Prologo - L'inizio

Diario dell'Esploratore n.1:

Ogni mattina mi svegliavo sereno e soddisfatto.
Un'abbondante colazione, una doccia calda, un robot servitore pronto a prepararmi un caffè, una bella rivista di Bolidi in Furia e... i sensi di colpa: essere un criminale, ladro d'auto e assassino ricercato non sempre rallegra, ma i soldi accumulati riuscirono a compensare in parte il mio malessere.
Con i soldi rubati mi comprai una piccola villa sui piedi del maestoso Monte Lee, il famoso monte che recava la storica e immortale scritta di Hollywood.

La mattina del 10 ottobre 2077, dopo la mia solita colazione, decisi di andare dal ferramenta per aggiustare il reattore di Bonnie Chestnut, il nome che avevo dato alla mia bellissima Corvega, un auto a fusione nucleare, quando una squadra di agenti della polizia mi sbalzò contro il muro e mi arrestò, portandomi in carcere, al Polimbroke Penitentiary.

In attesa del processo, mi sbatterono in una squallida cella. Ma tutto ciò sarebbe cambiato, esattamente il 23 ottobre, giorno... della Grande Guerra. Infatti, verso le 9.47, nelle TV delle celle trasmisero una notizia terribile:
"I radar militari hanno intercettato un numeroso contingente aereo provvisto di bombe nucleari, probabilmente cinesi. Sono stati avvistati numerosi lampi e fasci di luce radioattivi... Oh mio Dio."
In carcere ci fu un momento di silenzio: tutti volevano ascoltare le parole del direttore, che assieme ai suoi secondi parlò davanti alle celle.
Con la faccia sudata e pieno di paura il direttore grassoccio cominciò a parlare.
"È successo! È successo! È la fine! Stanno venendo a prenderci!
Rifugiamoci nel Vault della prigione!"
Il direttore scappò assieme ai suoi uomini, lasciandoci da soli.

Non volevamo crederci. Ci fu un momento di panico totale.
Mentre i carcerati stavano agitando e battendo le sbarre per cercare, in qualche modo, di uscire, il mio compagno di cella dal nome ignoto si
scagliò su una guardia in sosta di fronte alle nostre sbarre verticali e la strozzò, per poi raccogliere la sua chiave e aprire la cella.
Sorpreso, gli chiesi il suo nome, ma mi rispose con un secchissimo "Più tardi, ora è tempo di fuggire".
Approfittando della confusione e delle guardie immerse nel panico generale, scattammo nel centro di controllo e aprimmo tutte le celle.
Una massa enorme e terrorizzata di "'tute arancioni" si buttò fuori dalle celle e si diresse verso le uscite.

Corremmo veloci verso l'entrata del bunker, appiccicato su una muratura nel cortile interno, ma si chiuse prima che potessimo entrarvi. Decidemmo dunque di uscire dal cancello principale per cercare aiuto.

Mentre migliaia di carcerati stavano confluendo verso tutto il deserto, il conducente di un auto che andava a tutto gas, che aveva anche investito dei prigionieri in procinto ad attraversare la strada, fu seccato da un abile galeotto, con l'intenzione di salirvi e scappare, ma prima che potesse far ripartire l'auto, lo neutralizzammo e prendemmo il suo posto, pestando con foga i pedali.

I nostri occhi poi fissarono il cielo: era pieno di aerei; c'erano i caccia della nostra aviazione che cercavano disperatamente di intercettare i bombardieri cinesi prima che facessero cadere le bombe, ma presto sarebbero stati annientati.

Il compagno, vedendomi preoccupato, mi rassicurò:
"C'è un altro Vault qui vicino. Se ci sbrighiamo possiamo ancora farcela."
Questo mi risollevò, ma la paura percorreva ancora il mio corpo.

Arrivammo a destinazione dopo un tortuoso viaggio fatto di terrore e ansia.
Stavamo per scendere dall'automobile piena di buchi, quando in un secondo fu sganciata la prima terribile bomba in lontananza, verso la città.
"Dai che sono lontane!"
Il mio compagno mi esortò di fretta a gettarmi dall'abitacolo e correre verso il bunker.
Il Vault, racchiuso nella roccia, con un'immensa porta in metallo pesante a forma di ingranaggio, si stava chiudendo. Il raggio mortale dell'ordigno era velocissimo e stava per raggiungerci, spazzando via tutto quello che inghiottiva.
Ci tuffammo verso la porta, spiaccicandoci contro il pavimento metallico.
Vidi l'onda d'urto far sbalzare in aria l'auto e farla schiantare sulla porta, ma per fortuna, essa si chiuse in tempo, risparmiandoci dalla tempesta di fuoco che aveva avvolto la Terra, emanando un forte calore e un tragico odore di morte e tristezza.

Mi alzai cercando di riprendermi, dimenandomi e gridando costantemente "svegliati" a me stesso.

"Il mio nome è Ryan" - disse il mio compagno di cella, mentre era seduto a terra, unto di sudore e sangue.
Le persone che si erano salvate dentro al Vault erano terrorizzate e turbate, piangenti, demoralizzate, distrutte, pensierose, per i loro cari di tutta la nazione: "si sono salvati?", "i miei genitori, come stanno?"; queste furono solo alcune delle tante domande che si ponevano, e che forse non avrebbero mai trovato risposta, dato l'isolamento dal mondo esterno e la potenze delle migliaia di bombe sganciate in tutta America.

Il mondo era ufficialmente finito, e la guerra non cambia mai.

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