8. Tra compiti di filosfia, terzo appuntamento e scusa se ho urlato
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«Avanti Reda, consegna.» I miei occhi incrociano quelli del mio professore di filosofia per un secondo, mentre la mia mano continua a muovere freneticamente la penna sul foglio.
«Un secondo» biascico, cercando di scrivere l'ultima maledettissima parola sul compito, mentre il professore continua a strattonarmi il foglio da sotto le dita.
«Gli altri hanno consegnato da cinque minuti abbondanti» si lamenta l'uomo, tirando sempre più forte il mio foglio e facendomi sospirare, visibilmente stressata.
«Gli altri non dovevano recuperare» affermo, lasciando finalmente andare il foglio e rassegnandomi al fatto che no, nemmeno questa volta ho recuperato. Io odio la filosofia, odio studiare pensieri deliranti di gente che è morta anni fa e non vedo come conoscere queste teorie assurde e contorte possa aiutarmi nella vita. A volte mi chiedo perché non ho scelto lo scientifico: i numeri sono sempre una certezza.
«Magari agli altri potrebbe dare fastidio che tu abbia avuto più tempo di loro.» L'affermazione di questo pelato mi fa alzare gli occhi al cielo, mentre sbatto la testa sul banco.
«Chi ha delle rimostranze da muovere, sa dove trovarmi» mugugno, mentre riattacco il mio banco al muro. Scorgo lo sguardo di Delia con la coda dell'occhio, mentre riavvicina il suo banco al mio dopo che ci siamo divise per svolgere il compito. Non riesco nemmeno più a guardarla in faccia, dato che venerdì scorso ho accettato l'invito a uscire di Federico. È ormai la terza volta in meno di un mese che esco con lui e non dico nulla alla mia migliore amica. Se Federico non fosse chi è, ovvero il suo ex, sarei ben felice di raccontarle come io sia contenta di riuscire a fidarmi di un ragazzo di nuovo. Le racconterei di come mi senta in colpa per averlo giudicato male all'inizio, di quanto sia bello quando ci guardiamo negli occhi senza dire niente. Però non posso.
«Come è andata?» mi chiede, posandomi una mano sulla gamba con fare amorevole. Si preoccupa persino della mia media in filosofia. Lei è una vera amica, non io. Deglutisco, stringendo i pugni.
«Uno schifo, se avessi consegnato in bianco probabilmente sarebbe andata meglio. Ma poi perché continua a fare domande su Scoppienover?»
Delia, Nathan e Roberta mi guardano con la fronte corrugata, fino a quando il ragazzo non prende parola in seguito ad un'illuminazione divina.
«Intendi Shopenauer?» Alzo gli occhi al cielo e sbuffo, dando una testata al muro alle mie spalle.
«Quello che ho detto!» I miei amici scoppiano in una risata fragorosa, ma io di divertente non ci trovo proprio niente. Probabilmente io ho preso un altro quattro e loro se la spassano sulle mie disgrazie. Fortuna che tra poco iniziano le vacanze natalizie. Beh, fortuna sempre tra molte virgolette, visto e considerato che le feste a casa mia ormai servono solo per elogiare Mario. Lui, a differenza mia, è stato elogiato anche per essere stato bocciato. Ovvio, visto che stato bocciato per colpa mia, dopotutto.
«Scoppienover!» sento dire da Delia mentre ride, battendo la mano destra sul banco di Roberta dietro il suo, perché sta soffocando dalle risate insieme a quegli altri due cretini di quelli che mi ostino a definire miei amici.
«Come sta Piattone secondo voi?» chiede Nathan, storpiando volutamente il nome di Platone per prendermi in giro.
«Starà bevendo un caffè con Arrostitelo!» Ecco anche la versione di Aristotele gentilmente offerta da Roberta. Rifilo ai miei amici una delle occhiate più gelide che ho nel repertorio, ma ormai ci sono talmente abituati che nemmeno ci fanno caso. Guardo Delia ridere di gusto e il suo sorriso non può che far accendere sul mio volto anche il mio. Che Federico sia stato con lei, anche se per poco, non mi sorprende: è meravigliosa sotto ogni aspetto.
«Va bene, fa ridere, ma adesso basta altrimenti giuro che vi strangolo con la sciarpa orribile che ha Delia oggi» me ne esco, trattenendo un sorrisetto. La ragazza bionda smette di ridere, guardandomi male.
