Capitolo XVII
Durante il ritorno in carrozza Agatha rivelò la conversazione avuta con la zia di Martin al fratello. Si era aspettata una reazione stupita, o quanto meno divertita, perché lei per prima non riusciva a prendere sul serio l'offerta.
Non perché non fosse normale, ma perché non riusciva neanche ad immaginare la sua vita insieme a Martin. Ottimo amico, certo, ma nulla di più.
E se a volte sue coetanea si era sentite costrette a sposarsi in giovane età, lei non aveva mai sentito quella pressione.
Neanche da quando erano giunti a New York. Perciò il modo in cui rispose Connor la lasciò un po' perplessa.
Lui rimase ad ascoltarla fino alla fine, senza mai dire una parola, e alla fine sentenziò, quasi come ci avesse riflettuto per settimane: «Non mi sembra una cattiva idea».
Pensava di aver sentito male, perché mai avrebbe potuto credere che il fratello ribelle, quello che una settimana prima l'aveva incentivata ad andare a lavorare, le stesse dicendo una cosa simile.
Lui dovette leggerle nel pensiero perché aggiunse: «Non sto dicendo che devi accettare ad occhi chiusi... però quanto meno prendila in considerazione».
Ma in risposta Agatha mise le braccia al petto e sbuffò: «Non ho intenzione di sposare Martin». Sembrava così risoluta che di norma nessuno avrebbe avuto il coraggio di contraddirla.
Solo Connor aggiunse: «Insomma, riflettici, potrebbe essere una buona possibilità per te di uscire dai Five Points...».
Non ebbe il tempo di concludere perché lei lo fissò delusa: «Credevo che fosse un obbiettivo in comune».
Calò il silenzio per qualche istante, un silenzio carico di parole non dette, di sensi di colpa e di responsabilità.
E alla fine, come se fosse affaticato da tutte quelle riflessioni, Connor ammise: «Sì, ma non è che mi dispiacerebbe se tu iniziassi ad avviarti prima di noi...», tentò di buttarla sul divertente: «Poi ti raggiungiamo».
Ma gli occhi di Agatha si ridussero a due fessure, mentre lo scrutava: «Sei serio?».
Lui si fece più vicino, mentre la carrozza continuava la sua corsa, e le prese una mano nella sua: «Ascolta, io sono preoccupato per tutti noi. Abbiamo bisogno di soldi e di opportunità, e questa forse potrebbe essere quella giusta per te».
Lei si ritrasse immediatamente al suo contatto, come se fosse stata scottata, mentre obbiettava: «E se desiderassi altre opportunità?».
«Come quali?», non c'era un tono di rimprovero o di scherno della voce di Connor, solo pura curiosità.
«Bè», iniziò a dire Agatha, con un misto di ansia e di imbarazzo nella voce: «Ancora non lo so di preciso. Lavora al negozio mi piace, mi fa sentire utile e mi da un po' di indipendenza... magari, non so, potrei prendere in considerazione, con il tempo, di ricominciare a studiare».
Le sopracciglia di Connor si inarcarono a formare un espressione sorpresa e un po'' dubbiosa: «E' questo che vuoi veramente?».
«Credo di sì. Insomma, non ne sono sicura del tutto ma neanche tu mi sembri molto sicuro del tuo futuro», aggiunse lei, un po' offesa dal tono del fratello.
Non la credeva in grado di fare tutto ciò che desiderava?
«Il futuro», sospirò Connor debolmente, tornando a guardare la strada dal finestrino: «è difficile pensare al futuro in questo momento».
C'era una vena di profonda tristezza nella sua voce, che avrebbe dovuto far sentire un po' in colpa Agatha, eppure lei non si scompose.
«Io so per certo che nel mio futuro non c'è un matrimonio con un uomo che non amo», lo costrinse a guardarla negli occhi mentre affermava ciò, facendogli capire che non avrebbe ammesso alcun tipo di replica.
