanno fatto schifo.»
«Che hai fatto alle superiori?»
Lei rispose con un verso sarcastico: «Socio psico pedagogico: un vespaio tutto al femminile, e credimi, non c'è niente di peggiore di una marmaglia di ragazzine adolescenti.»
Arturo rise: «Oh, lo so. Ne vengo dal liceo classico, un postaccio carico non solo di adolescenti, ma di adolescenti supponenti.»
«Sono uscita con un sessantaquattro, un calcio in faccia e parecchio disprezzo. Sono arrivata al DAMS, ho iniziato a smanettare con il video editing e il resto è storia» concluse lei con semplicità. Arturo assottigliò le palpebre, serio.
«E sei sveglia alle due del mattino perché stai pensando al liceo?»
Lei si incupì un momento.
«In un certo senso.»
Silenzio.
«Ma è molto alla lontana, non ti credere.»
Silenzio.
«Anche se alla fine, finisce sempre tutto lì.»
Arturo sorrise con leggero sarcasmo, abbassando il capo per non mostrare il misto di divertimento e stizza che l'aveva colto: «Parla» invitò, tranquillo. «Tanto si capisce che vuoi parlarne, per cui sputa il rospo e basta.»
Isabella sospirò un'ennesima volta guardando davanti a sé, prese il tappo della bottiglia e lo lanciò contro il parapetto del terrazzo con un gesto molle.
«In quarta superiore ho conosciuto uno» spiegò. «Non ti sto a raccontare i dettagli ma ci siamo persi in fretta, anche perché non è che ci siamo mai parlati più di tanto, in realtà. Solo che una parte di me è rimasta illusa che prima o poi, quando i tempi sarebbero stati maturi, ci saremmo ritrovati. E niente... Me lo sono ritrovato in ufficio otto mesi fa, più o meno.»
«Così il cervello ti ha fatto corto circuito e sei tornata quindicenne» dedusse Arturo.
«Credi nel destino, Arturo?»
«Credo nella volontà.»
«Io non ci ho mai creduto» lo spiazzò, caustica. «L'ho sempre trovato una scorciatoia per chi si lascia trascinare dalla vita, piuttosto che viverla. Ma quando è arrivato, si è messo davanti a me, ha sorriso e si è presentato, mi sono detta che eravamo pronti a ricominciare da zero. Ero pronta a ricominciare da zero. Ma» le si ruppe la voce, infame, al punto che decise di non ignorare il suo istinto e piegare il viso al pianto, «ho aspettato così tanto di prendere coraggio che... Ah, ma perché devo essere così a trent'anni, cazzo, le mie compagne di liceo sono cresciute di sicuro... Insomma...»
«Hai perso il treno» concluse Arturo, asciutto, senza sapere come agire: non era mai stato un amante del contatto fisico, né abile con le parole, per cui decise di mantenersi in silenzio.
«Forse» provò a illudersi lei. «Insomma, li ho visti scherzare insieme, l'ho vista... Toccarlo di sfuggita, ma sai quando le cose te le senti e allora va tutto a puttane?»
Alzò lo sguardo verso Arturo, in cerca di risposte e trovandolo distante, come se non riuscisse a processare quella mole di informazioni.
La aggredì l'imbarazzo.
«Scusa, io...»
«Il punto è» esordì infine lui, a sorpresa, «che dall'esterno sarebbe molto facile dirti tante belle parole di conforto, un po' qualunquiste ma di sicuro sincere, calzanti e tutto. Ma la verità è che io un amore così totalizzante non lo provo da anni. E quando l'ho provato non sapevo neanche io che risposte cercare, quando stavo male.»
«Io nemmeno lo amo» controbatté lei, asciutta. «Questo lo rende ancora peggio. È una cotta dell'adolescenza che si è riproposta, eppure sto male.»
Arturo si sforzò di non osservarle le mani, fallendo: le osservò stringersi tra loro, nervose, la destra che avvolgeva il pollice della sinistra senza scopo reale, se non quello di torturarsi, fino a che non corsero al viso per asciugarle gli occhi.
