XIX

Da nessuno dei portelloni arancione vivo dei quattro garage di fronte a lui arrivava alcun tipo di suono o vibrazione. Arturo controllò l'orologio, constatando il consueto anticipo di dieci minuti all'appuntamento, ed estrasse un libro dallo zaino che aveva portato per ingannare il tempo: dovendosi presentare come un sedicente cantante a caccia di band, preferiva evitare l'uso della sigaretta per un'aura di maggiore professionalità.

Aveva ceduto all'idea di Isabella e aveva iniziato a guardarsi intorno online, iscrivendosi a gruppi per musicisti e dedicando tempo e attenzioni alla gestione della voce: dall'altra parte, la ricerca si era spesso rivelata infruttuosa, in quanto la maggior parte necessitava di bassisti o batteristi, o proponeva cover del classico repertorio metal di ogni band agli esordi, non dandogli stimoli sufficienti per volersi candidare. Si era proposto, una volta, improvvisando una rivisitazione di "Paranoid" dei Black Sabbath senza troppo mordente, immerso in una cacofonia di risonanze e volumi dei monitor tanto alti da saturare in fretta. Non era stato neppure necessario improvvisare scuse per congedarsi reciprocamente.

Quel giorno toccava a una band che parlava di "solo cover, generi misti, anche brani italiani", citando Led Zeppelin e Afterhours in mezzo senza parlare di reali influenze o titoli di brani: al momento di parlare con loro aveva domandato subito se tra le loro cover figurassero Black Sabbath, Nirvana e Judas Priest, facendo ridere l'interlocutore.

«Ti sei rotto il cazzo anche tu delle varie "Living after midnight"?» gli aveva domandato senza mezzi termini. Arturo aveva deciso di essere onesto.

«Da almeno dieci anni.»

«Oh, perlomeno questo significa che non sei un quindicenne. Vero?»

Stava parlando con il batterista, Tommaso, a suo dire proprietario del garage che fungeva da sala prove e il solo con il cellulare sempre reperibile: aveva un modo di fare enfatico, giocoso, senza sforare nell'eccesso di simpatia e disperato tentativo di scherzare a ogni costo.

«Arriverò a ventotto primavere a ottobre» l'aveva rassicurato. Tommaso aveva riso.

«Oh, fantastico, almeno siamo tutti sulla stessa linea d'onda. Non mi fraintendere, ma sembriamo in una specie di zona grigia: da una parte ci sono i ragazzini, dall'altra i vecchi metallari che sputano su tutto ciò che è uscito dopo il 1990. Noi si può dire che facciamo cover indie, ma senza medicinali nel testo o riferimenti alla cultura pop, con rispetto.»

Si erano poi dati appuntamento la domenica pomeriggio, giorno destinato alle prove, direttamente di fronte al garage.

Li riconobbe dalle risate e li osservò da lontano, lo sguardo celato dagli occhiali da sole dalla montatura squadrata e dal libro, mentre si avvicinavano ridendo e ciarlando ad alta voce. Inquadrò subito Tommaso, il solo senza una tracolla, in mezzo agli altri due: la mascella quadrata esaltata da una barba ordinata nera, occhiali a goccia sul naso dritto e baffi spessi che incorniciavano un sorriso solare e accogliente; alla sua destra, un ragazzo pallido, sbarbato, slanciato e dal viso più appuntito, con riccioli castani disordinati e una tracolla da basso che continuava a scivolare dalla spalla; chiudeva il trio il chitarrista, dalla pelle olivastra, che fumava a piccoli sorsi veloci.

Arturo alzò un braccio, ricevendo in risposta tre sorrisi.

«Arturo, giusto?» si presentò Tommaso, stringendogli la mano (ruvida, il palmo rovinato dai calli, un taglio quasi rimarginato ma evidente sul dorso). «Ti avviso, ci vorrà ancora un po' perché faremo prendere un po' d'aria alla saletta, abbiamo dovuto insonorizzare il più possibile e puzza tantissimo di chiuso.»

«Tanto non ho fretta.»

«Lo dici ora» commentò il chitarrista, con una leggera inflessione campana. «Se stai dietro ai capricci di questi qui, rischi di iniziare le prove mo' e finirle tra tre giorni. Sono Armando, comunque» concluse. Il bassista ridacchiò, sommesso.

«Margherita...» commentò, citando un noto sketch di Gigi Proietti: Arturo non riuscì a trattenere un sorriso a sua volta.

«Spartaco!»

«No, ragazzi, vi prego, non iniziamo sennò inizio a citarlo tutto!» li redarguì Armando, divertito, calcando l'accento sull'ultima parola, sillabandola.

