II
La prima cosa che colpì Arturo fu la grandezza.
Aveva osservato l'auto di Romeo dall'esterno con vago stupore: un SUV nero, lucido, con assetto rialzato rispetto al resto delle vetture presenti, che spiccava in particolar modo in mezzo alle piccole utilitarie dei compagni di corso di Noemi che erano sopraggiunti a renderle omaggio.
Avevano trascorso il viaggio in silenzio, interrotti solo dal segnale acustico dei sensori di parcheggio, l'uno guardando la strada, l'altro i propri ricordi. Quando Romeo aveva aperto la serranda del garage, Arturo non avrebbe saputo seguire la strada a ritroso.
La casa di Romeo sorgeva sul tetto di un edificio industriale, in una via periferica di una cittadina di campagna: il corridoio d'ingresso era ampio, decorato da un quadro astratto a tre pannelli. Sopra le loro teste c'erano faretti dalla luce bianca e piccole casse rotonde, incastrati nel contro soffitto.
«Fai come se fossi a casa tua!» Lo invitò Romeo, tanto carico di entusiasmo da non mostrare cenni di imbarazzo, mentre apriva l'anta di un armadio a muro nascosto per infilarci la giacca. Arturo abbassò lo sguardo, inibito.
«Non so neanche dove girarmi, a dirla tutta.»
Il corridoio d'ingresso terminava in un ampio spazio che comprendeva una cucina verde scuro con isola, un tavolo rotondo in legno con intorno sei sedie imbottite, dagli schienali alti e fasciate in un tessuto dello stesso colore della cucina; di fronte all'isola, un divano angolare grigio, un televisore e un paio di mensole dello stesso color legno del tavolo.
Arturo, che da ormai quattordici mesi divideva un appartamento di sessanta metri quadri con tre chiassosi studenti universitari, percepì ogni dettaglio come smisurato. Si domandò come Romeo potesse tollerare tanto spazio in solitudine e quanto, in quegli ultimi anni, fosse cambiato dal fratello che aveva sempre conosciuto.
«Là» indicò Romeo una porta alle spalle del divano, «c'è il bagno, dopo il corridoio ci sono le camere.»
«Le camere?» Ripetè Arturo in tono automatico, calcando l'accento sul plurale, perplesso.
«Tre camere da letto, il secondo bagno e lo studio.»
«Ah.»
«La giacca dalla pure a me.»
Arturo la sfilò con lentezza, occhieggiando verso la porta finestra davanti a sé, che portava a un ampio terrazzo con un tavolo da ping-pong, uno in ferro scuro e quattro sedie, che sembrava spandersi oltre la visuale della porta finestra, coperto da mattonelle scure in cotto.
«Non ti credere...» azzardò Romeo, cauto: ignorava come vivesse il fratello al momento, e considerato che la sua carriera era ciò che li aveva portati a separarsi non aveva messo in considerazione che la casa di cui andava tanto fiero potesse essere un ulteriore motivo di attrito. Si pentì subito di quella sua mancanza di tatto e di attenzione.
«Cosa te ne fai di tre camere da letto?» Deviò il discorso Arturo con prontezza, sollevando un sopracciglio, curioso, accomodandosi sul bracciolo del divano, com'era sua abitudine fin dall'infanzia. Romeo rise.
«Adesso come adesso, le riempio di polvere. Ogni tanto organizzo una festa, ma...»
Si bloccò, di nuovo in preda al timore. Arturo si batté i palmi sulle cosce, stanco di quei silenzi imbarazzati: «Mangiamo? Sarà indelicato da dire, ma ho fame.»
Romeo sorrise: «Solo se posso scegliere io cosa.»