«La verità è che nonostante gli anni, io sono sempre la ragazzina secca secca della quarta superiore che lo guarda da lontano. È come se tutte le persone della mia età viaggiassero su una frequenza precisa e io fossi su quella subito prima» lo enfatizzò ancora, portando le mani di fronte al viso e gesticolando, concentrata. «Come se ci fosse un velo tra me e gli altri, un ronzio, una... Una tartaruga di Zenone. Io corro, corro, ma quella cazzo di tartaruga non la raggiungerò mai.»
«Forse perché devi gareggiare con le lepri» azzardò Arturo, ispirato. Isabella lo osservò disorientata, senza comprendere.
«Cosa..?»
«Invece che con le tartarughe» spiegò lui. «Potresti provare a gareggiare contro le lepri.»
Isabella abbassò lo sguardo un momento, poi non riuscì a trattenere una piccola risata.
«Ma che cazzo significa?»
Arturo sorrise: «Non lo so nemmeno io, mi suonava solo bene.»
Isabella si lasciò andare a una risata liberatoria, argentina, che esplose lungo il terrazzo e sfumò nella nottata, lasciandole gli occhi non più lucidi ma luccicanti.
«Scusa» soffiò, ancora sfiatata dal ridere. «Ti prego, non offenderti, non so nemmeno perché mi faccia così ridere, ma...»
Arturo sorrise, incoraggiante: «Perlomeno hai smesso di piangere, il che è già buono.»
«E tu, come mai sei sveglio?» lo sorprese. Le rispose con un sopracciglio sollevato per prendere tempo, facendola ridere ancora.
«Scusa, ma in certi momenti tu e Romeo siete identici, e quando fate quella faccia è uno di quelli» si giustificò, in lieve imbarazzo. «Dico, anche tu avrai le tue valide ragioni per essere in piedi alle... due e quarantasei del mattino a chiacchierare con una perfetta sconosciuta bevendo acqua tonica insieme, no?»
Arturo storse le labbra in un mezzo sorriso sghembo, divertito: «In realtà è da quando sono piccolo che dormo poco. Mi sono abituato così, alterno un paio d'ore di sonno pesante a un'oretta di insonnia e così via. Per certi versi è anche divertente.»
Isabella lo vide incupirsi, nonostante il tentativo di preservare un tono leggero: lo guardò in viso, seria, senza parlare, limitandosi solo a uno sguardo che tentava di scavargli nell'anima senza paura o imbarazzo; Arturo la sorprese, sostenendolo. Poi, sorrise.
«Sai tenere un segreto?»
«Non ho detto a Michelle che Giuseppe le aveva comprato l'anello di fidanzamento per un anno» assicurò, porgendo il mignolo destro a suggello. Arturo scoppiò a ridere.
«Seria?» indicò il dito con un lieve movimento del capo, osservandolo con intensità, come se desiderasse marchiarlo dentro di sé e ricordarne ogni dettaglio quando e come desiderasse.
«Serissima. Dai qua.»
Glielo strinse con lentissima dolcezza, guardandola negli occhi con una serietà profonda che la mise alla prova: forzando l'inibizione, Isabella annuì leggermente con il capo, solenne, fino a che, con la stessa lentezza, Arturo non lasciò la presa.
«Non ne ho mai parlato con nessuno» premise, spostandosi su una sedia e abbandonandosi sullo schienale. Isabella si morse il labbro inferiore per non sorridere.
«Lo considererò un onore.»
«Nessun onore. Tu ti sei aperta con me, e io mi apro con te. È giusto» liquidò la questione, pragmatico. «Devo solo trovare il modo di esordire, lo ammetto.»
«Magari dall'esordio?» azzardò lei, scrollando le spalle.
«Finiremmo troppo indietro, è una storia che dura da tutta la vita. No, a pensarci bene credo che l'idea migliore sia partire dal termine. Sì, dal termine...» disse piano, più a se stesso che a lei, lo sguardo perso nel vuoto notturno.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top