XIV


Stanno iniziando a dolergli le braccia.

Arturo posa le casse d'acqua con malagrazia sul marciapiede, sbuffando di stanchezza: «Aspetta un attimo!» implora con voce sottile, portando un braccio sulla fronte per ripararsi gli occhi dal sole insidioso di fine ottobre: solo allora, si rende conto di indossare solo una maglietta a mezza manica, ma non ha freddo.

«Stai attento, quella è nitroglicerina!»

Sua zia Rachele non si volta neppure, nel redarguirlo, né sembra preoccuparsi di aver consegnato dodici bottiglie da due litri ciascuna di esplosivo a un bambino di otto anni, o delle potenziali conseguenze della caduta sul marciapiede: procede spedita di fronte a lui con passo sicuro, lasciando che la lunga chioma castana le ondeggi fino a metà schiena.

Arturo recupera le casse in fretta, nervoso: ha giocato ad abbastanza episodi di Crash Bandicoot per sapere quanto sia rischioso maneggiare della nitroglicerina, per quanto nella sua testa tuoni il verso di "Maracaibo" in cui viene citata, a mo' di presa in giro. Attraversa la strada ignorando il dolore alle braccia e approfitta di un momento di distrazione per depositare le bottiglie in terra con delicatezza, fino all'arrivo di un lampo di lucidità.

«Scusa zia, ma perché...»

Le note allegre di Lu Colombo sono sovrastate da un coro cupo, rituale. Alla sua destra, sua zia è abbracciata ad altre tre persone, strette in cerchio, a testa bassa, mentre sembrano osservare ognuno i propri piedi, senza smettere di cantare con voce sommessa.

Li scruta, mentre una paura cieca inizia a impossessarsi di lui.

L'unico uomo indossa un cappello a cilindro verde bottiglia, un fazzoletto a pallini sul taschino di una giacca che sembra fatta di canapa, gli occhiali rotondi sottili e piccoli e canta senza enfasi, piatto, con voce grave al punto da sembrare un basso elettrico: per quanto non l'abbia mai visto conciato così, Arturo riconosce in lui il pediatra che l'ha seguito da sempre e che, prima di lui, ha visto crescere suo fratello. Avvicinandosi, inizia a intuire ciò che stanno cantando.

"C'è gente che ama mille cose."

Alla sua destra, una donna con i capelli tinti di rosso, robusta, in cui riconosce all'istante la madre di Asia, la prima ragazza di cui si sia mai innamorato.

"E si perde per le strade del mondo."

Non ha senso, lui Asia la conoscerà di lì a sei anni, in prima superiore.

"Io che amo solo te."

A sinistra dell'uomo c'è una figura bionda, minuta, piegata tanto da sembrare prossima a toccarsi le ginocchia con il naso.

"Io mi fermerò."

Le si avvicina, mentre la scena inizia a scolorirsi; allunga la mano senza riuscire a toccarla e si inizia a dibattere, forzandosi di isolare solo la sua voce in mezzo a quel fracasso.

"E ti regalerò."

La luce solare è troppo forte, tanto da fargli male agli occhi, mentre una forza inspiegabile e assurda vanifica i suoi passi: prova a chiamarla, senza riuscire a parlare, soggiogato dal canto.

"Quel che resta..."

«Mamma!» riesce a strillare, finalmente libero: abbozza una corsa, ma la scena si allontana, inghiottita dalla luce.

"Della mia..."

È finito in un limbo oscuro, pur essendo conscio di essere immerso da un candore lattiginoso. È sdraiato, privato dalla capacità di dominare gli arti, dei sensi al di fuori dell'udito.

"Gioventù."

Recupera le forze e apre gli occhi.

Si sorprese di essere in grado di respirare normalmente.

Inspirò a fondo col naso, osservando il soffitto sopra di lui, lo sguardo ancora annebbiato dal sonno e il cervello vigile; allontanò con calci furiosi e disordinati la coperta che, in quel momento, gli pesava addosso come un macigno, si tirò a sedere sul letto e tentò di recuperare lucidità, concentrandosi sull'ambiente e sul silenzio. Sbatté le palpebre, e si rese conto che stava piangendo; sfiorò il viso, percependo le tracce delle lacrime che aveva versato nel sonno lungo le tempie e le guance, e si sforzò di scacciare le immagini oniriche senza successo: il ritornello di "Io che amo solo te" gli sembrò addirittura amplificato, come se uscisse dalla sua mente e rimbalzasse contro le pareti deserte e mute della casa.

Prese il cellulare e sbloccò lo schermo assottigliando gli occhi per tollerare l'illuminazione, scoprendo che erano passate da poco le tre del mattino.

Era il cinque maggio.

Noemi non era più tra loro da un mese.

Si alzò dal letto continuando a stropicciarsi gli occhi, a passi trascinati, dopo essersi sincerato che la porta della stanza di Romeo fosse chiusa e lui dormisse profondamente. Si fece luce con la torcia del cellulare fino alla cucina, dove si versò un bicchiere d'acqua e aprì la porta finestra sul terrazzo: l'aria leggera delle tre e mezzo di maggio lo colpì con dolcezza, accarezzandogli il viso ancora umido.

Si accomodò su una chaise longue stendendo le gambe, osservando il cielo senza riconoscere una singola stella: si rivide piccolo, sdraiato tra Noemi e Romeo una notte di San Lorenzo, in montagna con suo padre e i suoi zii e in attesa delle stelle cadenti fuori dalla baita che avevano affittato e da cui erano usciti di soppiatto e carichi di entusiasmo.