«Non è orribile!» piagnucola. Non tarda ad arrivare la risposta in sincro di me e gli altri due cretini seduti dietro di noi.
«Sì che lo è.»
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Batto il piede a terra da almeno dieci minuti, mentre aspetto Federico fuori dal cancello di casa. Ho deciso di aspettarlo direttamente fuori, questa volta, perché meno domande fa mio fratello sulle mie uscite e meglio è. Evitare quello che è successo lo scorso anno (con conseguente bocciatura di Mario) al momento è la mia priorità, sempre che non mi venga in mente di farmi odiare ancora di più dai miei genitori. Anche se dubito che sia possibile aumentare il loro risentimento nei miei confronti. Mi dispiace anche di dover trattare Federico come un segreto, ma c'è un'infinita lista di motivi per cui questa cosa, qualsiasi cosa sia, non può avere una lunga vita. Se andasse male e litigassi con Delia, i miei mi odierebbero solo di più.
Per i miei genitori sono sempre stata un passo indietro a Mario, senza riuscire a capire il perché. La spiegazione che mi sono data da sola, oltre alla teoria del "figlio necessariamente della stessa età di quello della mia migliore amica" è che Mario è stato una gravidanza cercata ed io un probabile preservativo rotto. Non me la sento più di tanto di chiedere conferma ai diretti interessati.
Sbuffo, dando un calcio ad un sasso che si trova tra i miei piedi, vedendolo arrivare a colpire la ruota di una macchina che giunge dalla fine della strada. Oh, ma guarda: l'orribile Volkswagen di Federico Leone. Mi stringo nel mio cappotto, assumendo la mia solita espressione accigliata, mentre Federico accosta davanti a me dal lato del guidatore. Mi rifila uno dei suoi sorrisini da playboy dei miei stivali e, proprio mentre sono ormai arrivata davanti la portiera del lato passeggero, mi piomba alle spalle e me la apre. Mi volto verso di lui, con la fronte corrugata. Se si comporta da gentiluomo, mi rende più difficile il lavoro di farmi odiare per farlo smettere di perseguitarmi.
«Perché continui a fare...» Blocco le mie parole quando incontro il suo sguardo, perché tanto è inutile continuare a cercare di capire quello che fa. Sono giunta alla conclusione che è mezzo sciroccato ed io che continuo ad uscire con lui sono anche più stupida.
«Puoi salire e stare zitta?» chiede, sempre sorridendo, facendomi ribollire il sangue nelle vene. Zitta io?
«Se sto zitta è perché ho deciso di stare zitta io, non perché me lo dici tu!» cerco di assicurarmi di avere l'ultima parola. Federico alza gli occhi al cielo, premendomi una mano sulla testa e costringendomi a salire in auto. Rimango indignata e a bocca aperta, visto che sono stata trattata come fossi una criminale latitante, così quando ritorna finalmente in auto gli assesto uno schiaffo dietro la nuca. Federico mi guarda male, premendosi la mano destra proprio sul punto in cui l'ho colpito.
«Ahia?» esclama, intonandola più come una domanda. Mi porto le braccia al petto, puntando gli occhi sulla strada dritta davanti a me.
«Questo è perché mi hai detto di stare zitta» rispondo, facendolo solo ridere di più. Lo odio, lo odio, lo odio! «La smetti a ridere di me? Sono arrabbiata, dovresti essere spaventato, dispiaciuto, quello che ti pare, ma non divertito!» dico, riportando lo sguardo su di lui, alla mia sinistra. Si lascia cadere sul poggiatesta del sedile, continuando a guardarmi sorridente e con un accenno di rossore sulle guance. Federico Leone arrossisce?
«Pensi di essere spaventosa? Sei solo carina, quando ti arrabbi.» Gli occhi mi si spalancano, le guance diventano più rosse di quelle di Heidi e l'unica cosa che posso fare è nasconderle dietro i capelli e la sciarpa. Volto la testa verso il finestrino, così da non doverlo guardare più in faccia. Ma perché ci sono uscita? Perché ho aperto quel profilo fake? Perché ci sono cascata un'altra volta? Sento Federico tossire per schiarirsi la voce, per poi mettere in moto la macchina. Non mi chiede dove voglio andare questa volta, ma parte semplicemente.
