Capitolo XV

Agatha stava sistemando la merce sugli scaffali, posizionandola come gli era stato detto da Joe, quando Will, con il suo solito sorriso ingenuo e fresco, le propose: «Vi va di fare una pausa, insieme?».

Da quando lavorava al negozio, il ragazzo approfittava di ogni occasione per stare da solo con lei, e Agatha ne era lusingata. Lui era così gentile e disponibile, che lei sentiva di potersi aprire e raccontargli tutto.

Per questo quando rimasero soli, nel vicolo sul retro del negozio, dove alcune scatole di merce ancora aspettavano di essere portate dentro, con una scatola di cioccolatini che Will aveva rubato sotto il naso dello zio, gli raccontò di sua madre.

«Lasciare l'Irlanda e imbarcarsi in un viaggio lungo e pericoloso per raggiungere un luogo così lontano da essere sconosciuto per noi, è poca roba in confronto di una madre che perde il figlio in quel viaggio. Io non so che cosa si prova, ma ho visto con i miei occhi tutto il dolore che prova».

Era rimasta turbata, anche se non aveva mostrato segni del suo sconvolgimento, alla vista della madre disperata. E fino a quel momento non era riuscita a parlarne con nessuno.

Suo padre e Connor avevano già troppi impegni e non voleva turbarli, mentre Molly, per quanto sembrasse sempre più grande e matura della sua età, era comunque una bambina.

Aveva scritto anche a Martin, il suo confidente abituale durante il viaggio, ben due volte, ma lui non si era fatto sentire. E lei si era sentita profondamente sola. 

«Lei deve fingere coraggio e forza tutti i giorni, per noi, ma dentro sta morendo pian piano, giorno dopo giorno... E io non so cosa fare per aiutarla».

Aveva avuto la sensazione che sua madre si svegliasse ogni mattina, e si alzasse solo e unicamente per gli altri tre figli che le erano rimasti. E per amore nei confronti del marito. Ma era altrettanto sicura che ciò non bastava sempre.

In un certo senso si sentiva come lei. Costretta a fingere che tutto andava bene, solo per non dare un dispiacere agli altri membri della famiglia.

«Io credo che la vostra presenza basti a farle capire che non deve affrontare questo dolore completamente da sola... Che può contare su di voi», le disse Will che non poteva comprendere fino in fondo ma che comunque tentava di dare il suo contributo.

Per qualche istante, vedendo un po' a disagio, si pentì di aver aperto bocca. Lui era un estraneo, una persona che conosceva solo da poche settimane. 

Eppure con qualcuno doveva parlare, e non vedeva grandi alternative. 

«La nostra situazione economica non aiuta di certo», continuò lei, quasi obbligata. La morsa al petto che la soffocava da quando aveva visto sua madre singhiozzare nascosta nel sottoscala le suggeriva di sfogarsi. 

«In Irlanda non eravamo ricchi, ma il padrone del terreno sul quale nostro padre e Connor coltivavano era molto buono con noi e ciò ci ha sempre permesso di vivere onestamente e con qualche agio... Almeno fino alla carestia».

Ogni volta che i due restavano da soli, a chiacchierare, si finiva sempre per parlare dell'Irlanda. Ma di solito i pensieri di Agatha viaggiavano verso ricordi più felici.

La sua infanzia, soprattutto. Costernata di bei momenti, risate e qualche aneddoto divertente. 

Will ascoltava sempre con interesse, senza mai interromperla, ma lei non capiva se fosse veramente curioso o semplicemente educato.

Non le importava in realtà, voleva solo raccontare a qualcuno della sua vita prima di sbarcare a New York. Come se qualcuno nel nuovo mondo dovesse sapere. 

«Se c'è una cosa che impari», continuò lei con un sorriso triste: «dopo aver visto così tante persone morire davanti agli occhi, è che devi ringraziare il Signore anche solo per essere ancora vivo... Forse per questo mia madre non vuole piangere di fronte a noi».

Prima che potesse sfuggirle una lacrima malandrina, Agatha s'impose di sorridere ancora a Will e aggiungere, cercando di cambiare discorso: «Ma ora basta parlare di me, non facciamo altro. Invece voglio sapere qualcosa di voi e dei vostri studi».

Will cambiò posizione, sistemandosi meglio sopra la cassa sulla quale era seduto, ancora più a disagio.

