I
«Fratelli» esordì il sacerdote, alzandosi in piedi dopo un lungo silenzio, ridestando Arturo dai suoi pensieri e dal torpore distaccato da cui si era lasciato cullare fino ad allora. Gli fu spontaneo voltarsi verso destra, dove Romeo continuava ad osservarlo, ora con una vaga espressione curiosa sotto la maschera di contrizione. Provò anche a muovere un passo appena percettibile e a stringersi in sé per fargli spazio accanto, ma Arturo rifiutò con un gesto rapido della mano, abbassando lo sguardo in fretta. Si concentrò sul motivo del marmo del pavimento, allontanando dalle sue orecchie la voce monocorde del sacerdote e la puzza di incenso, ma non lo sguardo rovente di Romeo che gli trapanava la nuca.
Li separavano tre anni e sette mesi. Anche all'anagrafe.
Romeo studiò Arturo con attenzione, dimenticando dove si trovassero in quel momento, provando a ricostruirne la vita che si era perso: si rassicurò del vedere le sue spalle più larghe, anche incassate nella tristezza, i capelli castani lunghi fino alla nuca e curati, le occhiaie presenti ma non più protagoniste sotto le iridi azzurre, il grosso naso aquilino a separarle, la mascella liscia e priva di barba.
La malattia non aveva intaccato la sua bellezza. Romeo lo sapeva bene, ma dopo tutto quel tempo separati, la sua ostinata avvenenza lo colpì come un'onda quando si gioca sulla battigia.
Gli sembrò più bello che mai, quasi florido, nonostante il momento.
Si impose di voltarsi verso l'altare, dove il prete tentava di improvvisare un goffo "Alleluia" stonato e disarmonico, senza ottenere responso; non che se lo aspettasse: non era un concerto, non era un'occasione festosa, non c'era tempo per la celia.
Arturo era altrove.
Strinse con vigore la panca che aveva davanti, digrignò i denti e si impose di guardare di fronte a sé: la bara bianca di fronte all'altare era circondata da mazzi di fiori, bianchi anch'essi, in mezzo ai quali spuntava un mazzo rosso riempito di rami d'alloro, decorato da un nastro dorato e l'iscrizione in eleganti caratteri corsivi "I tuoi compagni di corso".
Che stronzata.
Non per la palese scelta cromatica sbagliata, quanto per la disgustosa ironia della morte che avevano dimostrato: il cadavere si era sfracellato sull'asfalto al di sotto della palazzina dell'università, dopo aver annunciato una sessione di laurea che non esisteva e una corona d'alloro che non avrebbe indossato. Forse, nella loro ottica, era pure una scelta carina, celebrativa, ma agli occhi di Arturo fu una violenza vera e propria.
Si voltò a osservare di sfuggita il fratello, scoprendo di non essere il solo: una coppia di ragazzette, a occhio e croce poco più che ventenni, stavano osservando la schiena di Romeo dalle ultime file della chiesa, bisbigliando l'una all'orecchio dell'altra con le mani a conca e le facce curiose. Arturo ne osservò le giacche di colori accesi, i jeans chiari, i capelli ben sistemati nelle code di cavallo, e non negò loro un'occhiata di disprezzo sincero che venne intercettata ma non accolta; in tutto questo, Romeo non sembrò accorgersi di nulla.
«Preghiamo per nostro fratello... Nostra sorella Noemi, scusate, che si è addormentata nella speranza di...» lo ridestò il prete: Arturo non riuscì a trattenere un mezzo sorriso, lo stesso che prese vita sul volto di Romeo, per quanto tentasse di celarlo sotto il morbido foulard blu che portava al collo.
Valutò frettolosamente il da farsi, poi decise di andare contro le sue stesse promesse e, appena Romeo intercettò il suo sguardo, gli sorrise.