Sfilò il maglioncino azzurro, restando con una maglietta nera a mezza manica: infilò un grembiule anch'esso nero, ad eccezione della stampa del volto di Homer Simpson a bocca spalancata, mentre infilava in bocca una ciambella, che fece ridere di gusto Arturo. Per contro, a quel suono gli occhi di Romeo si velarono di soprassalto. Si nascose dietro la porta del frigorifero, asciugandoli con un gesto rapido con l'augurio che Arturo non avesse notato nulla. Poi, estrasse una piccola scatola in plastica trasparente da un cassetto, la aprì e la sventolò sotto il naso del fratello con evidente soddisfazione.
«Tie', senti che profumo.»
Arturo non riuscì a negargli uno sguardo stupito: «Habanero?»
«California reaper.»
«Semmai "Carolina", razza di becero.»
Risero entrambi. Un nodo salì svelto alla gola di Romeo e venne inghiottito nello stomaco.
«Come mai hai dei preziosissimi California reaper se non ti piace il piccante?» Indagò Arturo, curioso. Romeo scrollò le spalle, valutando in fretta se ammettere la verità.
«Ho un'amica che ne va matta.»
Scelse di celargliela, almeno per il momento: conoscendo suo fratello, di certo aveva comunque intuito che era un acquisto mirato, insieme a tutto ciò che in quel momento stava occupando la dispensa, e che aveva sperato con ogni fibra di sé che l'invito fosse accolto.
Arturo sorrise sarcastico: «Un'amica, certo.»
«No, davvero, è un'amica» rispose con calma Romeo, estraendo un sottile tagliere in plastica bianca e un coltello da un ceppo appoggiato sull'isola. «Oddio, è il mio braccio destro, a dire la verità. Abbiamo un ottimo rapporto professionale.»
«Ah, parli di Isabella.»
Arturo, dei due, era sempre stato il più impulsivo e diretto: valutò solo dopo aver dato fiato alle labbra di aver tacitamente ammesso di aver visto almeno uno dei videoclip di Romeo, dove la ragazza veniva citata nei ringraziamenti finali.
Romeo, da parte sua, non se ne era neppure reso conto, tanto era impegnato a non fare menzione troppo spesso del suo lavoro.
«Sì, esatto. Tu, piuttosto, come te la passi?»
Arturo rispose con un verso a metà tra il sospiro e lo sbuffo, ondeggiando la mano destra davanti a sé con un gesto molle, puntando lo sguardo contro una mensola sopra il grande televisore di fronte al divano, riempita di cornici che ritraevano Romeo stringere mani, sorridere e ammiccare abbracciato a volti più o meno noti: «Mi barcameno. Divido una casa che sarà grande come questa cucina con altri tre, lavoricchio e non smetto di provarci» tagliò corto.
«Chi sono 'sti tre?»
Arturo non potè far a meno di notare un'ombra di gelosia nella voce di Romeo. Sorrise compiaciuto, approfittando della sua concentrazione sul piano di lavoro.
«Il mio compagno di stanza si chiama Diego, è al quinto anno di medicina, ha i capelli tinti di verde, un dilatatore spesso quanto il mio indice e vuole diventare il primo oncologo punk della storia.»
«Mi sembra un'idea nobile.»
«Sì, ma sotto la doccia canta Guccini.»
«Ehi!» Romeo gli puntò contro la lama del coltello con fare scherzoso. «Non scherziamo, Guccini è molto, molto punk.»
Si abbassò e aprì un cassettone dell'isola, estraendo una pentola: «Farfalle, rigatoni o bucatini?»
«Dipende dal sugo, dovresti saperlo.»
Romeo sorrise, giocoso: «Dovresti aver intuito cosa sia da un pezzo, Semola.»
Ad Arturo sfuggì una risata strozzata: tentò di recuperare un'aura di compostezza e distacco, ma quella canaglia aveva toccato un punto debole che conosceva bene.
«Come mi hai chiamato?»
A quel punto, Romeo assunse una voce posticcia e vagamente canzonatoria: «Lo sai benissimo, e sai benissimo che la colpa è tua. Ho passato tutta la mia cazzo di infanzia a guardare "La Spada Nella Roccia" per colpa della tua omonimia con quel ragazzino.»