Agatha aveva ormai intuito che il ragazzo fosse un ottimo ascoltatore, ma pessimo nel raccontare la sua vita. 

«Non c'è molto da dire», iniziò a sminuirsi infatti, con un gesto della mano e evitando di guardarla negli occhi. 

Era riuscita a scoprire, solo perché Joe amava vantarsi del nipote, che Will studiava medicina e lei non riusciva ancora a comprendere perché se ne vergognasse.

Avrebbe dovuto esserne orgoglioso, e magari urlarlo ai quattro venti, eppure evitava quasi sempre il discorso. 

«Io invece credo che ci sia molto da dire», affermò Agatha decisa, per poi aggiungere con una punta di amarezza: «Ma comprendo che voi non desiderate parlarne con me».

Solo quando lui alzò di nuovo lo sguardo a fissarla, interrogativo, continuò dicendo: «Non mi ritenete all'altezza di certi discorsi».

«Ma no, Agatha, non è così», si affrettò a negare lui, scendendo dalla cassa e fissandola con aria contrita.

«Lo so, lo so, sono troppo impicciona», lei non lo stava ascoltando, si era rimessa in piedi con lui e si stava sistemando il grembiule per tornare dentro.

«Non è per questo...», ma Will non ebbe modo di continuare perché Agatha continuò: «Scusatemi, insisto troppo. E' evidente che voi non avete voglia di condividere con me nulla di personale e in fondo sono stata una sciocca. Siamo due estranei».

La consapevolezza che forse non avrebbe dovuto aprirsi troppo, che non avrebbe dovuto confidarsi con una persona che neanche conosceva, la travolse con tanta prepotenza che rischiò di scoppiare a piangere. 

Non voleva farsi vedere in quello stato da Will, perciò si voltò e fece per tornare all'interno del negozio, ma una mano ferma e calda la bloccò, prendendola per il polso.

«Non andate, Agatha», la voce quasi supplichevole del ragazzo la spinse a voltarsi per guardarlo.

Da dietro i suoi capelli scuri, un paio di occhi la fissavano sinceri e un sorriso dispiaciuto la convinse ad esitare.

«Non importa, Will, non importa», provò a dire, cercando di fargli capire che non era colpa sua. Era lei che si era illusa.

Ma in risposta lui continuò a sorriderle un po' imbarazzato, mentre la lasciava andare e affermare: «Sapete, forse dovreste venire a vedere con i vostri occhi».

Si mise le mani in tasca e la fissò, quasi non avesse detto nulla di così bizzarro. Non sembrava stesse scherzando, anzi, era serio come non mai, eppure la prima reazione di Agatha a quella proposta fu di sorridere divertita.

«Io? All'università? Dite sul serio?», per un attimo, mentre lui annuiva, iniziò perfino a valutare la possibilità, che poi scartò, scuotendo la testa e sbuffando, sorpresa: «Ma no, quell'ambiente non fa per me».

Lo aveva affermato con una punta di rammarico, perché in realtà a lei piaceva studiare. Lo aveva sempre fatto a casa, con sua madre, ma in segreto sognava di poter continuare la carriera scolastica, proprio come stava facendo Will. Solo che non ne aveva le possibilità.

«Perché no?», chiese lui, sorpreso dalla sua reazione così reticente: «Mi sembrate una ragazza molto intelligente».

Lei si sentì avvampare di rossore ma non si lasciò incantare comunque dal complimento: «Non sono troppo giovane per frequentare?».

Arrivati a New York le loro preoccupazioni era diventate ben altre rispetto a quelle di finire gli studi, e per quanto le dispiaceva, sapeva che doveva dare un contributo in famiglia. 

Lui si strinse nelle spalle: «Si può anche solo entrare come osservatori».

Per qualche istante Agatha non comprese perché le stesse dando quelle informazioni, ma quando lo vide arrossire iniziò a comprendere.

E poi lo sentì aggiungere: «Potrei accompagnarvi io, e farvi visitare il campus».

Agatha sorrise, lusingata, ed era sul punto di accettare, con estrema spudoratezza, il suo invito, quando furono interrotti. 

«Agatha, che state facendo?», una voce perentoria, e anche arrabbiata, uscì dalla strada principale.

Lei si voltò lentamente, intuendo già a chi fosse ma rimase comunque sorpresa nel puntare i suoi occhi su quelli chiari e limpidi di Loran, che in quel momento sembravano giudicarla.

