Capitolo V

Il giorno dopo gli uomini si alzarono molto presto, la signora Doyle preparò loro una frugale colazione con una zuppa di cereali e le ultime fette di pane, prima di augurargli una gli buona giornata e lasciarli andare. 

Agatha li sentì uscire ma decise di restare ancora un po' a sonnecchiare, prima che tutta la famiglia Murray si alzasse, creando il putiferio all'interno di quel piccolo appartamento.

«C'è da fare il bucato, ci pensi tu Agatha?», le chiese sua madre, indicando un cesto di panni sporchi che aveva preparato la sera prima. 

La figlia maggiore annuì senza esitazione, prendendo tra le braccia le cose necessarie, pronta ad affrontare anche quella nuova sfida.

Ma la signora Murray le si fece avanti, tra il petto prosperoso un cumulo d'indumenti suoi e dei suoi figli che non esitò a posizionare, con poca classe, sopra a quelli della famiglia di Agatha.

«Ti dispiacerebbe lavare anche questi, visto che stai uscendo?», il sorriso che le riservò era così finto e ipocrita che la fanciulla avrebbe voluto tanto tirarle un ceffone. 

Ma si trattenne, fece un lungo respiro e si mostrò più buona che mai: «Ma certo, signora Murray, nessun problema». 

Aveva ascoltato le preghiere dei suoi genitori, che avevano chiesto a tutta la famiglia di essere disponibili e gentili con chi aveva offerto loro un posto dove stare. Ma le costava molto, davvero molto. 

Digrignando i denti, e cercando di non maledire quella donna antipatica, uscì dall'appartamento con l'umore nero. 

La gran parte delle donne del quartiere soleva stendere i panni nella piazza principale dei Five Points, in bella vista. Ma fortunatamente il palazzo dove vivevano i Doyle e i Murray aveva il piccolo cortile sul retro, e fu proprio lì che Agatha si diresse per le sue faccende domestiche. 

Nulla a che vedere con quello che avevano in Irlanda. Bello, verde, pulito e dall'odore di rose di campo. 

Aveva già avuto modo di valutare il luogo, il giorno prima, e continuava a rimanere disgustava.

Un po' per l'odore che proveniva dai servizi, un po' dal terreno completamente ricoperto di fango e un po' dalle assi di legno, che in teoria avrebbero dovuto dividere il loro dagli altri cortili, ma che erano marce e collassate in più punti. 

Si fece avanti un po' baldanzosa, verso una grande vasca posta non molto lontano dal bagno, dentro la quale una giovane ragazza, forse di qualche anno più piccola di lei, stava già lavando i panni della sua famiglia. 

Dai capelli scuri sapientemente tenuti legati da un'acconciatura modesta, era china sul suo cesto e strofinava con tanta forza che sembrava voler spazzar via anche l'invisibile. Così concentrata da non notare di non essere più sola. 

Guardinga e silenziosa Agatha si fece avanti e quando la sua ombra oscurò la vista della ragazza, la vide sobbalzare e alzare la testa.

«Mi hai spaventata», esordì con una voce flebile e dolce allo stesso tempo. Una voce da bambina.

«Non era mia intenzione», le rispose Agatha, chinandosi a sua volta e prendendo un po' di acqua pulita da una tanica per sé. 

Si era chiesta perché gli abitanti del suo palazzo fossero così fortunati da poter aver perfino acqua per lavare, ma aveva taciuto ai suoi genitori ogni tipo di domanda e curiosità. Meglio ringraziare il cielo per i pochi privilegi, piuttosto che andare in giro a chiedere spiegazioni. 

Iniziò a lavare i suoi indumenti, in silenzio, ma non le sfuggirono le ripetute occhiate che la ragazza riservava nella sua direzione. 

«Voi siete i nuovi arrivati vero? Quelle due famiglie che abitano al piano terra», esordì lei dopo qualche minuto, non riuscendo a rimanere zitta. 

Agatha alzò un po' il capo per vederla meglio. I suoi occhi, di un verde simile all'erba bruciata, erano grandi e ancora pieni di speranza. La guardavano con una tale curiosità e spirito d'iniziativa che un po' si riconobbe in lei.

«Il mio nome è Agatha Doyle».

«Kathleen O'Brian».

Si sorrisero, nello stesso istante. Poi calò di nuovo il silenzio. 