«Perché non mi hai parlato più, dopo il cinema?» mi chiede, facendomi solo voltare di più dall'altra parte per evitare di guardarlo. Magari se lo evito la smette. Sì, la smette e non mi cerca più. Prima o poi si stancherà. No?
«Perché non avevo niente da dirti» dico solo, stringendo i pugni senza che lui possa vederlo. Non è vero, lo odio ma allo stesso tempo è l'unico con cui non mi sono sentita sbagliata. A ripensarci, però, anche con Antonio era andata così.
«Invece secondo me avevi tante cose da dirmi.» Oddio, fatelo smettere prima che lo prenda a pugni e gli incolli la testa al finestrino. Va bene signor Ficca buchi, vuoi sentirti dire che hai ragione?
«Ce le avessi avute te le avrei dette, non pensi?» gli chiedo, voltandomi verso di lui ancora una volta. Federico stacca gli occhi dalla strada per qualche secondo, solo per guardarmi e sorridere. Ma ce la fa a cambiare espressione, oppure deve sempre ridere come un cretino?
«No, perché sei cocciuta ed orgogliosa e non me la daresti mai vinta.» Ecco che mi ruba l'ultima parola lasciandomi a bocca aperta, ancora. Sono io che metto fine ai discorsi e non se ne parla che qualcuno riesca a farlo al posto mio. Soprattutto se si tratta di Federico Leone.
«Come cavolo ti permetti a...»
La macchina frena bruscamente, interrompendo le mie parole, ed io rischio quasi di sbattere la testa al cruscotto. Mi scosto i capelli da davanti la faccia, per guardare cos'è che ha indotto questo deficiente a frenare all'improvviso. Siamo in una stradina dissestata, completamente al buio, e per un attimo ho paura che voglia farmi qualcosa. Lo guardo, avvicinandomi sempre di più alla maniglia della portiera per allontanarmi da lui, che al momento non ci pensa nemmeno a guardarmi. Probabilmente si rende conto della mia paura, perché riprende a parlare.
«Calmati, ho solo sbagliato strada» afferma per tranquillizzarmi, ma allo stesso tempo colgo nella sua voce un pizzico di ansia. Continua a premere sull'acceleratore, ma la macchina non si muove. Federico stringe le mani al volante, per poi assestarci un pugno sopra senza far suonare il clacson. Sobbalzo, per poi ricompormi e sospirare. Non credevo fosse possibile vederlo arrabbiato.
«Grandioso, siamo anche bloccati» sussurro tra me e me, rimettendomi composta e appoggiando la testa al finestrino. Deve essere un incubo. «Che pensi di fare?» chiedo, mentre lo vedo scendere dalla macchina senza ricevere risposta. Ah, non solo mi trascina in una stradina piena di buche isolata dal mondo perché ha sbagliato strada, ora si permette anche di fare lo scorbutico? Scendo dall'auto subito dopo di lui, trovandolo con le mani poggiate sul cofano anteriore.
«Che pensi di fare?» ripeto la domanda, pensando che non mi abbia sentito, ma sbatte un pugno sul cofano facendomi sobbalzare. Di nuovo.
«Se non ti rispondo è inutile che continui a chiedermelo! Non lo so che fare, okay?» mi urla addosso. Mi sembra strano vederlo che mi urla contro, anche se continuo a ripetermi che è solo perché è in panico per la macchina.
«Beh, se giochi a calcio bene come guidi, allora la tua squadra deve essere in seri guai.» La mia battuta voleva essere un modo per smorzare la tensione, ma inspiegabilmente la mia voce deve sempre uscire fuori come arrogante e presuntuosa, perché Federico si arrabbia ancora.
«Per una volta ce la fai a non fare battutine?» urla di nuovo, costringendomi a bloccare lo sguardo su di lui carica di tristezza. Capisco l'ansia per l'auto, ma non è colpa mia, così questa volta sbotto anche io.
«Senti, non urlarmi addosso perché io nemmeno volevo uscirci con te!» Alle mie parole Federico sbuffa una risata isterica, allargando le braccia prima di lasciarle cadere con rabbia lungo i fianchi.
«Certo, tu non vuoi fare mai niente, ti costringono sempre gli altri!» Mi avvicino al ragazzo che mi sta gridando addosso, puntandogli un dito al petto con rabbia.