La maggior parte di ciò che avevano visto, più che perseidi erano frutto di fantasie e insetti che svolazzavano nella periferia dello sguardo; erano stati ripagati con una stella cadente dalla scia lucente sopra le loro teste, tanto vicina da addirittura sentirne il rumore. Arturo l'aveva osservata incantato fino a quando non era rimasta inghiottita dal cielo, e Noemi gli aveva sorriso, complice e divertita.

«Lo so cos'hai espresso.»

Lui, il desiderio, l'aveva del tutto scordato, ma lei proseguì, sicura: «Vuoi fare l'attore.»

Stava per ricominciare a piangere, di un pianto subdolo, che non partiva dal nodo alla gola ma aggrediva direttamente gli occhi e le labbra, distorcendo il viso in una smorfia dolorosa.

Si alzò di nuovo, rovistando alla cieca in un ripiano dell'isola in cui Romeo custodiva i pochi superalcolici in suo possesso: due bottiglie di gin, una crema liquorosa dolciastra e un whisky da supermercato, nulla che fosse degno di pregio o di occasioni importanti. Arturo afferrò il whisky e si diresse di nuovo sul balcone.

Non gli era mai piaciuto esagerare con l'alcool, preferendo limitarsi a bevute moderate che lo spingessero a sciogliere più in fretta gli imbarazzi e a godere di più delle situazioni festose:, e aveva imparato a conoscere i suoi limiti di decenza e a non superarli, limitandosi tuttalpiù alla lingua più sciolta e a qualche sciocchezza detta senza riflettere troppo.

Stappò la bottiglia con un gesto rude, lasciando che il tappo rotolasse sul pavimento in cotto, bevve stringendola per il collo trattenendo l'impulso di sputare quel fuoco liquido a cui non era abituato e si abbandonò sulla sedia a peso morto, preparandosi all'arrivo della vista annebbiata, dell'emicrania e della nausea, quasi pregustandole: gli interessava solo allontanare la mente dalla realtà per un po', scacciarne le consapevolezze e restare in una nebbia di malessere indefinito, fosse anche per l'intera settimana successiva.

A mano a mano che ingollava whisky, gli sembrò che la vita gli stesse chiedendo per la prima volta lo scotto da pagare per il tempo speso a soffocare l'istinto, lanciandogli addosso eventi e istantanee in un mucchio disordinato privo di logica o di immagini tangibili, sotto forma di sensazioni che riuscì a incasellare nell'immagine di una serie di pugni negli organi.

Noemi risultò essere solo la punta dell'iceberg.

Si rivide bambino, alle prese con le recite scolastiche che accoglieva con entusiasmo e all'aspettativa che creava in lui entrare nella palestra ogni volta in cui si cimentavano nelle prove, nello stesso istante in cui si rivide adolescente mentre spariva nei vestiti e si riduceva ad acquistarne di nuovi nei reparti infantili, e adulto su un palco in mezzo a un chiostro con una cicatrice disegnata alla meglio sul volto e nessuno ad applaudirlo, e ancora adolescente a passare i pomeriggi sui libri senza assorbirne niente, e di nuovo bambino con in mano un vecchio peluche di una tartaruga...

Prese fiato.

«Vaffanculo!»

Urlò di frustrazione, di rabbia, di astio, di stanchezza, provando a impaurire i ricordi che stavano prendendo il sopravvento. Provò ad alzarsi in piedi, ma l'impatto gli fece perdere subito l'equilibrio e lo nauseò, rilanciandolo sulla sedia in modo scomposto e rovinoso. Chiuse gli occhi per darsi un momento di tregua, poi puntò lo sguardo al cielo.

«Vaffanculo!» ribadì, sollevando un braccio stanco in aria che piombò subito a terra. «Ma io che cazzo ti ho fatto? Vaffanculo!»

Si sentì vittima di un sortilegio sadico che aveva stregato l'alcool per renderlo più prossimo a una droga psicotropa e spiacevole, per quanto le immagini che gli turbinavano davanti , sebbene fossero sfocate e distanti, risultassero tangibili e vivide.

«Ti ho detto di andare a fare in culo!»

Non sapeva neanche se stesse articolando le parole in maniera intelligibile o si trattasse solo di una serie di biascichi rabbiosi, né quanto tempo trascorse prima di scoprire che non era più solo, e le braccia muscolose e forti di Romeo gli stavano immobilizzando il busto: tentò di allontanarsi, provò a scivolare via dalla presa, dimenandosi in disordine senza smettere di gridare, si sforzò di guardare suo fratello in viso e si augurò di vederlo crollare sotto il peso del fastidio e della ferocia.

A quanto appariva, però, aveva le spalle forti a sufficienza.

Arturo provò ad articolare un insulto che si riferisse alle sue ombre del passato, che ora sbatteva in faccia ai suoi seguaci per lucrarci e sciacquarsi la coscienza con la giustificazione dell'esorcismo e dell'affrontarle di petto, ma riuscì solo a produrre un singhiozzo; in risposta, Romeo gli prese la testa tra le mani con una presa decisa, obbligandolo a guardarlo in faccia.

L'incapacità di sostenere il suo sguardo fu l'ultimo ricordo cosciente che gli rimase addosso. Si risvegliò alle tredici, trovando un paio di pastiglie sul comodino, una bottiglia d'acqua e un messaggio sul cellulare che recitava un asciutto "Cerca di stare bene, per favore".

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