Capitolo VI

«Intendi ora? Non potremo fare un altro giorno? O più tardi? Sono stanco, ho fame e vorrei potermi lavare prima dei cugini, perché ho paura di non trovare acqua pulita dopo», si lamentò Connor, cercando di convincerla a lasciarlo andare.

Ma nell'espressione di Agatha si poteva leggere un'urgenza che non aveva tempo. 

«Ti prego, è importante», lo supplicò lei.

Connor fissò prima la grande porta in legno che conduceva a casa, come un povero uomo affamato fissa un carrello pieno di dolci da dietro ad una vetrina, e poi tornò a guardare la sorella, arreso.

Si misero seduti sul marciapiede logoro e sporco mentre di fronte a loro due signore in abiti succinti ammiccavano ai passanti che si promulgavano in coloriti apprezzamenti. Cercarono entrambi d'ignorarle.

«Oggi ho conosciuto una ragazza», iniziò: «Vive nel nostro palazzo, si chiama Kathleen».

In altre occasioni Connor avrebbe permesso a sua sorella di prendersi tutto il tempo che voleva prima di arrivare al nocciolo della questione, ma quella sera era troppo stanco e affamato. 

«E?», la incalzò, cercando di farle capire la sua impazienza e proprio per questo Agatha decise di accontentarlo. 

Gli raccontò tutto, per filo e per segno nei minimi dettaglia, ma con estrema velocità. E Connor rimase ad ascoltarla in silenzio.

Dalla sua espressione non si poteva dire ciò che stesse pensando e forse proprio per questo lei parve un po' titubante quando concluse.

«Volevo dirlo a nostro padre, o alla mamma, ma poi ho pensato che forse era più saggio dirlo a te per primo. I nostri genitori hanno tanto a cui pensare...».

Si prese una leggera pausa prima di aggiungere, con un filo di voce: «Non volevo dargli una preoccupazione in più».

Ancora in silenzio, Connor annuì, e si permise di regalargli uno dei suoi mezzi sorrisi prima di convenire: «Hai fatto bene a raccontarlo a me».

Non poté non pensare subito a come avrebbe reagito il padre, dall'animo sempre ottimista. Un uomo che non crede all'esistenza del diavolo neanche se lo vede di persona.

«E adesso che cosa facciamo? Ne parliamo a mamma e papà?», chiese Agatha, impaziente.

«Per dirgli cosa?», fu la semplice domanda di Connor. In quel momento si voltò a fissarla di nuovo. 

«Per quanto ne sappiamo questa Kathleen potrebbe aver esagerato, o inventato, solo per spaventarti. Non alziamo un polverone inutilmente».

«A me però quel tipo non mi è piaciuto dal primo momento», aggiunse Agatha, non volendo concludere quella conversazione così. 

Tra loro due, lei era sempre stata quella più curiosa e incline a voler scoprire le cose. E di solito non solo non aveva la tendenza a ostacolare, ma spesso e volentieri la incoraggiava. 

Perciò fu ancora più difficile per lui tirare il freno di fronte alle sue preoccupazioni: «Anche a me quell'uomo non ha fatto una bella impressione. Ma non possiamo dire che ciò sia un metro di giudizio accettabile nella nostra società. Altrimenti dovrebbero tutti considerare Kale e Loran dei pericolosi malviventi, quando invece noi sappiamo bene che sono solo degli idioti».

Cercò di buttarla sul ridere verso la fine, suscitando un'espressione divertita sul volto delicato della sorella. 

«In verità, tutti i Murray sembrano dei perfetti idioti», precisò lei, acconsentendo a quel poco di leggerezza che lui le stava concedendo.

«E a proposito di questo...», continuò, cambiando discorso: «Che cosa è successo tra te e i cugini?».

Connor finse di non aver compreso e si voltò perfino dall'altra parte per evitare di guardarla negli occhi. 

La sua reazione non sfuggì all'attento occhio critico di Agatha, che insistette: «Andiamo, Connor, io ho un sesto senso, lo sai. C'era una certa tensione fra di voi, più di quanta non ci sia normalmente. E Kale ti ha quasi incenerito con gli occhi, prima di entrare in casa».