Lo vide un po' combattuto, ma alla fine Connor le regalò un sorriso tirato proprio mentre la carrozza si fermava davanti casa loro: «Va bene, come vuoi. Facciamo a modo tu, ma promettimi che se qualcosa dovesse andare storto...».
Ancora una volta non ebbe il tempo di finire la frase: «Cosa dovrebbe andare storto?», chiese lei un po' turbata.
La sua mente tornò subito al giorno prima, quando Loran l'aveva scoperta con Will. Al suo strano comportamento e alla sensazione che ci fosse sotto qualcosa.
Ma Connor alzò gli occhi al cielo e proseguì ignorando la sua domanda: «Promettimi che se qualcosa dovesse andare storto prenderai seriamente in considerazione la proposta della contessa».
Era l'unica cosa che poteva ottenere da lei, anche se Agatha continuava a non capirne il senso. E forse proprio per questo si dimostrò propensa ad accettarlo.
«Te lo prometto».
Sul volto di Connor apparve finalmente un sorriso molto più rilassato dei precedenti: «Bene, ora, se non ti dispiace, scendi... sono già in ritardo».
Aprì la portiera della carrozza, davanti alla porta in legno del loro palazzo, mentre Agatha lo guardava incuriosita dal suo cambio di atteggiamento.
«Martin ha stato gentile da offrimi in prestito la carrozza per tutta la notte. E io devo vedermi con alcuni amici», spiegò lui, facendole un cenno con il capo per invitarla a scendere con una certa fretta.
«Posso venire anche io?», chiese lei, un misto tra lo speranzoso e il determinato.
«No».
Il mezzo sorriso fiducioso le morì in volto, mentre stringeva ancora le braccia al petto e affermava: «Sai, so badare a me stessa».
A Connor non dovette sfuggire il tono offeso, per questo lui le prese ancora una volta la mano nella sua e le sorrise: «Non sono preoccupato per te, solo che non voglio portarmi dietro la mia sorellina minore».
Agatha rimase a bocca aperta per qualche istante, tingendosi dall'imbarazzo, ma per sua fortuna il fratello non chiese scuse.
La spinse fuori con gentilezza, per poi lasciarla lì, ancora con un sorriso un po' divertito e un po' confuso.
«Dove hai trovato questa carrozza?», gli chiese subito curioso Jasper, indicando il mezzo in questione.
«L'ho presa in prestito da un amico».
«Dovresti presentarli anche a noi questi amici», asserì Jasper mentre entravano nel locale.
Sembrava che fosse tutto come l'avevano lasciato l'ultima volta. I tavoli quasi del tutto pieni, l'odore leggero di sigari, il chiacchiericcio in sottofondo.
Ma c'era una cosa diversa, e Connor non tardò a notare l'assenza della musica. Era inevitabile non rendersene conto.
La volta precedente la melodia accoglieva gli ospiti come una dolce amica, stringendoli fra le sue braccia soavi e rendendo l'atmosfera ancora più confortevole.
Per questo ne sentì subito la mancanza. Voltò lo sguardo verso il palco e lo trovò vuoto, con un certo dispiacere.
Era lì anche per vedere di nuovo la bella cantante dai capelli chiari. Così si guardò intorno, sperando di poter incrociare i suoi occhi color del ghiaccio e quasi tirò un sospiro di sollievo quando la vide.
Cornelia sedeva quasi annoiata ad un divanetto in disparte, nonostante fosse accerchiata da molti gentiluomini, tutti in cerca di un po' di attenzioni da lei. Ma la fanciulla non sembrava propensa ad accontentare qualcuno.
L'assenza di musica stonava un po' in quel luogo, che sembrava quasi essere creato apposta, nonostante comunque i clienti era numerosi.
S'intrattenevano, ognuno al proprio tavolo, con conversazioni di ogni genere e nessuno fece caso ai nuovi arrivati.