Si era immaginato molteplici possibili reazioni da parte sua, quando aveva deciso di sollevare gli angoli delle labbra, ma suo fratello era riuscito a sorprenderlo: era arrossito. Tentava di nasconderlo ancora dietro allo stupido foulard appoggiato al collo, ma il rossore aveva raggiunto le guance in fretta e si era propagato fino alle tempie come un incendio.
Arturo gli mancava.
Aveva guardato il suo contatto sul cellulare tante volte valutando se scrivergli anche solo un messaggio per domandargli come stesse, inchiodato sempre dall'orgoglio o da un pessimo tempismo che lo distraeva. Avrebbe voluto spiarlo sui social, ma era stato bloccato ovunque; aveva cercato la complicità degli amici, ma i profili erano blindati e con pochi contatti comuni. Di fronte a quella chiusura ostinata e perpetrata negli anni, aveva semplicemente gettato la spugna.
Una ragazza si fece strada lungo la navata della chiesa: Romeo ne approfittò e sgambettò vicino al fratello minore, senza curarsi dei lamenti accennati dei parenti e amici a cui pestava i piedi.
Arturo lo osservò a lungo, serio, mentre la ragazza saliva sul pulpito e si schiariva la voce, non prima di aver gettato uno sguardo curioso e fin troppo insistente a Romeo, restando privata di considerazione.
«Fratello...» bisbigliò poi Romeo accomodandosi, mentre la ragazza iniziava a tessere le lodi di Noemi, elogiandone la disponibilità, la dolcezza e l'ironia.
«Ho un nome» gli ricordò Arturo, asciutto. Romeo non volle perdersi d'animo.
«No, dico, prima... "Fratello Noemi"...»
Riuscì a strappargli un sorriso, anche se di palese malavoglia.
«Posso abbracciarti?»
Arturo abbassò gli occhi: sebbene Romeo avesse tentato di farla suonare come una proposta per supportarlo, gli suonò come una supplica. Indicò con il capo il pulpito, sforzandosi di non guardare in faccia Romeo, temendo di cedere di fronte a un sicuro sguardo implorante.
«Non ho voglia di chiacchiere.»
Romeo abbassò lo sguardo a sua volta, amareggiato.
«Ti voleva bene» soffiò a mezza voce. Arturo, in risposta, riprese a osservare la bara.
«Gliene voglio anch'io.»
Noemi Bildi.
Sua cugina.
La sola della sua famiglia con cui fosse rimasto in contatto fino ad allora, sebbene le loro chiacchierate si fossero fatte a poco a poco più rare e sporadiche, complici la riservatezza sulla propria vita di uno e lo stress universitario dell'altra: aveva riletto gli ultimi messaggi che si erano scambiati un mese prima, rileggendo le risposte cariche di emoji e punteggiatura con una consapevolezza nuova e cupa.
«Chissà che le è passato per la testa...» sentì la voce di Romeo, distante. Strinse più forte la presa sulla panca, aggredito da una rabbia cieca, forzandosi di non rispondere con troppa asprezza, chiudendo gli occhi e digrignando i denti.
Gli suonò come una frase di circostanza, buttata lì per tentare di intavolare una conversazione. Stava riscoprendo quanto sapesse essere odioso Romeo.
«Nessuno lo saprà mai davvero. Non pensiamoci.»
La ragazza scese dall'altare, asciugandosi gli occhi con il dorso della mano. Arturo la seguì con lo sguardo carico di livore, constatando che in realtà non le era scesa mezza lacrima.
Romeo gli appoggiò una mano sulla spalla.
Arturo si ritrasse per un momento, come scottato, e Romeo nascose la mano dietro la schiena di conseguenza con un gesto repentino. Arturo si morse il labbro, nervoso: era stato colto di sorpresa non tanto dal gesto, quanto dall'improvviso, ostinato senso di protezione che era tornato a galla. Gli sembrò di essere tornato bambino, quando ancora il fratello maggiore era un eroe e una minaccia al contempo, e si spaventò della sua stessa, improvvisa fragilità.
