VII

«Che dire, io vi ringrazio per quest'ora in compagnia, ringrazio Isabella che, come sempre, sopporta tutto questo e non solo e vi do appuntamento, come sempre, a giovedì pomeriggio sul mio canale YouTube per un nuovo video. Buona serata!»

Agitò ancora per qualche secondo la mano verso la telecamera, osservando Isabella che, in favore di obiettivo, gli mostrava un conto alla rovescia con le dita; allo zero mosse una piccola ghiera sulla camera e pigiò "play" dal computer che usava come regia.

Romeo la osservò con attenzione, poiché aveva imparato che i piccoli cambi di espressione della sua agente erano sempre una maniera più che attendibile per comprendere se il video fosse andato bene: bastava una stortura appena percettibile delle labbra, un'alzata di sopracciglia o un accenno di sorriso.

Quella sera, però, sorrideva di slancio.

«E stop! Ti ho visto bello allegro stasera, bravo Meo» si congratulò mentre spegneva le softbox. Romeo sorrise.

«Aver rivisto Arturo mi ha galvanizzato.»

«Vi siete più sentiti?»

Romeo scrollò le spalle: «No, ma ho notato che non mi ha più bloccato su WhatsApp, che mi sembra già qualcosa, no? Poi venerdì stava male, quindi voglio dargli un po' di tempo prima di rompergli di nuovo il cazzo. Dopo più di tre anni e mezzo mi sembrano già passi avanti, no?»

Isabella sorrise: «Senza dubbio. Gin tonic?»

«In effetti tutto questo chiacchierare mi ha allappato la bocca. Anche se...»

Lasciò il discorso in sospeso, sorridendo sornione: Isabella alzò gli occhi al cielo.

«No» lo bloccò subito, «non ho invitato a pranzo fuori Livio. E neanche a un aperitivo, a una cena, a... Una merenda, un brunch, a niente.»

Romeo le rispose con un tono cantilenante che ormai sfoggiava ogni volta in cui si affrontava l'argomento: «E quando pensi di farlo?»

«Mai.»

Romeo rispose con una risata sfiatata, tra la derisione e il tedio: «Io non ti capisco. Sei...»

«...tanto rompicoglioni e faccia di merda quando si tratta del tuo lavoro, ma non riesci a invitare un tuo collega a mangiare una cosa insieme, possibile?» Proseguì lei facendogli il verso, accomodandosi su uno sgabello. «Meo, mi hai fatto questo discorso mille volte, e mille volte ti ho spiegato che non puoi mettere sullo stesso piano il lavoro e la mia vita privata.»

«Bestiaccia, io ci ho messo una vita prima di ritrovare quattro stracci di autostima, ci sto fondando una carriera, e non sopporto che tu ti faccia tutte queste pippe mentali basate sul nulla. Mi fai anche perdere di credibilità, che cazzo» concluse con un sorriso ironico, sistemando un bicchiere e una brocca d'acqua sul tavolo per Isabella.

«Ci sono di mezzo questioni che non conosci» si giustificò lei, serafica. «Te l'ho già spiegato tante volte, tu hai i tuoi segretucci e io ho i miei.»

Aveva conosciuto Livio quattordici anni prima, mentre frequentava la terza superiore: aveva trascorso il primo quadrimestre a Canterbury per un progetto a cui avevano aderito svariate scuole, tra cui l'istituto alberghiero che frequentava lui. Con i suoi ricci castani disordinati, il viso spigoloso, i piccoli occhi scuri e la fronte alta, non spiccava per bellezza o fascino, ma aveva un senso dell'umorismo fatto di autoironia, giochi di parole ed invidiabili tempi comici che gli regalava carisma e simpatia.

Il terzo giorno di scuola era arrivato in classe in leggero ritardo e, per giustificarsi, aveva alzato le mani in segno di resa e, con tono candido e innocente, aveva detto che credeva che fosse domenica: una battuta scarsa, che presenziava nei diari scolastici da anni, ma che gli uscì fuori con così tanta naturalezza da renderla spassosa e geniale.

Isabella se ne invaghì in quel momento.

Iniziò ad andare a letto presto in modo che il mattino arrivasse in fretta per rivederlo, poiché l'insicurezza non le concedeva la faccia tosta sufficiente di unirsi a lui e al suo gruppo di amici durante le pause pranzo; dopo circa un mese, quando il gruppo era diventato eterogeneo e non faceva distinzione di istituti di provenienza, si godette ogni occasione in cui decidessero di uscire in giro per la cittadina, mangiare in compagnia e ogni singolo venerdì sera in cui Daniele, il solo maggiorenne del gruppo, arrivava con le buste del Tesco cariche di lattine di birra e patatine da trangugiare di fronte alla cattedrale.

Si rivolsero poche parole che Isabella, col tempo, aveva dimenticato: di quella cotta, ricordava soprattutto le grasse risate, la mimica attoriale di lui e lo stomaco invaso dalle proverbiali farfalle ogni volta in cui si presentava un'occasione in cui l'avrebbe incontrato.

Trascorsi i quattro mesi di viaggio studio, non ebbe nemmeno il coraggio di chiedergli il numero di cellulare: lo osservò allontanarsi dal pullman mentre scherzava con la sorella maggiore e con al guinzaglio un Labrador color miele, carica dell'ardore struggente dei suoi sedici anni.

Col tempo, il ricordo di Livio aveva perso colore di giorno in giorno senza mai sbiadire del tutto, più per la necessità di preservarsi dai dispiaceri che per effettivo disamore, fino a un giorno di metà ottobre in cui le si era presentato con una stretta di mano vigorosa e un ampio sorriso luminoso dall'altra parte della sua scrivania.