«Ah, tanto dobbiamo aspettare che la principessa accordi la batteria» segnalò il bassista, senza smettere di ridere. «Così, se non sfondiamo come cover band, abbiamo un piano B: portare avanti il verbo di Gigi Proietti» concluse sollevando il braccio destro con aria ispirata, abbassandolo poi per porgerlo ad Arturo.

«Per inciso, io sono Umberto» si presentò (i polpastrelli ruvidi, l'indice ancora segnato da un solco, come se avesse smesso di esercitarsi appena prima di uscire di casa), «e di solito non sono così cazzone.»

«Lo sei molto di più» si intromise Tommaso, facendogli l'occhiolino. «Come avrai capito, siamo trentenni solo per l'anagrafe. Il cantante con cui suonavamo prima se n'è andato a cercare fortuna altrove, voleva fare il grande salto.»

Arturo sorrise: «Come Tim Staffell, che lasciò gli Smile per gli Humpy Bong?»

«Stai dicendo che sei Freddie Mercury?» si informò Umberto con sarcasmo innocente, inarcando le labbra in un sorriso serrato. Arturo scosse la testa.

«Mai sia. A tal proposito, credo sia opportuno informarvi che non sono neanche Robert Plant, o qualsiasi altro fenomeno in grado di raggiungere note alte. Lo so che avete specificato di fare cover dei Led Zeppelin nell'annuncio, ma...»

«Agg' capit', ma manco noi siamo i Led Zeppelin» lo interruppe Armando con fermezza. «Perlomeno, io non sono Jimmy Page, poco ma sicuro.»

Gesticolava molto, Armando: Arturo osservò le sue mani enfatizzare la sua arringa difensiva di fronte a lui, prima sollevandosi in segno di resa, poi flettersi verso le spalle con naturalezza, ancora grato agli occhiali da sole. Non riuscì a negare un sorriso soddisfatto.

«Che poi se le rendiamo anche nostre, le canzoni, non è male, anzi» lo sostenne Umberto, appoggiando il basso a terra.

«La cosa è così» prese le redini del discorso Tommaso, togliendo gli occhiali da sole per enfatizzare la serietà del momento, rivelando due profonde iridi scure. «Noi suoniamo perché ci va di farlo. Non abbiamo chissà che obiettivi, non aspiriamo a contratti, né a incidere un album, al massimo qualche data in giro se capita. E come generi te l'ho detto, facciamo una miscellanea di rock e indie, ma alla fine buttiamo in mezzo tutto ciò che ci riesce e ci piace.»

Arturo sorrise: «E quindi?»

Già gli piacevano.

Chiassosi e dimessi al tempo stesso, senza ambizioni gloriose o appetito di fama addosso, solo una genuina voglia di omaggiare i propri idoli e mettere a frutto qualche lezione di musica. Vicino a loro, lui avrebbe spiccato di sicuro.

«A proposito, tu cosa ascolti?» si informò Umberto. Arturo scrollò le spalle.

«Potrei dire "di tutto", ma no, ci sono generi che odio. Spazio abbastanza, comunque, è anche per quello che mi sono proposto» ammise, sincero. «Ascolto poco di tanto.»

«Cantautore preferito?» gli puntò un dito contro Armando, serio.

«Lucio Dalla, a mani basse.»

«Franco Battiato» gli segnalò Umberto, alzando il braccio sinistro.

«Fabrizio De André» gli fece eco Armando, puntando un dito contro Arturo, «e non dire che ti aspettavi Pino Daniele.»

Arturo stette al gioco: «Mi aspettavo Gigi D'Alessio.»

«Ehi, qua lo difendo:» si intromise Tommaso, sorridendo, «su Gigi D'Alessio si può dire parecchio, ma è un pianista che sa il fatto suo. Chiudo con Giorgio Gaber e apro ufficialmente la caverna delle meraviglie» concluse, indicando il garage con un ampio gesto del braccio.

Una batteria nera troneggiava in mezzo a due casse dello stesso colore, che avevano due aste per microfono di fronte e un groviglio di cavi sotto; le pareti erano ormai invisibili sotto cartoni delle uova, pannelli in gommapiuma e una bandiera britannica scolorita, e un piccolo mixer a tre canali era stato appoggiato su uno sgabello, in equilibrio precario, in un angolo vicino al portellone d'ingresso.

Arturo inspirò a fondo: sotto il ristagno di chiuso riconobbe l'odore delle pelli della batteria, della gomma che rivestiva i cavi, addirittura quello della polvere imprigionata nella gommapiuma, e di zucchero. Si dispiacque che il pavimento non fosse di legno come quello di un palcoscenico, ma l'emozione fu comunque sufficiente a galvanizzarlo.

«Ma come vi chiamate?» gli sovvenne la curiosità all'improvviso, mentre accordavano gli strumenti. Umberto ridacchiò sotto i baffi, abbassando lo sguardo.

«Ugo» confessò.

«"Ugo"

«Sì, Ugo» confermò Armando, scuotendo la testa.

