IX
Liberò la stanza in tre giorni, approfittando delle ore di assenza dei suoi compagni per agire da solo, congedandosi il lunedì sera a cena con poche parole di gratitudine prive di emozione; Romeo lo accolse con entusiasmo infantile che non ne volle sapere di esaurirsi per i due giorni successivi, in cui cucinò moltissimo e si rivolse a lui quasi con deferenza. Arturo valutò spesso di invitarlo alla calma, ma quel suo atteggiamento privo di mezze misure tra il sommesso e l'esagitato gli provocava un sincero divertimento e volle goderselo fino all'ultimo istante.
«Domani è il compleanno di Isabella» spiegò Romeo giovedì sera, mostrando un grosso pacco rettangolare fasciato in una carta regalo iridescente rosa prima di nasconderlo nell'armadio della stanza degli ospiti ancora vuota, arredata con lo stesso stile impersonale e spartano da albergo di quella in cui dormiva Arturo. «Non faremo granché perché non le piacciono le feste grosse, ma farà un salto qui dopo cena con le sue amiche, brinderemo e faremo un po' di casino, spero che la cosa non ti dia fastidio» concluse, estraendo dal fondo dell'armadio un sacchetto con una busta di palloncini, tre candeline pirotecniche e due cannoni spara coriandoli. Arturo ridacchiò.
«È casa tua, puoi farci quello che più ti aggrada.»
Romeo gli appoggiò le mani sulle spalle, serio: «È casa nostra, Arturo» disse, solenne. «Prima o poi dovrai metterti nell'ordine delle idee che non sei mio ospite.»
«Sono ospite da così tanto tempo che mi ci vorrà parecchio» confessò, senza riuscire a trattenere una nota di amarezza. Romeo lo osservò per un istante in silenzio, sistemandosi sul fondo del letto.
«Posso chiederti che è successo in questi anni, o è troppo presto?»
In realtà, non avrebbe voluto parlarne mai: era stata una parentesi che voleva considerare appannaggio personale e rinchiudere nella sua memoria in un compartimento stagno, ma comprese in fretta di non potersi permettere una convivenza improntata sul silenzio. Prendere tempo sarebbe stato insensato e controproducente.
Si sdraiò sul letto in silenzio, sistemando le mani dietro la testa.
«Sono andato a stare da Dennis per un po'» spiegò con tono distaccato. «Te lo ricordi, quello che avevo conosciuto in università che aveva la casetta su nell'entroterra, dove abbiamo fatto un Primo Maggio una volta? O forse era una Pasquetta, comunque una giornata all'insegna delle tre B.»
Romeo rise: «Da quanto tempo non sentivo nominare le tre B! Cos'erano, brace, birre..?»
Arturo ghignò: «Ma dai, non puoi essertelo dimenticato proprio tu.»
«Aiutami!» Lo pregò, chiudendo gli occhi e schioccando le dita, concentrato.
«Io non ne ho mai dette.»
Romeo esplose in una risata che fece tremare il letto: «Bestemmie! Comunque non mentire, mi ricordo ancora quando sei morto per la tipo quinta volta giocando a Metal Gear Solid, prima della tua svolta chic dal linguaggio ripulito.»
Arturo sorrise: «È un falso ricordo, senza dubbio alcuno.»
«Quanto sono immaturo se rispondo "Gnegnegne"?»
«Molto, ma non mi stupisco.»
«Va be', dicevi?» tagliò il discorso Romeo.
Arturo sospirò, seccato: aveva sperato che la svolta ridanciana del discorso l'avesse distratto.
«Insomma, ho spiegato la situazione e mi ha ospitato lì per un po', qualche mesetto. Poi, quando c'è stato tutto il trambusto della pandemia, poco prima che chiudessero tutta Italia sono andato a stare in un alloggio universitario e ho iniziato a fare il rider.»
«Un alloggio universitario?»
«Un casermone vicino al campus di ingegneria. Avrei potuto starci solo presentando libretto e attestato di frequenza, ma sono riuscito a mettermi d'accordo con la ragazza che lo gestiva, vista l'emergenza.»
In quell'occasione, Arturo aveva rotto il suo silenzio con una mail scritta da un indirizzo temporaneo, in cui annunciava a Romeo che avrebbe ricevuto considerazione solo in caso di contagio: l'aveva lasciato per qualche mese in un limbo emotivo e morale, sospeso tra il timore del virus e il folle, disperato augurio di avere comunque notizie presto.
«Poi, quando è finito tutto quel delirio, per ammortizzare ho cercato dei coinquilini e sono finito dov'ero, e infine eccomi qua.»
Romeo rimase in silenzio per un tempo che sembrò dilatarsi all'estremo: lasciò sedimentare quelle poche ma preziose informazioni nella sua memoria, accogliendole per custodirle come un bene prezioso. Si morse il labbro, incerto, e quando riprese parola lo fece di corsa, come se fosse in preda a un istinto sgradevole ma dirompente.
«E la recitazione?»
Il tono di Arturo gli sembrò meno distaccato, per quanto freddo. Lo vide nascondere un sorriso.
«Ci provo sempre. Ho preso parte a una piccola compagnia di musical nell'estate del 2021, che ha messo in scena "Ama e cambia il mondo" in versione ridotta durante una piccola manifestazione. Facevo Tebaldo. Poi è toccato a "Notre Dame de Paris", come Gringoire, l'estate scorsa.»
«Sarei venuto a vederti volentieri» ammise Romeo con amarezza.
«Non ti sei perso nulla, non preoccuparti, non l'ho detto nemmeno ai miei coinquilini. Tanto ho lasciato perdere, i musical non fanno per me.»