In Irlanda Agatha aveva molte amiche, ed era stata dura dover dire loro addio, ma solo perché si conoscevano da parecchio tempo, fin da quando erano bambine. Le loro famiglie si frequentavano ed erano cresciute insieme. 

Una parte di lei desiderava instaurare nuovi rapporti, ma restava ancora un po' diffidente nei confronti di New York e della sua popolazione così poco eterogenea. 

«Avete già conosciuto Malone O'Neel?», le chiese ad un certo punto, evidentemente non riuscendo a non ficcanasare.

«E' venuto a trovarci la prima sera», le rispose Agatha, un po' confusa dalla natura della domanda. 

Non aveva più pensato all'uomo, nonostante la brutta sensazione lasciata, ma nel momento in cui la ragazza aveva fatto il suo nome, subito si era messa in allerta. 

«Ah, come immaginavo. Non so se lo sai ma lui è il capo dei Dead Rabbits», le rivelò lei, bisbigliando quasi avesse paura di essere sentita da qualcuno. Ma in quel piccolo cortile non c'era nessun altro oltre a loro due.

«I Dead Rabbits? Sono per caso un gruppo musicale della zona?».

La prima reazione di Kathleen fu di scoppiare a ridere di fronte alla sua interlocutrice. Di puro gusto, quasi piegata in due, mentre Agatha la fissava tra lo stranito e il curioso. 

Ma subito dopo, tornò seria e aggiunse: «I Dead Rabbits sono una delle gangs irlandesi più importanti e pericolose della zona. Non si scherza con loro e non fanno sconti a nessuno».

Per qualche istante Agatha rimase a riflettere sulle sue parole. Non riusciva a prendere sul serio Kathleen, visto che qualche istante prima rideva come una folle. Eppure il suo sesto senso le diceva di stare alla larga da quell'uomo.

«Quante gangs criminali ci sono?», chiese, più per informazione che per altro. 

«Oh, ce ne sono molte. I Roach Guards, di cui una volta facevano parte anche i Dead Rabbits, i Shirt Tail, i Plug Uglies e poi ci sono le gangs dei nativi... La più pericolosa è quella dei Bowery Boys, acerrimi nemici delle gangs Irlandesi».

Dal suo tono di voce non si riusciva a capire se fosse più spaventata o più curiosa rispetto al loro stile di vita e ciò non fece altro che confondere Agatha. 

Per ciò continuò a chiederle, sperando di poter ottenere più informazioni possibili: «Sono pericolosi?».

La ragazza alzò le spalle, prima di tornare a lavare i suoi panni. Per qualche istante Agatha pensò che non avrebbe risposto, e invece la sentì spiegare: «Sono per lo più ladri, farabutti e assassini. Se vengono a riscuotere denaro, non ti resta che pagare, se li incontri per strada è meglio se non attiri la loro attenzione... E se dovessi finire in mezzo ad una loro "battaglia", ti conviene fuggire il più veloce possibile».

Non riusciva a capire se la sua nuova amica stesse effettivamente narrando i fatti così come li conosceva, o li aveva provati, o se invece stesse esagerando. Magari per sentito dire, o solo per spaventare la nuova arrivata. 

«E se io non volessi dare loro i miei soldi?», azzardò, ricordandosi la breve conversazione che suo padre aveva avuto con O'Neel.

La giovane si voltò solo per qualche istante a guardala, come se volesse assicurarsi con i suoi occhi che Agatha stava parlando sul serio.

E poi aggiunse: «Non è che abbiamo molta scelta. Se vuoi vivere in sicurezza, devi pagare».

Agatha era sul punto di obiettare, ma Kathleen continuò: «Vedi quest'acqua?», indicò prima la vasca dentro la quale stavano lavando i loro panni, poi la tanica di quella pulita: «E' un lusso che non tutti qui a Five Points possono permettersi, come avrai intuito».

Non le rivelò che era proprio la domanda che si poneva da quella mattina, ma restò in silenzio, aspettandosi che fosse lei stessa a rivelarle la verità.

«All'ultimo piano vive uno degli uomini di Malone e in generale gli inquilini da queste parti sono tutti ben disponibili. E questo è uno dei tanti favori che il signor O'Neel offre in cambio».

Ancora una volta Agatha non riuscì a stabile se la ragazza fosse più spaventata o più eccitata dal meccanismo che si era innescato nel quartiere.

Dal canto suo, pensò che quella sarebbe stata la prima e anche l'ultima volta che avrebbe usato l'acqua di O'Neel. Più per una questione di principio che per altro. 