«In onore di Fantozzi» si giustificò Umberto, ricevendo una risata derisoria in risposta.

«Seh, non ci crederà mai» commentò Tommaso, sarcastico.

«La verità» spiegò Umberto, sorridendo, smettendo di accordare il basso (Arturo temette per un momento che avesse notato quanto non riuscisse a distogliere lo sguardo dalla mano sinistra che batteva sulle corde, ma scacciò quel pensiero: anche se così fosse stato, avrebbe potuto giustificarsi con la curiosità e l'interesse per lo strumento), «è che di solito le band indie hanno tre tipi di nomi: evocativi, lunghi come un film della Wertmüller, lunghi come i film della Wertmüller che tentano di essere evocativi. Sai, tipo... I giocondi chihuahua esistenzialisti.»

«La termodinamica della mia depressione» si intromise Armando, accompagnando il sarcasmo spalancando le braccia, come se volesse incorniciare un titolo altisonante.

«E meno male che non sei un cliché» commentò Tommaso a mezza voce.

«Oh, non è colpa mia se i Jackal sono dei geni» si mise sulla difensiva.

«Va be', in sostanza ci siamo chiesti quale fosse il nome più corto possibile. Una sola lettera ci faceva tristezza, quindi la prima idea è stata "Ut", perché era una lettera di non mi ricordo che alfabeto antico. Da lì siamo passati a "UTA", ovvero le nostre iniziali, e da lì niente, Ugo.»

«Se avessimo trovato un, toh, Onofrio come cantante avremmo potuto chiamarci "Auto"» commentò Tommaso con ulteriore sarcasmo, restando inascoltato.

«Che poi ci abbiamo trovato mille scusanti» spiegò Armando, storcendo le labbra in una smorfia sarcastica. «Che se lo dici all'inglese diventa "You go", che è in onore di Fantozzi, che è scherzoso, tutte quelle robe, ma la verità chest'è.»

Arturo sorrise a denti scoperti, colpito da un divertimento genuino: in momenti come quelli, si rendeva conto di quanto avesse bisogno di leggerezza e animi allegri, e l'idea di trascorrere ogni domenica pomeriggio in quel garage gli iniziò a sorridere sempre di più.

Armando collegò la chitarra alla cassa con un gesto fluido, la accordò e improvvisò il giro che introduceva "Whole Lotta Love" dei Led Zeppelin.

«Dai, fammi sentire come mugoli!» azzardò Tommaso, divertito, sorridendo ad Arturo. «Se proprio non vuoi cantare come Plant, almeno sfidalo a colpi di orgasmo!»

Arturo abbassò gli occhiali da sole per osservarlo meglio: sotto l'apparente innocenza della sua battuta, celava un evidente desiderio di sfida. Sembrava volesse sincerarsi della sua motivazione e, soprattutto, dell'affinità futura, spingendo l'acceleratore sull'umorismo e le provocazioni.

Risistemò gli occhiali da sole sul naso, andò dietro al microfono e roteò il collo ad occhi chiusi, concedendosi un sorriso di sfida.

«Vai.»

Tommaso iniziò a pigiare il pedale del charleston.

«Dai un colpo di crash quando ci sei.»

Umberto e Armando ne stavano studiando le mosse con occhi famelici e interessati. Arturo restò in allerta e, a mano a mano che Tommaso recuperava ritmo e sicurezza, sfilò gli occhiali tenendo le palpebre serrate, si inumidì le labbra con la lingua e si avvicinò al microfono, stringendolo con entrambe le mani: la destra, poi, iniziò a scivolare con lenta delicatezza lungo l'asta, senza stringerla.

Aprì gli occhi, abbassando il volto in modo tale che il microfono risultasse di fronte al naso, lasciando scoperte solo le iridi blu.

"Tre... Due... Uno..."

Il suono del crash arrivò con precisione, perdendosi per un momento fuori dal garage e sparendo nell'aria. Arturo sorrise, richiuse gli occhi e iniziò ad ansimare nella capsula, serrando le dita sul microfono e ignorando la linea vocale originale, inseguendo l'immagine di una folla immersa in un silenzio elettrico, carica di aspettativa e visibilio. Spalancò gli occhi, folle, staccando la mano destra dall'asta per spostare i capelli dal volto con un gesto selvaggio, lasciando che gli ansiti crescessero di intensità fino a trasformarsi in un urlo liberatorio.

Aveva quasi dimenticato la presenza degli altri tre, percependo solo il ritmo cadenzato del charleston: quando tacque, lo stavano osservando con stupore genuino.

«» si limitò a dire Armando. Umberto mise le mani sul ventre e sorrise.

«Ragazzi, credo di essere incinta.»

Arturo lo considerò il suo benvenuto ufficiale all'interno degli Ugo.

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