«Non è colpa mia se siamo incastrati con la fottuta macchina in una strada dimenticata da Dio solo perché tu non sai guidare, chiaro?» Federico si protrae in avanti, puntandomi lui un dito al petto questa volta e facendo quasi sfiorare le nostre fronti.
«Si da il caso che la fottuta macchina incastrata sia la mia e se non la tiro via di qui sono morto!» Rido io questa volta, dando un colpo al suo dito con la mano per allontanarlo da me.
«Perché, se si rovina hai paura che la tua mammina non te la ricompri come volevi tu?»
«Mia madre è morta!»
Silenzio. Io e Federico non urliamo più, il vento muove leggero le foglie degli alberi e la mia bocca è schiusa, mentre osservo il ragazzo camminare avanti e indietro e passarsi le mani fra i capelli corvini. Non riesco a parlare, ogni suono mi muore in gola. Sua madre è morta.
«L'ho uccisa io,» continua, «è morta di parto.»
Mi guarda negli occhi, senza che io riesca a dire niente. Niente di niente. Io, con sempre la risposta pronta e con l'ultima parola mia di diritto, non so cosa dirgli. Brava Laura, questa volta l'hai fatta grossa.
«Non lo sapevo...» cerco di giustificarmi, inutilmente. Non lo sapevo, ma non mi sono mai interessata. Federico scuote la testa, guardando a terra.
«Hai presente Roberto, il ragazzo biondo che sta sempre con me?» Annuisco. «Ecco, lui non è mio amico. Cioè sì, ma è anche il mio fratellastro. Mio padre e sua madre si sono messi insieme quando eravamo piccoli, lei è l'unica madre che io abbia mai avuto.»
Vorrei poter dire qualcosa, ma non saprei neanche cosa dire. Mi dispiace che tu abbia ucciso la tua mamma? Non sei stato tu ad ucciderla, è semplicemente capitato? Vorrei tornare indietro di qualche secondo e ritirare quell'orrenda frase. La tua mammina. Che diavolo ho in testa?
«Non riguardo mai le sue foto, perché mi riaprono solo quel vuoto che ho da quando sono nato, ma lo faccio almeno una volta l'anno.» Riprende, richiamando la mia attenzione. Riporta gli occhi smeraldo su di me, con un sorriso amaro disegnato sul volto.
«Le ho viste cinque anni fa, il primo giorno di superiori. Le somigli un sacco, sai? Quel giorno ti ho vista con la coda dell'occhio e ho pensato che fossi lei. È da quel giorno che cerco di parlarti, ma non ho mai trovato il coraggio.» Le sue parole mi colgono in pieno, improvvise, inaspettate. Assomiglio a sua madre? Ha cercato di parlarmi per cinque anni? Ci sono troppe cose che non riesco a capire, tanto che la curiosità riesce a sbloccarmi le corde vocali.
«Tu... sapevi chi ero?» chiedo, a bassa voce, come se avessi timore di dire qualcos'altro di sbagliato. Federico scuote la testa, mordendosi il labbro inferiore.
«No. Non volevo saperlo, in realtà. Ti vedevo tornare a casa tutti i giorni perché anche io passavo per quella strada, ma non ho mai avuto il coraggio di leggere il nome sul citofono.» Abbasso lo sguardo, dispiaciuta. Devo aver rovinato tutte le sue aspettative.
«Devi essere rimasto parecchio deluso quando mi hai parlato, allora.» Altro attimo di silenzio, poi sospira.
«Vorrei che fosse così, ma credo che l'unica delusa qui sia tu.» Alzo lo sguardo, ritrovandomi i suoi occhi puntati addosso. Verde dentro marrone, giorno dentro notte, felicità dentro... cosa sono io? Infelice, inappagata, delusa? Vorrei solo chiedergli se davvero non sapesse chi ero, o se semplicemente fa finta di non saperlo perché si vergogna per me, ma non ci riesco. Non ci riesco perché l'unica a vergognarsi, qui, sono io.
Federico rompe bruscamente il silenzio, ancora, dandomi una pacca fraterna sulla spalla.
«Dai, andiamo a cercare aiuto» mi dice passandomi accanto, per poi esclamare un "ah!" e fermarsi ancora. «E scusami se ho urlato.»
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