Arturo decise di stare al gioco: «Ognuno ha il nome che si merita: a me quello di un importante monarca inglese, a te quello di un gatto randagio.»
«Gatto randagio che si accasa contro re cornuto, vinco comunque io.»
Arturo si stizzì: «Almeno il regno è suo e non preso con l'inganno.»
Non provò neppure a celare il rancore, vivo e ardente, che sembrò colpire Romeo in mezzo agli occhi: in risposta si limitò a tacere, voltandosi per riempire una pentola d'acqua calda e sistemarla sul piano cottura.
Per un istante, Arturo si interrogò se le sue intenzioni fossero mosse da un vecchio affetto, dall'amarezza per il lutto o dall'opportunismo: determinando che non gli importava nulla di tutto ciò, abbassò il capo e lo scosse a se stesso, divertito, approfittando del fatto che Romeo seguitava a dargli la schiena.
Tipico di suo fratello: quando veniva ferito e sapeva di essere nel torto, piuttosto di ammettere un errore si trincerava nel silenzio.
«Sai che sono pronto a scommettere» esordì infine, alzandosi in piedi e inclinando la testa di lato con aria divertita, «che nonostante quello che hai detto poco fa, tu non ricordi la canzone iniziale?»
Romeo si voltò, incuriosito, iniziando a canticchiare: «"Bianco e nero, falso e vero, questo il mondo fa girar"?»
Arturo scosse la testa con un gesto ampio, teatrale.
«Sei proprio un illetterato» commentò, stringendo le braccia al petto e appoggiando il fianco destro al banco della cucina. «Ho parlato della canzone iniziale.»
«C'è una canzone oltre a "Questo il mondo fa girare" in quel film?»
Arturo scosse nuovamente la testa, ormai sopraffatto dal divertimento.
«Si narra che un dì...»
«Quella non è una canzone» si giustificò Romeo, alzando le braccia in segno di resa, «dura meno di un minuto, è...» schioccò le dita più volte, alla ricerca del termine più calzante per ciò che intendeva dire, «uno stacchetto.»
Arturo rise: «A parte il fatto che "stacchetto" riferito a quella meraviglia non si può sentire, non è una giustificazione. Avanti, sentiamo: "Si narra che un dì...".»
Romeo cedette, divertito: «Non me la ricordo, va bene?»
Arturo insistette: «"L'Inghilterra fiorì..."»
Il viso di Romeo sembrò illuminarsi, folgorato da un'intuizione improvvisa: quando prese a seguire il canto del fratello, si ritrovò a strillare più che a modulare la voce in modo corretto: «"Di audaci cavalieri"!»
Si bloccò un'altra volta, sopraffatto dall'incredulità: non parlava con suo fratello da quella che gli sembrava una vita, e se mai gli avessero detto che un giorno si sarebbero ritrovati nella sua cucina a cantare brani dei cartoni animati avrebbe accolto quella supposizione con una grassa risata amara. Anche se, ormai, avrebbe dovuto sapere quanto la vita fosse sorprendente.
Nel bene e nel male.
Arturo proseguì a cantare: aveva un timbro ruvido, caldo, che si sposava con naturalezza a brani più movimentati e pesanti, ma sapeva alleggerirlo e renderlo carezzevole. Romeo rimase in silenzio, osservando gli occhi di suo fratello chiudersi, il petto alzarsi e abbassarsi con precisione sotto la camicia color borgogna, imponendosi di imprimere a fuoco ogni dettaglio in caso decidesse di sparire di nuovo.
Agli ultimi versi, si unì al canto: disarmonico, in preda a una miscela emozionale di commozione, stupore, divertimento, sollevò un braccio davanti a sé in una goffa imitazione di un cantante operistico, portando la mano sinistra al petto.
«"Fu la spada nella roccia, che un bel dì, laggiù comparì"» conclusero insieme, guardandosi per un istante negli occhi e rivedendosi piccoli, sul divano di casa dei genitori la domenica pomeriggio.
Poi scoppiarono in una fragorosa risata.
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