Connor e i suoi amici si avvicinarono al bancone, in procinto di fare un'ordinazione ma prima ancora Jasper si permise di chiedere al ragazzo dall'altra parte del bancone: «Che cosa succede? Dov'è Earl?».
Il giovane barista lanciò una breve occhiata al pianoforte prima si abbassarsi per poter parlare con loro senza urlare: «Earl sta male e noi siamo a corto di pianisti. L'ho detto io a Burk che doveva trovarsi almeno un altro musicista, in caso di imprevisto».
«Io so suonare il pianoforte», la voce di Connor svettò sopra quelle degli altri, colpendo di sorpresa tutti quanti, primi fra tutti i suoi amici. E perfino lui ne se sorprese.
Non sapeva con esattezza perché lo aveva detto, se non per un certo desiderio e speranza di poter finire sopra quel palco a suonare accanto a Cornelia.
«Sai suonare?», chiese Edward, lasciandosi andare ad un tono fin troppo sorpreso. Connor avrebbe dovuto sentirsi perfino un po' offeso ma comprendeva la sua espressione scettica.
«Ero un caro amico del figlio di un proprietario terriero, in Irlanda. Un signorotto che si era fatto da solo, senza l'aiuto di sangue nobile, e ci teneva che suo figlio avesse un'educazione impeccabile», iniziò a spiegare, tornando alla mente alla sua infanzia.
«Voleva che suo figlio sapesse suonare il pianoforte e mi è capitato spesso di osservare, anche di nascosto, le loro lezioni».
Si ricordava ancora come se fosse ieri quei pomeriggi passati ad ascolta un maestro di musica che tentava, invano, di trasmettere la propria passione ad un ragazzino un po' viziato.
Poi, quando l'uomo se ne andava, usciva allo scoperto, si sedeva al pianoforte e ripeteva le note.
Il barista lo guardò scettico: «Non sono un'esperto, ma dubito che assistere a lezioni di musica ti renda un musicista».
Connor non si lasciò scoraggiare neanche dagli sguardi dubbiosi dei suoi amici, sorrise e affermò soltanto: «Diciamo che ho un talento innato».
Non voleva entrare troppo dei dettagli, cercando di spiegare come facesse a suonare bene senza avere alcun insegnamento alle spalle. Voleva mostrarglielo.
Con espressione di sfida si tolse la giacca, per essere più leggero, e, sotto lo sguardo dei ragazzi, si diresse verso il palco. Nessuno lo stava guardando perciò passò di nuovo inosservato mentre prendeva posizione seduto al pianoforte e familiarità con il luogo.
Non aveva mai suonato in pubblico e l'agitazione si fece subito sentire. Una parte di lui si maledisse per aver avuto quella idea e pensò perfino di tornare indietro.
Si disse che era ancora in tempo, ma quando si voltò verso la sala, tutti gli occhi erano puntati su di lui, curiosi.
Non poteva più tirarsi indietro, non senza fare la figura del vigliacco. Così contò fino a dieci, il tempo necessario per racimolare un po' di coraggio, si sgranchì le dita delle mani, come se ciò potesse servire a farlo suonare meglio e, quando fu abbastanza sicuro, iniziò a sfiorare i tasti.
Ogni volta che si trovava di fronte a un pianoforte, o a uno strumento in generale, provava una certa ansia da prestazione e iniziava perfino a non credere di essere in grado di mettere le note in fila per creare una melodia. Poi però gli bastava mettersi seduto e iniziare a suonare per cambiare subito idea.
Come se le dita si muovessero da sole, senza l'aiuto del cervello a ricordargli gli spartiti o del sangue freddo.
Ricordava che un giorno fu colto sul fatto dal maestro di musica del suo amico. Lo aveva sorpreso seduto al pianoforte a suonare la Sonata n.18 in Re maggiore di Mozart.
Era rimasto soprattutto scioccato quando alla domanda "dove avesse imparato a suonare?", Connor aveva scrollato le spalle e si era limitato a dire che aveva ascoltato alcune sue lezioni e trovato gli spartiti per caso.