«In generale, evita di non causare loro problemi», ripeté la ragazza, come un mantra.

«E come faccio a riconoscerli?», le chiese, tornando a pensare che, più cose conosceva e più potevano difendersi dai pericoli.

Kathleen apparve subito molto contenta di poter rivelare a qualcuno tutte le sue conoscenze, per questo le sorrise amabilmente e parlò.

«Oh, è facile. Alcuni di loro hanno dei particolari distintivi nell'abbigliamento. Gli Shirt Tails, per esempio, indossano sempre la camicia fuori dai pantaloni, mentre i Plug Uglies amano indossare dei grandi cappelli a cilindro. Ma tutti, tutti quanti senza eccezione, hanno la faccia di criminali. Ti basta dargli una semplice occhiata, e se ti vengono i brividi allora capisci che stai guardando uno di loro. La nostra zona di solito è territorio dei Dead Rabbits, e con Malone non si scherza».

La lasciò raccontare alcuni aneddoti che aveva sicuramente sentito in giro, di cui neanche era pienamente convinta della veridicità, e alla fine quando ebbe finito di stendere i panni e fu il momento di tornare in casa, lo fece con certo magone sullo stomaco. 

Non poteva negare che alcune storie l'avevano impensierita molto e glielo si poteva leggere nel volto, pallido e riflessivo. 

Sua madre poi, la conosceva abbastanza bene da sapere che c'era qualcosa che la turbava: «Va tutto bene?», le chiese, lanciando uno sguardo alla signora Murray, che invece non si era accorta di nulla. 

Anche Agatha fissò la donna, sperando di poter trovare un momento per poter parlare da sola con la madre. Non aveva proprio voglia di discutere con lei della conversazione avuta con Kathleen di fronte ad Abigail. E sua madre dovette intuirlo.

«Sì, ho conosciuto la figlia dei nostri vicini, gli O'Brian... Una ragazza davvero a modo», si limitò a dire, sorridendo e cercando di trasmettere alla madre più serenità. Non voleva farla impensierire solo per una serie di storie che forse non erano altro che leggende inventate. 

Ma con qualcuno prima a poi avrebbe dovuto parlare. 

La prima giornata di lavoro fu massacrante per i quattro uomini che, fino a quel momento, avevano solo conosciuto il lavoro nei campi. 

Poco dopo essere arrivati, e affidati ad un capo reparto, un uomo coetaneo di Fergus, dall'aria risoluta ma anche affabile, il cui nome era Patrick, furono subito divisi per compiti. Lì scoprirono che quello che stavano costruendo era una scuola. 

Per tutta la giornata si limitarono a seguire gli ordini di Patrick, imitando ciò che facevano anche gli altri loro colleghi, correndo da una parte all'altra senza sosta. 

Di lavoro da fare ce n'era tanto e i muratori non era mai abbastanza. O almeno questa era l'impressione di Connor. Non avevano neanche tempo di riprendere un po' il fiato per qualche istante, che venivano immediatamente richiamati al lavoro. 

Patrick non si fidava a lasciare a loro mansioni importanti, avendo ammesso di non aver mai fatto un lavoro simile, ma li usava come assistenti. Perciò, all'ora di pranzo, approfittarono di quel poco che avevano per il riacquistare le forze. 

Tutti lo facevano, seduti a terra, tra il fango e il cemento, incuranti di sporcarsi ancora di più. Stringevano tra le mani callose il loro sacchetto pieno di viveri generosamente offerti dalle moglie e dalle figlie, e mangiavano per lo più in silenzio. 

La spossatezza impediva anche di aprire bocca. O almeno era così che la percepiva Connor. Troppo stanco anche solo per presentarsi ai suoi nuovi colleghi. Ma un giovane, suo coetaneo, gli si sedette accanto, sorridente e quasi più fresco di lui.

«Prima giornata di lavoro, eh?», non c'era neanche bisogno di specificarlo, si notava dai loro sguardi persi, da come osservavano tutto, come chi non aveva mai visto niente di simile. 

Connor lo fissò per qualche istante, cercando d'intravedere qualche lineamento sotto alla terra e alla sporcizia. E prima ancora che potesse aprire bocca si chiese se anche lui avesse il medesimo aspetto. Non che non ci fosse abituato, anche fare il contadino era un lavoro sporco.

«Io mi chiamo Edward», aggiunse il ragazzo, allungando la mano disponibile verso di lui, sempre sorridendo.