«Scusami» disse, infine. «Sto male.»
Notò con la coda dell'occhio la mano di Romeo muoversi verso di lui con cautela, come se volesse accarezzare un cane che ringhiava. Lo allontanò ancora, tenace.
«Ti chiedo solo un po' di tempo.»
«Vieni a pranzo da me?»
Arturo alzò lo sguardo, stupito: «A pranzo da te?» ripeté, ignorando gli sguardi acidi dei parenti che iniziavano a farsi insistenti.
«Vorrei che vedessi casa mia. È bella e... spaziosa» proseguì Romeo goffo e inibito, abbassando lo sguardo. Per un istante, quando tornò a guardarlo, Arturo rivide il ragazzino timido che l'aveva accompagnato durante l'adolescenza e, sorprendendosi di se stesso, si intenerì.
Erano passati anni lunghi, complicati e tesi, ma la sostanza era sempre la stessa: avrebbero sempre potuto mostrarsi fragili l'uno con l'altro senza timori o imbarazzi.
«Però se non ti va possiamo sempre...» azzardò Romeo di fronte al silenzio, sperando con ogni fibra di sé di essere interrotto e non dover tentare di giustificare un altro arrivederci troppo lungo. Infilò la mano destra nella tasca del cappotto, percependo subito un filo tendersi e una cucitura rompersi con un piccolo strappo.
«Va bene, vengo» sputò infine Arturo, celando sotto un tono stizzito un vago sollievo. Osservò il fratello in tralice, notando come le spalle si fossero subito rilassate e celasse un sorriso sotto il foulard, ritrovandosi a sorridere a sua volta.
Il sorriso sul volto di Romeo scemò in fretta: prese a torcersi le mani, osservandole con espressione troppo concentrata.
«Non chiedermi di salutarlo, ti prego» indovinò i suoi pensieri Arturo, secco. Le braccia di Romeo gli crollarono lungo il busto.
«Non volevo chiedertelo...»
«Non credo avessi molti dubbi.»
Alzò una mano: «E ti prego, non iniziare con qualche discorso in sua difesa. Ho bisogno di tempo, ti dico. Per favore» concluse con un sibilo, carico di vecchio risentimento.
Romeo osservò sfilare i pochi che prendevano la comunione, sospirando.
«Sei in moto?»
Per poco Arturo non scoppiò a ridere: aveva acquistato un motorino due mesi prima di congedarsi dalla sua famiglia, ben sistemato ma di certo non performante.
«No, sono coi mezzi.»
Romeo frugò nella tasca sinistra della giacca, estraendo quella che somigliava a una tessera, piccola, sottile e nera, con su due bottoni in leggero rilievo e il logo Land Rover.
«Aspettami in macchina, allora» tagliò corto, con tono comprensivo ma irrigidendo la schiena: Arturo non poté fare a meno di notare di quanto cercasse un contatto con lui, mentre gli sistemava la tessera sul palmo, gli prendeva con delicatezza le dita e le chiudeva intorno, osservandolo con serietà quasi solenne. Si scoprì felice di quella dolcezza e di quell'interesse protettivo, dimenticando per un lungo istante gli anni passati.
Sorprendendosi di se stesso, sorrise.
«Grazie.»
Il sacerdote segnalò il termine della funzione: la chiesa si svuotò con calma, lasciando Arturo ancorato al proprio posto a perlustrare i volti dei presenti, ansioso. Romeo fece un passo indietro, osservandolo con apprensione; poi, rassegnato, sospirò.
«Non c'è.»
Arturo sembrò svegliarsi: la rabbia lo schiaffeggiò per l'ennesima volta, aggrottandogli le sopracciglia, facendogli assottigliare gli occhi e stringere la chiave a tessera fino quasi a distruggerla. Addirittura, si ingobbì per un istante, prima di risollevarsi e spostare un ciuffo di capelli dietro le orecchie con un gesto distratto.
«Ci vediamo in auto.»
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