Romeo alzò gli occhi al cielo, mescolando con un gesto sbrigativo il suo gin tonic.

«Va bene, va bene, non indago, però anche te che ti vai a fissare con uno con cui manco fai un tentativo... Ci hai trent'anni, Isa.»

«Ventinove» ci tenne a precisare lei, con tanto di indice destro alzato.

«Ancora per nove giorni. Cosa farai venerdì prossimo, a proposito?»

«A pranzo coi miei e a cena nella mia pizzeria preferita con le mie amiche, un bellissimo party di sole donne in cui l'unica regola è indossare qualcosa di glitterato.»

Romeo ingoiò un sorso generoso di gin tonic: «Sbalorditivo.»

«Non fare il sarcastico, lo sai che non sono tipo da grandi feste alla corte di Francia.»

Per sua sfortuna, un ricordo che aveva resistito alla corrosione del tempo era quello della festa per il suo diciottesimo compleanno, con la grande sala affittata dai suoi genitori semivuota, gli inviti lasciati in sospeso e declinati all'ultimo momento, il gestore del complesso che sonnecchiava su una seggiola in un angolo già alle ventidue; più di tutto, sopravviveva il senso di imbarazzo e desolazione brucianti mentre una playlist assemblata da vecchi CD e brani scaricati suonava a basso volume dal televisore della sala, rimbalzando contro le pareti.

Il trentesimo compleanno di Romeo di poco più di un anno prima, per contro, era stato un trionfo di palloncini, fracasso, acclamazioni e risate: l'aveva organizzato lei stessa, si era divertita moltissimo a farlo e lui aveva ribadito più volte nel corso della serata quanto il suo supporto fosse importante, regalandole una mole sempre più disordinata e alcolica di applausi e urla. Ciononostante, quando il mattino seguente la festa si era conclusa, si era ritirata nella stanza degli ospiti di Romeo gonfia di amarezza.

Romeo ignorava tutto: di fronte a lui, Isabella manteneva il più possibile l'aura della professionista abile e tenace, e tra loro vigeva il mutuo accordo di non parlare né fare domande inerenti al passato, una scelta di comodo che si era rivelata adatta a loro.

Lui le sorrise con dolcezza: «Infatti vorrei tanto organizzare qualcosa per te, come hai fatto l'anno scorso tu, solo che ho paura di farti più incazzare che altro.»

Terminò il gin tonic in fretta, come se necessitasse più dell'azione alcolica che per sete: «Posso confessarti una cosa?»

«Mi hai sempre amato e sei geloso di Livio?»

Romeo scoppiò a ridere.

«Ci sono momenti in cui non mi sento del tutto libero» ammise, osservando un punto indefinito della cucina, perso nelle sue riflessioni. «Ad esempio, vorrei scrivere a mio fratello se vuole venire a vivere qui, mi ha detto che sta in mezzo agli universitari e non è la sua vita, lo so, però metti che si incazza di nuovo e non ci parliamo più un'altra volta, e così via...»

La sua voce scemò pian piano, come un brano anni ottanta. Isabella gli sorrise.

«Quindi che intenzioni hai?»

«Aspetterei la sua prossima mossa, ma vai a sapere se ci sarà mai una prossima mossa.»

«E allora provaci, no? Sennò perderesti di credibilità»

Non riuscì a negargli un sorriso di sfottò, per quanto lieve: Romeo si coprì il viso per un momento, imbarazzato.

«Sei un po' stronza, sai?»

«Dimmi qualcosa che non so.»

«Che forse, ma solo forse, stavolta hai ragione.»

«So anche questo, Meo. Dai, scrivigli prima che ti passi la botta di coraggio.»

Romeo osservò lo schermo del cellulare, incerto: cliccò con timore sull'icona di WhatsApp e non riuscì a trattenere un sorriso di sollievo notando di non essere stato bloccato, iniziò a digitare il messaggio e rimase con il dito sospeso prima di premere "Invio".

«Romeo Sergio D'Alessandro, è forse esitazione quella che vedo sulla tua faccia?»

Romeo sussultò sullo sgabello: «Non fare la maestrina con me o inizio a chiamarti Isabestia.»

In due anni, Isabella aveva imparato che storpiare i nomi altrui era la maniera più subdola che Romeo conoscesse per stizzire il suo interlocutore: per quanto per lei fosse una scelta sgradevole a livelli estremi, non poteva non riconoscere una tenera purezza d'animo in una vendetta tanto innocua. Decise di non dar retta ai ricordi e alla morsa di dispiacere, e proseguì.

«E io ti chiedo tutti i capoluoghi di provincia a partire dal Molise.»

«Campobasso. Almeno posso leggerti il messaggio?»

Sorrise, scuotendo la testa: «No, Romeo. È una cosa tra te e lui, e lo sai benissimo.»

Lui sbuffò: «Odio quando hai ragione, Bestiaccia.»

Sapeva quanto le storpiature del suo nome la facessero soffrire: per quanto lei provasse a contenersi, nelle due o tre situazioni in cui aveva azzardato a farlo davvero gli aveva risposto con la voce spezzata da un dolore arcaico e sincero. Non le aveva mai fatto domande sulla ragione, ma si era ripromesso di non usarle più.

Isabella sorrise sorniona: «Mi odi spesso, insomma. Premi quel cazzo di invio, dai!»

Il pollice gli tremò più di quanto volesse ammettere a se stesso: osservò il messaggio arrivare a destinazione, la scritta "Online" comparire sotto la fotografia di suo fratello per un momento, prima di sprofondare di nuovo nel silenzio.


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