Capitolo Diciannovesimo.
[Amy]
Passarono sei giorni.
Sei interminabili giorni durante i quali mi distaccai dalla band. Sì, avevo preso coraggio e lo avevo fatto.
Quella sera, una volta tornata a casa, ebbi giusto il tempo di lasciare il mio basso in camera, darmi una spazzolata ai capelli togliendo i residui di lacca utilizzata per cotonare la mia capigliatura, prima che la porta della stanza si aprisse.
Da quella porta entrò Vince, un poco barcollante a causa dell'alcool e chissà cos'altro. Il suo volto esprimeva potere, decisione, cattiveria, arroganza. Conoscevo bene quell'espressione: era la solita che metteva su quando doveva farmela pagare. Ed io ero stanca.
«Cosa ci fai qua, Vince?» «Ti ho detto che ti avrei fatto una bella festa una volta tornati, o sbaglio?» «Non hai già ottenuto ciò che volevi?» «E da quando io mi accontento di una sveltina?» rispose, con ironia. «Devi smetterla.» solo in quel momento mi voltai nella sua direzione guardandolo negli occhi e scoprendolo più vicino di quanto credessi.
«Non prendo ordini da una ragazzina.» «E io non prendo ordini da un pezzente, drogato e alcolizzato quale sei.» scoppiò in una fragorosa risata. «Ti ha fatto comodo però, eh?! Trovane un altro che ti scopi come ho fatto io in questi mesi... da leccarsi le dita!» affermò fiero. «Posso avere quelli che voglio, non crederti tanto speciale solo perché mi hai concesso di suonare nella tua band per qualche mese.»
Le mie orecchie udirono il colpo sordo della mia schiena contro il muro. Vince odiava che lo trattassi in quel modo ed io esageravo ogni volta.
Si avvicinò a pochi centrimetri dal mio volto. «Acida? Forse è il mio turno per rimediare.» sorrise beffardo. Dalle mie spalle, le sue mani scesero lungo il mio corpo per far terminare la loro corsa sui glutei. Avvicinò i nostri bacini fino a che sentii il rigonfiamento dentro ai suoi pantaloni a contatto con il mio basso ventre. «Togliti.» mi imposi. «Se no che fai, eh? Mi prendi a schiaffi?» rise ancora.
Sentii un nodo allo stomaco crescere sempre di più e i miei arti paralizzarsi come accadeva sempre. Avevo paura. Paura e schifo di quel ragazzo che mi teneva in pugno da mesi. Ma quella sera le cose sarebbero cambiate, dovevo uscirne, non potevo rimanere e subire ancora. Dovevo scappare, lontano.
Passò la lingua sulle mie labbra, per poi congiungerle con le sue, sigillando il mio respiro nella sua bocca e impedendomi di parlare. Iniziai a tremare.
Il suo bacino si muoveva strofinando le nostre intimità attraverso gli indumenti che indossavamo. Con le mani slacciò la mia cintura per poi abbassare i pantaloni; lo stesso fece con i suoi, poi passò agli slip e io mi ritrovai imprigionata tra il suo fisico e il muro, mentre cercava di introdurre il suo membro dentro di me, con prepotenza. Cercavo di ribellarmi ma lui mi teneva sempre più forte. Il respiro iniziava a mancarmi e gli occhi pungevano. Ma non potevo, non dovevo piangere davanti a lui.
Mi gettò in malo modo sul letto e dopo avermi allacciato le braccia sopra alla testa tenendo saldamente i miei polsi con una sola mano, con l'altra iniziò a spogliarmi. Ben presto mi ritrovai nuda sotto il suo corpo, nudo anch'esso. Mi sovrastava. «Adesso vedi chi comanda.» mi disse con tono gutturale, al lato del volto. Ciò che avvertii dopo fu una fitta di dolore dovuta ad una penetrazione senza cerimonie. «Non è ancora arrivato il momento di urlare, dolcezza.». Iniziò a muoversi freneticamente, e una volta passato il dolore il mio corpo reagì ai suoi stimoli. Scese a mordere i miei seni, a lambire con le labbra i capezzoli. Con le dita stimolava la mia intimità e le forti spinte facevano il resto. Venne svuotandosi dentro di me, ma io non lo seguii. Lacrime calde iniziarono a sgorgare dagli occhi percorrendo lente il mio viso. Il dolore era tornato, non solo fisico, ma prevalentemente morale. Il cuore mi doleva. Dei crampi mi attanagliavano lo stomaco. Una rabbia incontrollata mi stava invadendo. «Cos'è, la bambina piange?» rise ancora. «Ma che brava che sei stata. Se avessi suonato come ti sei lasciata fottere saremmo tutti più felici.» e rise, rise. Si tirò su per poi rivestirsi. Lo imitai.