Il maestro gli aveva detto che aveva un ottimo orecchio e si era perfino offerto di dargli qualche lezione, senza compenso. Ma a Connor non importava diventare un musicista famoso.
Lui si divertiva e basta. A lui piaceva creare musica premendo su quei tasti bianchi e neri.
Era vagamente cosciente di essere in un locale, circondato da molte persone. E che tra di loro c'era anche Cornelia.
Li sentiva, gli occhi addosso e i mormorii estasiati, ma li ignorò, concentrandosi solo sulla musica.
Solo quando concluse si permise di alzare lo sguardo e cercare di leggere attraverso i volti delle persone presenti.
Non poté farne a meno, i suoi occhi cercarono Cornelia, lì dove sapeva che era seduta e la trovò più attenta di prima. Incuriosita, come tutti gli altri, e con un sorriso ad illuminarle il volto.
Poi la sala proruppe in un applauso di gradimento che, invece di metterlo a disagio, lo eccitò ancora di più. Si sentì improvvisamente in grado di fare tutto.
Era sempre stato consapevole della sua bravura, ma sentire l'apprezzamento degli ascoltatori era qualcosa di estremamente diverso.
Per questo riprese a suonare, ancora più fiducioso delle sue abilità e traendo la sua sicurezza dal pubblico.
Non seppe con precisione quanto tempo rimase lì seduto a suonare, ma quando di nuovo alzò il capo, erano tutti in piedi e applaudivano di nuovo le mani.
Sotto al palco, a pochi passi da lui, c'era Cornelia che lo fissava con le braccia conserte e un sorriso malandrino.
Accanto a lei un uomo molto alto, che le assomigliava un po' nei tratti. Biondo, occhi chiari, lineamenti tipici del nord europa.
«Tu chi sei, ragazzo?», chiese l'uomo con un forte accento tedesco, senza però alcun tono accusatorio.
Lui scese dal palco e porse la mano all'uomo: «Connor Doyle».
«Piacere di conoscerti, Connor Doyle», rispose lui, stringendo la sua mano: «Burk Schulz, il proprietario di questo locale».
Poi indicò con un gesto eloquente il palco: «E di quel pianoforte».
Non riuscendo a capire se fosse contrario per la sua iniziativa oppure no, Connor decise saggiamente di restare in silenzio.
In suo aiuto accorse subito Cornelia che, rivolta all'uomo, aggiunse: «Ha suonato meglio di Earl, questo devi ammetterlo Burk».
Anche lei aveva un accento tedesco, cosa che non aveva notato sentendola cantare, anche se molto meno marcato dell'altro.
Lui ignorò Cornelia, continuando a fissare Connor negli occhi. Così il ragazzo fu costretto a ricambiare.
Non poteva non concentrarsi su una piccola ma ben visibile cicatrice che l'uomo aveva alla guancia destra. Una cicatrice che gli dava un'aria più vissuta, quasi da vecchio nonostante non dovesse avere più di trent'anni.
«Mia sorella Cornelia è rimasta molto stupita dalle tue abilità», iniziò lui, lanciando solo uno sguardo alla ragazza: «E devo ammettere che non sei niente male ragazzo».
Non sembrava volersi sbilanciare troppo con lui e Connor poteva capirlo. D'altronde lui non si aspettava nulla da loro.
Si era seduto al pianoforte solo per un improvviso desiderio di sfiorare quei tasti e, perché no, fare un duetto con la bella Cornelia.
Di certo non si aspettava quello che che Burk aggiunse subito dopo: «Hai bisogno di un lavoro?».
Spazio autrice:
Buonasera!
Come va? Vi aspettavate che Connor appoggiasse l'idea del matrimonio? Pensiate che faccia bene a voler avere questa possibilità sempre aperta? E cosa mai lo preoccupa?
Il prossimo capitolo lo pubblicherò mercoledì.
Chiara 😘
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