«Non dovreste essere qui», aggiunse con tono più basso, gutturale, spostando la sua attenzione su Will. 

Lo guardò con una tale espressione di sfida che Agatha ebbe un brivido di terrore. Non ebbe neanche modo di dire qualcosa, magari inventare una scusa, perché era troppo preoccupata che il ragazzo potesse rivelare tutto a suo padre.

«Andiamo a casa, adesso», si avvicinò e la prese per un braccio, strattonandola, ma non con troppa forza, verso la strada. 

Lei non riuscì neanche a ribattere, si lasciò trasportare come se fosse una bambola di pezza. Ma Will, invece, non rimase a osservare senza far nulla. Li seguì e chiese, visibilmente infastidito: «Signore, lasciatela andare immediatamente». Si mise perfino in mezzo, tra loro e il marciapiede, impedendogli di fatto di avanzare.

La mascella di Loran si contrasse, e la stretta sul braccio di Agatha si fece più ferrea.

«Non vi intromettete in faccende di famiglia». Si vedeva che si stava trattenendo, per non perdere il controllo davanti ad Agatha.

«Siete suo fratello?».

«No».

«E allora non credo che sia affar vostro cosa fa o non fa la signorina Agatha nel suo tempo libero».

Da quando lo conosceva, non aveva mai visto Will così combattivo e ne fu quasi piacevolmente sorpresa. Se non fosse stata troppo preoccupata per la sua sorte. 

Infatti, nonostante avesse l'aspetto di un ragazzo nel pieno della salute, era altrettanto certa che non sarebbe riuscito ad averla vinta con uno come Loran. Non ce lo vedeva proprio a fare a botte in vicolo, le sembrava più un tipo da discussione pacata. 

Ed è per questo che fu costretta a prendere una decisione difficile. Le costava molto ma prese un lungo respiro, si mise tra i due, dando le spalle a Loran, e cercò di sorridere al ragazzo per trasmettergli tranquillità.

«Va tutto bene Will», cominciò lei, con tono affabile, sperando di poter calmare anche l'altro ragazzo alle sue spalle, che comunque continuava a tenerla per il braccio.

«Potete avvisare Joe che devo andare via prima?».

«Siete sicura?».

Naturalmente Will era troppo intelligente per credere che andasse tutto bene, ma allo stesso tempo era anche abbastanza discreto da non volersi intromettere se non fosse stato necessario. Non si sarebbe mai messo in mezzo in questioni private della famiglia di Agatha, glielo imponeva la sua buona educazione.

Lei gli sorrise con ancora più convinzione mentre affermava: «Sicura. Ci vediamo domani».

E ancor prima che potesse aggiungere qualcosa, Loran la stava portando via. Non si voltò neanche a guardare Will, perché si vergognava così tanto che non voleva osservare la sua espressione di pietà dipinta sul volto. 

Ma quando furono abbastanza lontani da non poter essere né visti né sentiti, Agatha si liberò dalla presa del ragazzo con uno strattone deciso e ringhiò: «So camminare anche da sola».

In quel momento lo odiava così tanto che l'istinto di alzare una mano e colpirlo in pieno volto prese quasi il sopravvento. E la stupì molto, perché mai aveva avuto voglia di picchiare qualcuno. 

Lui si voltò per guardarla, per nulla contento, né di averla sorpresa in quel vicolo, né del tono di voce che gli aveva appena riservato.

«Vostro padre sa che passate il tempo libero con degli sconosciuti, in luoghi appartati?».

Sapeva di aver colpito nel punto giusto. Ed Agatha sussultò, sbarrando gli occhi dal terrore. Era stata scoperta da Loran e lui non avrebbe esitato a dirlo a suo padre. Eppure tentò di sembrare calma e agguerrita allo stesso tempo, sperando di poter avere qualche possibilità.

«Non sono affari che vi riguardano, ma se proprio lo volete sapere, non stavo facendo nulla di disdicevole. Will è un mio collega e stavamo solo parlando».

«Collega?», chiese lui, con gli occhi ridotte a due fessure: «Mi sembra di ricordare che vostro padre vi abbia proibito di lavorare». 

«E a voi che cosa importa?», voleva proprio comprendere per quale ragione lui stesse reagendo in quel modo. 