«Connor, e lui è mio padre, Fergus», gli strinse la mano e con un gesto della testa indicò l'uomo seduto accanto a sé che, silenziosamente, aveva già iniziato a mangiare. 

Non avevano con loro molti viveri ma erano così affamati che non si sarebbero lamentati per nessuna ragione al mondo.

«Venite dal vecchio mondo, vero?».

Connor l'osservò per qualche istante, cercando di scrutare nel suo aspetto e nella sua espressione qualcosa di particolare. 

«Dall'Irlanda».

«Mio padre invece viene dall'Inghilterra, ma io sono nato qui», gli rivelò lui, con l'unico intento di fare quattro chiacchiere.

«Sei Inglese?», chiese con fin troppa accusa nel tono di voce.

«Non io, mio padre», precisò il ragazzo, non riuscendo a comprendere l'espressione un po' indignata del suo interlocutore. 

Il giovane irlandese rimase in silenzio, ma era evidente che gli dava fastidio qualcosa. Kale, che sedeva accanto a loro, insieme al cugino, e che fino a quel momento non si era neanche presentato, al contrario di Connor non riuscì a tenersi quello che pensava: «E' a causa di quei luridi Inglesi se siamo stati costretti a venire qui. Ci hanno ridotto in miseria e quando le cose si sono messe male a causa della carestia, hanno pensato solo a salvare le chiappe dei più ricchi, impoverendo ancora di più i bastardi come noi».

Connor non riuscì a non sentirsi a disagio. Anche lui pensava quelle cose, e incolpava gli Inglesi, eppure trovava ingiusto e inappropriato che Kale ne parlasse ad Edward. 

«Mi dispiace», fu l'unica cosa che riuscì a dire il ragazzo. Dalla sua espressione contrita si poteva intuire che diceva il vero ma Kale non rimase un secondo di più. Seguito dal cugino, si allontanarono, lasciandoli da soli.

Vedendo il ragazzo abbattuto, Fergus gli diede una leggera pacca sulla spalla e affermò: «Non prendertela, negli ultimi tempi ne abbiamo passate tante e la rabbia sembra essere l'unica reazione in grado di suscitare qualcosa in quei due poveri ragazzi».

Connor non era comprensivo come il padre. Lui avrebbe voluto dire che Kale e Loran erano solo due maleducati, irruenti e prepotenti. Ma si trattenne. In fondo la sua opinione non importava a nessuno. Edward aveva avuto un po' di conforto dalle parole si suo padre e questo bastava.

Il resto della giornata proseguì come l'inizio. Duro lavoro, sempre e solo duro lavoro. Ogni movimento, ogni gesto e ogni fatica in funzione di quegli ultimi minuti, quando tutti si mettevano in fila per poter riscuotere la paga. 

Ed era l'unica parte degna di nota. Almeno per Connor che non riuscì neanche a gioire dei soldi guadagnati, tanto era stanco. Completamente sporco di fango e terra, dalla testa ai piedi, con ogni muscoloso che gli doleva come non aveva mai fatto, si rese conto che il contadino non era l'unico lavoro pesante.

Ma soprattutto che tutti i mesi passati nei campi, a sudare e sputare sangue, non lo avevano comunque preparato a quel primo giorno di lavoro in un cantiere.

«Ci vediamo domani», li salutò ancora con il sorriso il giovane, e senza alcuna stanchezza, Edward, sbracciandosi per fino per farsi sentire e vedere dall'altra parte della strada. 

Fergus non riuscì a non ricambiare il suo sorriso mentre Connor si limitava a sua volta a fare un gesto con la mano che avrebbe dovuto essere un saluto. I cugini Murray, neanche a farlo apposta, lo ignorarono, come se fosse invisibile.

«Perché perdete tempo con questa gente?», chiese Kale, all'improvviso, mentre erano di ritorno a casa.

Connor era così stanco che l'ultima cosa che voleva era una discussione su come stavano affrontando la loro nuova situazione. 

Ma Fergus, come d'altronde anche sua moglie, aveva preso molto a cuore la famiglia che li aveva ospitati. Forse anche perché loro avevano da poco perso un padre e la loro guida più forte. Sentiva quasi di dover prendere il suo posto.

«Dobbiamo integrarci, ragazzi. Così che nessuno potrà mai dire che non abbiamo il diritto di stare qui», li ammonì con voce dolce, come un tenero genitore che cerca di dare una lezione ai propri figli senza però risultare troppo severo.