Se c'era una persona alla quale non sfuggiva nulla, quella era Agatha Doyle e per quanto Connor avesse sempre provato a farla franca, riusciva a convincere i suoi ingenui genitori ma mai sua sorella.

Sentì la piccola e calda mano di lei toccargli la spalla, con affetto, e subito la sua mente tornò alla loro casa. Non quella che dividevano con i Murray aldilà di quella porta ammuffita. 

No, la sua verde e bellissima Irlanda.

«Tu e il tuo maledetto sesto senso», si lasciò andare Connor, tra un sorriso e l'altro, voltandosi di nuovo a fissarla.

«Ho semplicemente detto in faccia a quel grassone ciò che penso di lui», sputò quasi sulla strada, infuriandosi anche solo ripensando a Kale.

Agatha sorrise, divertita. «Avrei voluto esserci», si lamentò, dispiaciuta per aver perso una scena del genere. 

«Nostro padre non deve averla presa molto bene», aggiunse, ricordandosi il discorso che i suoi genitori avevano fatto a tutta la famiglia. 

«Puoi giurarci, ha detto che appena avrà del tempo a disposizione vuole fare una chiacchierata con me».

Ed entrambi sapevano che cosa Fergus intendesse per chiacchierata: lavata di testa piena di sermoni e paternalismi. Una cosa che cercava entrambi di evitare fin da quando erano bambini.

Per qualche istante i due fratelli rimase in silenzio, ascoltando quasi rapiti i vari rumori fastidiosi del quartiere. 

Una donna che gridava al figlio di rientrare; due uomini che, a qualche strada di distanza, litigavano e si lanciavano impropri; le risate e le urla di alcune signorine all'interno della casa di tolleranza di fronte al loro palazzo. 

Nonostante stesse per giungere la sera, i Five Points erano più vivi che mai. Anzi, sembrava proprio che durante la notte si animassero di una vitalità diversa. Più pericolosa ma allo stesso tempo più attrattiva.

«Ti sei pentito di essere venuto con noi?», gli chiese all'improvviso Agatha, stanca di restare ad ascoltare quei suoni.

«Mi sono pentito nell'istante in cui la nave ha lasciato il porto», ammise lui, schietto e sincero. Sapeva che ciò avrebbe potuto ferire i sentimenti di sua sorella, ma tra di loro c'era sempre stata onestà.

E poi non riusciva a dimenticarsi le ultime ore che aveva passato in Irlanda. Le sensazioni che aveva provato quando si era ritrovato da solo nella loro vecchia casa. 

Un vuoto dentro lo aveva pervaso a tal punto da non riuscire più a respirare. Da sentirsi soffocare. 

Come se l'intero mondo gli fosse caduto addosso. Come se un arto gli fosse stato mozzato di netto. Come se il suo cuore gli fosse stato strappato dal petto con le mani nude. 

Non si era mai sentito così perso, così solo e così disperato come in quel momento. Aveva provato una delusione simile quando una fanciulla, alcuni anni prima, gli aveva spezzato il cuore rifiutando il suo corteggiamento.

Ma neanche quel dolore era paragonabile a ciò che aveva provato nell'osservare la casa in cui era nato completamente vuota. La consapevolezza che non avrebbe più rivisto la sua famiglia. 

Li aveva dati sempre scontati, perché erano lì ogni giorno quando si alzava. E ancora al suo fianco quando andava a dormire. 

Che cosa avrebbe fatto d'ora in poi senza di loro? Era questa la domanda che gli frullava per la testa e che lo tormentava. 

Ma soprattutto, come avrebbe potuto continuare a vivere felice con il pensiero di non essere con loro, durante uno dei periodi più difficili della loro vita? 

Non poteva sopportare di perdere un membro della famiglia, di saperli sofferenti, affamati e poveri dall'altra parte del mondo. Perché lui non avrebbe potuto fare nulla per aiutarli.

Neanche aveva ancora lasciato l'Irlanda, e già uno membro della famiglia Doyle, più di tutti, gli era mancato. Agatha. Ma questo non lo avrebbe mai ammesso. 