Ma Loran evitò di guardarla, deciso a non darle una risposta: «Voi avete disubbidito», furono le sue uniche parole, come se bastassero a giustificare il suo atteggiamento. 

«E che cosa farete? Andrete a dirlo a mio padre?», ribatté lei, combattiva, portandosi le braccia al petto.

Lui era pronto a dire qualcosa ma s'interruppe all'improvviso, sbarrando gli occhi dalla parola. 

Invece di parlare, la prese ancora per un braccio e la spinse via, verso un vicolo buio e senza uscita, facendola appoggiare delicatamente sul muro sporco.

«Ma che...», provò a dire lei ma non ne riuscì a finire la frase perché lui le mise una mano sulla bocca. Puzzava di tabacco ed era calda. 

«State ferma e zitta», le sussurrò, mentre si sporgeva con la testa oltre il vicolo per vedere la strada principale, lì dove qualche secondo prima stavano parlando.

Agatha aggrottò la fronte, confusa, ma non poté fare alcuna domanda, ancora con la bocca tappata. Lo vide solo tirare un sospiro di sollievo mentre la lasciava andare e tornava sulla strada principale.

«Sono andati via», affermò lui quasi sorridendo, facendole cenno di poter tornare. E lei lo fece guardinga, quasi riuscisse a sentire la stessa preoccupazione di Loran.

Non capiva cosa era successo ma non aveva mai visto Loran agire in quel modo e, per quanto strano e misterioso fosse, non le era mai sembrato pazzo.

Prima ancora che potesse chiedere qualcosa, lui si passò una mano sui capelli biondi e sospirò: «Non è sicuro per voi, non dovreste andare in giro per il quartiere da sola... e fare amicizia con gente sconosciuta».

«I Preston sono persone per bene», ribatté lei, stizzita.

«Forse, ma non ci sono solo loro».

Sembrava che fosse in procinto di dirle qualcosa, ma poi decise di evitare, si voltò ancora per guardare la strada e quando parve contento aggiunse: «Andiamo, sbrighiamoci a tornare a casa».

Ma invece di ubbidire, Agatha incrociò di nuovo le braccia al petto, testarda: «Avete intenzione di dirlo a mio padre?».

La spaventava a morte l'idea di dover affrontare il giudizio del genitore, ma non l'avrebbe data vinta a Loran. 

Continuò a fissare il suo volto, bello ma severo, con puro astio, aspettandosi in risposta un assenso deciso.

E invece lui sorrise, divertito: «Dovrei farlo», ammise con voce stupita: «Ma invece penso che terrò il segreto».

Le sue parole erano così inaspettate che Agata ci mise più del dovuto per comprenderle veramente. 

«E perché lo fareste?», l'idea la faceva quasi ridere. Era evidente che Loran la pensasse come suo padre, che avrebbe preferito saperla a casa tutto il giorno a cucinare e rammendare. Per questo aggiunse: «Se pensate che smetterò di lavorare, allora non avete capito nulla di me».

Lo stava sfidando, ne era consapevole. Ma non aveva paura come l'aveva avuta per Will. Perché era certa che Loran non le avrebbe torto un capello. Era strano, misterioso, irritante e arrogante, certo, ma non aveva mai alzato le mani su una donna.

Lui parve quasi offeso dalle sue parole, mentre affermava con decisione: «Invece so perfettamente come siete, e non sono sorpreso di questa vostra iniziativa. Non riuscirei a convincervi a restare a casa neanche se usassi la forza», iniziò continuando a sorridere come se la stesse prendendo in giro. 

Non faceva altro che farla arrabbiare ancora di più. Che cosa ci trovava di divertente in tutta quella storia?

E visto che lui non aveva alcuna intenzione di spiegarsi più chiaramente, lei fu costretta a chiedergli: «E allora che cosa volete?».

Era proprio questo che voleva Loran, lo comprese nell'istante in cui una luce comparve nei suoi occhi. 

Sorrise ancora, ma questa volta soddisfatto: «Due cose».

Attese qualche istante prima di spiegarsi: «Prima di tutto dovrete accettare la mia scorta da e per il negozio...», e prima ancora che lei potesse aprire bocca per controbattere, lui era già pronto ad aggiungere: «O questo o dirò tutto a vostro padre».