«Non hai nulla da dire?» ma io, che ero stata in silenzio fino a quel momento, finalmente parlai. «Una cosa da dire ce l'avrei.» «Parla allora.» «Fattelo da solo questo cazzo di gruppo. Cercati un'altra bassista da scoparti a tuo piacimento.» affermai severa e con estrema serietà. Rise. Gli diedi uno schiaffo sonoro sulla guancia. Smise.
«Ragazzina stupida... tu di qua non te ne vai.» «Sì, questa notte. Adesso. Vaffanculo.» afferrai il borsone in fondo all'armadio mettendolo a tracolla, la chitarra e il basso nella mano destra, e nella sinistra misi la borsa contenente l'ampli. «Dove pensi di andare, si può sapere?» mi urlò Vince. «Lontano da te, lontano da voi, lontano da qui. Per me sei morto, ridotto in cenere. Non esisti più.» e con le sue risate in sottofondo, lasciai l'appartamento.
Mi ritrovai sola, il pomeriggio seguente, a vagare in una zona limitrofa alla Sunset Strip di Los Angeles. Ero tornata in quella città nella speranza di trovare Jeff disposto ad aiutarmi. Non potevo farcela da sola, non tanto a livello pratico, quanto più a livello morale.
Ero a pezzi, mi sentivo usata, sporca, demoralizzata, vuota. Era come non fossi più nulla, se non un corpo vuoto che vagava senza meta in una delle città più vaste del continente. E avevo bisogno di farmi una dose, e di bere. Volevo sfogarmi, e con quella roba ci riuscivo. Almeno non pensavo per un po'. Quel bisogno era talmente forte che mi diressi in uno dei vicoletti in cui ricordavo andare a prendere la roba quando ancora abitavo con i Guns. Ed infatti, trovai qualcuno disposto a vendermene un po'. Pagai e sparii così com'ero arrivata.
Camminai ancora per qualche metro, sotto il sole caldo. Ero riparata dal mio cappello panama e dai miei occhiali da sole a goccia; indossavo un paio di stivali texani, una t-shirt con delle frange e degli shorts. Semplice, giovanile. Avevo poco più che vent'anni ed in quel momento era esattamente quello che apparivo. Agli occhi di alcuni sarò potuta sembrare un adolescente in fuga da casa, agli occhi di altri una ragazza pronta a compiere il viaggio della sua vita, ad altri ancora semplicemente una tossica, pallida come un morto, senza meta e senz'anima. Ma poco mi importava.
Entrai in un grill e presi posto ad un tavolino nell'angolo in fondo al locale, isolato e ben protetto dalla luce grazie alle veneziane abbassate a metà. Collocai accuratamente i miei bagagli sul divano in vinile rosso che faceva da angolo e poi, con il mio oro ben nascosto, mi diressi in bagno. Il rituale ebbe nuovamente inizio, lo sfarfallio davanti agli occhi comparve ancora, il giramento di testa iniziale e lo stordimento, idem. Mi guardai allo specchio per poi sorridere amara al mio riflesso. «Cazzo Amy, quanto fai schifo.» mi dissi, a voce bassa. Poi risi, una risata isterica, sfinita, che mi provocava dolore. Ed infine piansi: fu breve. Mi bagnai il viso, mi asciugai ed uscii come se nulla fosse mai accaduto. Mi lasciai andare a peso morto sul divano, il cui vinile cigolò a contatto con i miei shorts di pelle e delle mie gambe scoperte.
Poco dopo arrivò una ragazza a prendere la mia ordinazione. Era bella, davvero. Occhi chiari, capelli biondi e non più lunghi delle spalle, corporatura minuta, esile. Era impossibile non notarla.