«Perché lo hai fatto?», gli chiese lei, facendolo tornare alla realtà.

Guardandola con occhi persi, spinse la sorella a precisare: «Perché sei partito?».

Per l'ennesima volta si ritrovavano a fare una conversazione del genere e, ancora, Connor alzò le spalle. 

«Non so che dire...», ammise a disagio. 

Ma quella volta Agatha non lasciò perdere: «Inizia dicendomi perché hai deciso di lasciare un posto che consideravi la tua unica casa... perché prima hai detto che non avresti mai abbandonato L'Irlanda e Annabelle, e poi hai cambiato idea».

Sentendo il nome della sua fidanzata Connor s'irrigidì. Si era imposto di non pensare più a lei, per non soffrire troppo, ma gli era bastato un attimo.

Tornò di nuovo a quel giorno, quando aveva lasciato di corsa la loro dimora di famiglia e galoppato a dorso di un cavallo per raggiungere Annabelle.

Gli era rimasta solo lei e si sentiva perso. 

Gli sembrò di essere di nuovo lì, davanti alla porta di casa di Annabelle, mentre con le lacrime agli occhi riversava su di lei tutti i suoi sentimenti. 

Non sapeva neanche lui che cosa si fosse aspettato da lei, ma sapeva che la risposta della giovane aveva cambiato tutto. 

«Nella vita si fanno scelte, Agatha, ed io ho scelto la mia famiglia», fu la sua secca risposta, mentre ancora sentiva il sapore amaro delle lacrime che aveva versato quel giorno. 

Non aveva detto la verità, non tutta almeno, ma non sapeva perché sentisse quell'impellente bisogno di mentire.

Forse perché lo faceva sembrare più nobile, o forse perché non voleva suscitare compassione in sua sorella. 

Ma ogni volta che lei gli chiedeva cosa fosse successo quel giorno e lui mentiva, si sentiva sempre più piccolo e colpevole. 

A peggiorare le cose, Agatha gli strinse la mano nella sua, sorridendogli con amore e affetto. 

«Ti manca?».

Questa volta non fu difficile per Connor dire la verità: «Sì, mi manca».

Poi si rese conto che non era giusto. Che doveva a sua sorella almeno un po' di pace, e così aggiunse: «Mi sono pentito di essere partito, ma sono comunque felice di essere con voi».

E questa era l'unica verità che Connor aveva il coraggio di ammettere. Considerato come erano andate le cose, sapeva che non avrebbe potuto prendere un'altra decisione.

Per quanto la sua vita passata gli mancasse, per quanto avesse desiderato più volte di tornare indietro - anche quando non era più possibile - sapeva che non ne avrebbe mai avuto il coraggio. 

«Se fossi rimasto in Irlanda ti saresti risparmiato molte cose», continuò lei, tenendolo ancora per mano e stringendo un po' la presa: «Come la morte di Timmy».

Il figlio minore della famiglia Doyle era diventato ormai un argomento di cui nessuno, neanche Agatha, faceva menzione volentieri e forse proprio per questo aveva pronunciato il suo nome in un basso sussurro. 

Quasi avesse paura di sporcare il suo ricordo. 

Connor allungò la mano libera a sfiorarle il volto delicato, costringendola ad alzare la testa per guardarlo negli occhi mentre diceva: «Sono grato di essere stato lì, ad affrontare il lutto insieme a tutti voi».

Nonostante la sua voce fosse stata ferma e sicura, Agatha lo fissò scettica, e a quel punto Connor aggiunse: «Pensi che sarebbe stato meglio venire a conoscenza della sua morte mesi e mesi dopo tramite un'infima lettera?».

Per quanto il ricordo di lui e suo padre che ricoprivano il piccolo corpo di Timmy con un lenzuolo prima di buttarlo in mare, mentre erano costretti a sentire il suo straziante del pianto della madre, lo avrebbe tormentato per il resto della sua vita, preferiva essere stato presente quella mattina.

«Sarei stato lontano, impossibilitato a darti conforto... E avrei dovuto affrontare il lutto da solo, senza di te», aggiunse, rabbrividendo al suo pensiero. 