«Voi non avete altro da fare che seguirmi in giro? Tipo un lavoro?», lo redarguì lei sprezzante, ma Loran ignorò il suo tono: «Voi non preoccupatevi del mio lavoro. Io ci sarò, vi accompagnerò tutte le volte che dovrete andare a lavoro e vi riporterò a casa a fine turno».

Il suo tono di voce era così deciso che Agatha si rese conto di non avere molte scelte. Per questo tirò un lungo sospiro e acconsentì suo malgrado. 

Non comprendeva le preoccupazioni di Loran ma lo parve davvero più rilassato mentre le indicava con la testa la strada: «Bene, ora torniamo a casa, forza... Muovetivi».

La incitò la mano, con fare brusco, e lei acconsentì a raggiungerlo mentre si avviavano a passo svelto verso il loro palazzo.

«E la seconda cosa?», chiese dopo qualche istante ricordandosi le sue precedenti parole.

Loran, che era sovrappensiero si voltò a fissarla, la fronte corrucciata.

«Avete detto che sono due le cose che volete», precisò Agatha quasi infastidita, e lui si rilassò di nuovo.

Con tono quasi triste Loran ammise: «Sarebbero anche più di due, ma mi accontento di una cosa alla volta».

Poi tornò a fissare la strada con un sorriso divertito, ignorando così lo sguardo perplesso di Agatha.

«Ritenetevi in debito con me, signorina Doyle. Un giorno, forse non troppo lontano, verrò a chiedervi ciò che mi dovete». 

Non sembrava minaccioso, quanto piuttosto fiducioso e anche un po' felice, ma se Loran era strano, molto strano. E Agatha non si fidava affatto di lui.

Non moriva dalla gioia all'idea di essere in debito, ma ormai aveva acconsentito e la sua parola d'onore le avrebbe impedito di rimangiarsi la promessa fatta. Una parte di lei già se ne pentiva.

Quando raggiunsero il loro palazzo, un ragazzino piccolo, smilzo ma con indosso abiti puliti, se ne stava in piedi davanti alla porta della loro casa, in strada. 

Un ciuffo di capelli biondi quasi gli copriva un occhio e spostava il suo peso da un piede all'altro, nervosamente. Guardava con attenzione e desiderio un gruppetto di bambini, suoi coetanei, che giocavano in strada. Ma restava lì, immobile, con in mano un pezzo di carta, un biglietto.

Non appena li vide drizzò le spalle e si mise più composto, fermando il suo movimento compulsivo. Cercò di darsi un'aria più formale mentre chiedeva, rivolto ad Agatha: «Miss Agatha Doyle?».

«Sì, sono io».

Il ragazzino le porse il biglietto allungando il braccio verso di lei. «Il mio padrone le manda questo». Poi fece un breve inchino e corse via, diretto verso il centro.

Agatha fissò il pezzo di carta, finemente lavorato e piegato con cura. Una carta che profumava perfino e capì subito da chi venisse.

Non diede molto peso allo sguardo di Loran, che la fissava come a chiederle spiegazioni. Lei invece aprì il biglietto e lesso velocemente e in silenzio.

Mia cara Agatha,

Mi scuso se non sono riuscito ancora a rispondere alle tue due lettere ma so che comprenderai. Ambientarsi non è facile e tu lo sai meglio di chiunque altro. Comunque ti scrivo per invitarti a bere un tè a casa di mia zia, domani pomeriggio, per farmi perdonare della mia improvvisa sparizione ma anche perché ho parlato così tanto di te che ora lei vuole assolutamente conoscerti. Spero che tu possa venire, così da poter passare un po' di tempo insieme. Aspetto tuo notizie.

Affettuosamente,

Martin.

E improvvisamente il malumore sparì dagli occhi di Agatha, che si lasciò andare a un sorriso allegro. 

L'amico conosciuto in nave, colui con il quale aveva condiviso angosce e paure durante il viaggio, non si era dimenticata di lei. 

Spazio autrice:

Buonasera! Mi sono fatta perdonare, spero, per il capitolo corto di ieri, con un capitolo un po' più lungo di quelli abituali.

Pensate che mi fossi dimenticata di Martin? E invece no, nel prossimo capitolo tornerà anche lui, e soprattutto faremo la conoscenza della zia. Chissà se vuole solo conoscerla, o invece c'è sotto dell'altro?

E l'atteggiamento di Loran, forse si può intuire da chi tentava di nascondersi. Ma perché?

Il prossimo aggiornamento sarà venerdì.

Chiara. 

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