«Peccato, secondo me nei panni di Frank'n'Furter faresti la tua porca figura. E con "nei suoi panni", intendo con le autoreggenti a rete e il rossetto.»
Arturo scoppiò a ridere: «Non potrei mai rivaleggiare contro Tim Curry!»
«Allora con una tutina aderente e le orecchie per fare "Cats".»
Arturo alzò gli occhi al cielo, ridendo: «Dio, sei l'essere umano più becero che io conosca.»
«Puoi anche chiamarmi solo Romeo, te lo concedo giusto perché sei mio fratello.»
«La celebrità ti ha dato alla testa» chiuse il discorso scuotendo il capo, divertito.
Si rabbuiò un istante, valutando in fretta se dar voce ai suoi pensieri. Riuscì a recuperare un tono disinteressato, leggero, per quanto quelle parole gli pesassero sul petto.
«Com'è essere famosi?»
Romeo aspettava quella domanda dal primo momento in cui si erano ritrovati, ciononostante dovette prendere qualche secondo per riflettere e dare una risposta che fosse onesta, calzante e non troppo schietta: Arturo lo osservò storcere le labbra più volte, perso nei meandri della sua mente, mentre osservava il soffitto senza vederlo davvero.
«Volubile» concluse a mezza voce. «Sì, la fama è volubile.»
«Ritenta, questa l'ho già sentita in "Harry Potter".»
«Non nel senso in cui la intende Allock» spiegò, calmo, stirando le braccia con un verso di soddisfazione. «Un giorno ti senti davvero Dio in terra, sembra che il mondo faccia a botte per coccolarti, guardi il conto in banca e senti la coscienza consigliarti di destinare dei fondi per... Boh, aprire una scuola in Botswana, o salvare i panda, o tutte e due perché tanto non sai che fartene. In altri giorni ti concentri solo sui commenti negativi, o magari arriva Isa a dirmi che ha un nuovo piano editoriale perché c'è uno stallo, che le interazioni sono state scarse, cose così. O hai solo voglia di stare solo e lo stesso tizio che magari due giorni prima riconoscendoti ti fa sentire Dio, due giorni dopo ti rompe i coglioni.»
Calò un breve silenzio che fece nascere in Romeo una sottile tensione, animata dal timore di aver soppesato tanto a lungo una risposta per fornirla comunque sbagliata.
Dopo quella che gli sembrò un'eternità, Arturo si voltò verso di lui, guardandolo con serietà.
«Sì, ma poi li hai salvati i panda?»
Romeo reagì d'impulso acchiappando un cuscino e tirandolo in faccia al fratello con malagrazia:
«Poi sono io il becero dei due!»
Recuperò l'aura seria di poco prima, per reggere il gioco: «Comunque no, ho destinato quei soldi a un bene molto più alto della salvaguardia di una specie protetta o della scolarizzazione di giovani menti africane, comprando ben due sacchetti di caldarroste lo scorso Natale» annunciò con voce pomposa e impostata, issando la schiena con aria impettita.
Arturo sorrise: «Il secondo per chi era? No, perché potrei essere geloso.»
«Per me, me e nessun altro.»
Il citofono gracchiò interrompendoli, e Arturo ne approfittò per dirigersi un momento nella sua stanza; poco prima di spegnere la luce, voltandosi per un istante, notò una scatola per scarpe anonima, color crema e senza brand sul fondo dell'armadio vuoto.
Decise di dar sfogo alla curiosità, portandola nella sua stanza: all'interno trovò due paia di jeans vecchi e logori, uno dei quali con le cuciture dell'interno coscia quasi del tutto distrutte. Li sistemò sul letto, uno sull'altro: un paio di jeans anonimi, dal lavaggio medio, l'etichetta della taglia scolorita da anni, e un paio di Cheap Monday a sigaretta, viola, a vita bassa, la cui vita era grande poco meno della gamba degli altri; sollevò i secondi, li osservò a lungo, infilò il braccio in una delle due gambe e ridacchiò, amaro: «Ma non ci credo...»
Erano suoi. Li aveva acquistati per il suo sedicesimo compleanno, dopo averli adocchiati nella vetrina di un negozio di abbigliamento alternativo e desiderati per qualche mese, per poi sfoggiarli lungo quasi tutto il resto dell'anno scolastico.
«Cosa fai con quelli?»
Sobbalzò sul posto, mentre Romeo si avvicinava a lui con irritazione, tenendo le sopracciglia corrugate e gli occhi stretti sulla coppia di jeans. Per la prima volta, la consueta aura di spocchia e superiorità tanto cara ad Arturo crollò.
«Scusa, non so neanche io...» azzardò, senza sapere come proseguire la frase: senza un'effettiva ragione si sentì tornare bambino e rivide il fratello furioso a cui, per errore, aveva cancellato una carriera da allenatore di Pokémon con un click.
Romeo, dal canto suo, vide la sua rabbia cancellata con un colpo di spugna: prese l'altro paio di jeans per i passanti della cintura, resistendo all'impulso di appoggiarli alla vita per confrontarli con il suo attuale stato fisico e osservandoli, rivivendo per un momento i giorni bui dell'istituto tecnico che aveva frequentato come scuola superiore.
«Adesso ci stiamo tutti e due» dedusse a mezza voce, parlando più a se stesso che ad Arturo.
«Perché li conservi?»
Ad Arturo risultò spontaneo bisbigliare di conseguenza. Romeo scrollò le spalle, tentando di allontanare il senso di amarezza che lo coglieva sempre quando ricordava l'adolescenza.
«Per ricordarmi chi sono stato.»
«E questi?» Insisté, sollevando i suoi.
Romeo non rispose, limitandosi a lanciare i jeans sul letto con un gesto rabbioso, prima di voltarsi e chiudersi la porta della stanza dietro le spalle.
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