Lei annuì, lasciandosi andare perfino a un sorriso più tranquillo, ma tornò subito triste mentre aggiungeva: «E' la prima volta che parliamo di lui da quando è morto. Siamo delle pessime persone per questo?».

Dal suo tono di voce Connor comprese che era quasi sul punto di mettersi a piangere, e poteva anche comprenderla.

Ma ancora una volta non se la sentì di assecondare quei sentimenti che sapeva avrebbero portato solo ad altra tristezza.

«No, non lo siamo», le rivelò con dolcezza: «La vita purtroppo, che si piaccia o no, deve andare avanti. Nessuno sarà comprensivo con noi solo perché abbiamo abbandonato le nostre fidanzate o perso un caro durante la traversata».

Era la triste la realtà, al resto del mondo non importava di ciò che avevano passato.

Con la mano libera le asciugò una lacrima solitaria che rischiava di bagnarle il viso: «E poi Timmy non avrebbe voluto vederci così».

Sorrisero nello stesso istante, probabilmente tornando con la mente a uno stesso ricordo. 

Poi Agatha tornò alla realtà, sciolse il contatto che avevano le loro mani e aggiunse: «Scusami, non volevo rattristarti. Hai ragione, non c'è tempo per farsene una colpa. Qui è tutto così diverso, veloce e spaventoso, che non possiamo pensare troppo al passato».

Si alzò in fretta, turbata probabilmente da qualcosa che a Connor sfuggiva in quel momento, e fece per entrare, ma lui la bloccò.

Si mise in piedi a sua volta e la prese per un polso, costringendola delicatamente a voltarsi e a guardarlo: «Non è quello che volevo dire, Agatha».

Era sempre stato così protettivo nei confronti della sorella da avere quasi un colpo al cuore ogni volta che vedeva soffrire.

«Va tutto bene?», le chiese, intuendo il suo malessere.

In risposta Agatha lo abbracciò, senza pensarci troppo. Così Connor si ritrovò il corpo minuto della sorella tra le braccia e l'unica cosa che poté fare fu quella di stringerla a sé.

Un contatto che durò molto, di cui entrambi ne avevano sentito il bisogno ma che fino a quel momento non avevano avuto il coraggio di ammetterlo.

«A volte anche io mi pento un po' di essere venuta», ammise lei, dopo che si fu allontanata, nonostante sapevano entrambi che, al contrario di Connor, lei non aveva avuto molta scelta.

Lui si concesse si sospirare, quasi rilassato, mentre affermava: «Bé, siamo qui ormai, perciò abbiamo due possibilità...».

La lasciò in sospeso proprio per poter ascoltare la sua domanda.

«Quali?».

«O cerchiamo di raggiungere l'Irlanda a nuoto, o ci rimbocchiamo le maniche e usciamo da questo quartiere orrendo».

Agatha finse di pensarci per qualche istante, per poi ricambiare l'espressione fiduciosa del fratello: «Per quanto la prima offerta sia allettante, credo che anche questa volta non mi resta che accettare la numero due».

«E' deciso, quindi. Un passo alla volta, fosse l'ultima cosa che facciamo, lotteremo per avere la vita che ci meritiamo qui, a New York».

Si sorprese perfino lui del suo tono di voce solenne e deciso, e proprio per questo, anche un po' spaventato, smorzò i toni aggiungendo: «Ora, se non ti spiace, io entrerei... Ho bisogno di togliermi di dosso questi vestiti e di lavarmi, puzzo come una capra». 

Rise di se stesso prima di entrare nel palazzo, seguito dalla sorella. Anche se non poteva vederla, sapeva che stava sorridendo e scuotendo la testa. 

Spazio autrice:

Buonasera!

Scusate per il ritardo ma wattpad oggi voleva farmi impazzire😅... Comunque, spero che il capitolo vi sia piaciuto e che si inizi a capire un po' anche il rapporto tra i vari membri della famiglia, soprattutto i fratelli Doyle. 

Il prossimo capitolo lo pubblicherò venerdì. 

A venerdì,

Chiara😘

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top