«Ciao! Cosa posso portarti?» "wow, anche gentile!", pensai. «Delle patatine fritte ed una birra, grazie.» ostentai un sorriso. «Aspetti qualcuno?» chiese. «No, sono appena tornata da un viaggio particolare. Sono qua per nascondermi!» e scoppiai a ridere. Mi stupii quando quella ragazza si aggregò alla mia risata. «Sei forte, sì! Ascolta, vedo che sei una musicista quindi, siccome la sera qua facciamo musica dal vivo, potresti fare un salto e suonare.» mi fermai immediatamente, per poi guardarla seriamente. «Scherzi?» «Affatto. Magari potresti aprire al mio gruppo!» non ci credevo. «Non lo so, ecco, dovrei pensarci...» «Prenditi il tempo che vuoi. Se vorrai esibirti potrai chiedere di me, sono Mandy.» «Lo terrò in considerazione, grazie!» le sorrisi, questa volta lo feci sinceramente. Si allontanò e non molto tempo dopo un suo collega mi portò ciò che avevo ordinato.
Non sapevo se sarei tornata in quel posto, magari però avrei potuto rifletterci su.
Mangiai gustandomi ogni boccone di quello che sembrava il primo pasto decente da chissà quanti giorni. Le patatine le sporcai con un po' di ketchup, poi mangiai quelle striscie di Bacon posizionate sul bordo del piatto, ed infine ordinai un'insalata. Presi anche una grossa tazza di caffè. Nel frattempo, in testa avevo solo un pensiero: trovare Jeff. E fu così che, appena terminato il mio pranzo, aprii la tasca interna della mia valigia dove, accanto ad un plico di buste contenenti le sue lettere, trovai anche un piccolo foglietto con su scritto il suo numero.
Ebbene sì, Jeff aveva affittato un appartamentino tutto suo, staccandosi dalla quotidianità con gli altri ragazzi. Un po' mi era dispiaciuto, ma mi aveva assicurato che i rapporti erano buoni e che nulla si stava deteriorando. Aveva solo bisogno dei suoi spazi e gli altri avevano rispettato la sua scelta. Richiusi la valigia e rigirai quel piccolo foglietto fra le dita per un po'. Infine mi decisi. Mi alzai, pagai, e mi diressi alla prima cabina telefonica lì vicino. Poggiai a terra tutti i miei bagagli e poi digitai il suo numero. Le dita mi tremavano.
Il telefono iniziò a squillare. Al sesto squillo stavo per riagganciare, ma sentii la sua voce dall'altro capo dell'apparecchio.
«Pronto?» «Jeff, sono Amy.» si susseguirono pochi istanti di silenzio. «Amy, da dove mi stai chiamando? Sento un gran casino in sottofondo!» «Sono sulla Sunset Strip, sono tornata a Los Angeles.» gli occhi mi si fecero lucidi. «Cosa? E perché?» «Jeff, ho bisogno di te...» ammisi in tutta risposta, con la voce rotta. «Cristo, Piccola... cos'è successo? Dove sei?» gli diedi la mia posizione. «Arrivo, farò prestissimo, aspettami lì e non muoverti.» «Grazie, a dopo.» «Ciao Piccola.» e riagganciò. Uscii da quel buco che era la cabina, per poi sedermi sulla valigia ad aspettarlo, fumando un paio di sigarette. Sarò sembrata un'opportunista, una stupida, ma avevo davvero bisogno del mio migliore amico, di colui che non mi aveva mai lasciata sola, di colui che mi aveva sempre capita con un solo sguardo.
I minuti passarono lenti, faceva caldo, ero tesa. Poi, un'auto scura, blu probabilmente, si affiancò al marciapiede ed un ragazzo con un'improponibile camicia a fiori hawaiani, un paio di jeans stracciati e a zampa di elefante, e i capelli lunghi e corvini mi si avvicinò. Era lui, era arrivato. Mi sollevai e senza neanche dargli il tempo di proferir parola, lo abbracciai di slancio. Mi confortò enormemente sentire la sua presa stringersi attorno ai miei fianchi. «Sali che ti porto a casa.» E mai quelle parole mi erano risultate più calde e rassicuranti.
Fu lì che restai per i giorni seguenti.
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