«Non è evidente che, comunque, qualsiasi cosa faremo non saremo mai accettati del tutto?», fu la risposta di Kale, tagliente e sprezzante. Sembrava che quello fosse l'unico tono che la sua voce riuscisse a riprodurre.

«Perché mai dici questo, figliolo?».

Kale, in risposta alla richiesta dell'uomo anziano, scoppiò a ridere di gusto. Fu perfino costretto a fermarsi in mezzo alla strada. Si appoggiò sulle sue ginocchia per sorreggersi mentre veniva preso da attacchi di ilarità incontrollate. Rischiò perfino di strozzarsi e divenne tutto paonazzo. 

Una scena ridicola, agli occhi di Connor, che ebbe la tentazione di scuoterlo e gridargli di smetterla di ridere. Lo stava facendo apposta, era ben evidente. E ancora di più accentuato dal fatto che il cugino sorrideva, divertito dalla sua pantomima.

«Non ti credevo così stupido, Fergus», esordì alla fine della sua lunga e odiosa risata: «Non hai visto dove abitiamo noi Irlandesi? Non hai visto i lavori che facciamo? Non hai visto le condizioni in cui sono i Five Points?».

Indicò con il braccio un punto davanti a loro, lontano, dove indicativamente c'era il loro quartiere malfamato.

«E non hai visto dove invece abitano loro?», fece altrettanto puntando nella direzione opposta, verso i quartieri per bene della città.

«Ci hanno già relegati in un quartiere orribile, come se fossimo animali da rinchiudere. Ci sfruttano, come muli da traino, e si arricchiscono grazie al nostro sudore. Ci considerano bastardi ubriaconi, e si credono superiori».

Connor non aveva mai sentito così tanto disprezzo nella voce di una persona, nei suoi occhi rossi e rabbiosi e nel suo modo di gesticolare, rischiando perfino di colpire qualche passante. Passanti che, nel frattempo, si erano voltati a fissare la scena, incuriositi ma anche un po' disgustati.

«Ti stai facendo il mazzo solo da un giorno e già ti lamenti come una femmina?».

Le parole gli uscirono senza il minimo controllo. Era dall'inizio del viaggio in nave, più o meno da quando li avevano conosciuti, che era stato costretto a sopportare in silenzio. Anche la sua pazienza aveva un limite. 

Il primo a reagire naturalmente fu Fergus che, sentendo il figlio parlare in quel modo, lo redarguì sussurrando piano il suo nome. Ma era troppo tardi. 

Kale aveva ascoltato bene le sue parole, ad una ad una, e non gli era sfuggita la nota sarcastica nella sua voce. Si drizzò in piedi, come un cane rabbioso che cerca di farsi più grande davanti al nemico. Non gli riusciva difficile, visto che era una spanna più grande di Connor e due più largo.

«Ripetilo se hai il coraggio». Con un passo si fece avanti, allargando il petto come un pavone in cerca di attenzioni. Pensava d'incutere terrore ma Connor rimase al suo posto, completamente impassibile.

«Non mi fai paura».

I due si fissarono intensamente negli occhi. Quelli scuri e caldi di Connor, contro quelli più glaciali di Kale.

«Ora smettetela», la voce perentoria di Loran si fece strada fra di loro. Con un unico movimento si mise in mezzo, tra i due corpi tesi e pronti alla rissa. Guardava il cugino in faccia, mentre a Connor dava le spalle, ma parlava ad entrambi.

«Comportatevi da adulti. E se avete un conto in sospeso da chiarire, questo non mi sembra affatto il luogo più adatto», con gesto leggero della testa indicò gli avventori che, incuriositi, si erano fermati ad osservare.

«Volete dare spettacolo per caso?».

Il primo a desistere fu proprio Kale, convinto dal tono di voce mellifluo del cugino, che si rilassò subito. Sorrise al cugino ma quando si rivolse a Connor era tornato alla sua espressione minacciosa. 

«Non è finita qui», sussurrò nella sua direzione, indicandolo perfino con un dito tozzo. POi si rimise in cammino verso casa, seguito da Loran.

Ma prima che potesse oltrepassarlo, in un momento di estremo orgoglio, Connor si rivolse al cugino di Kale: «Non ho bisogno del tuo aiuto».

Una parte di lui era rimasta profondamente sorpresa dal gesto di Loran,  e non era convinto che lo avesse fatto solo per non attirare occhi indiscreti. Ma allo stessi tempo era troppo pieno di sé per ammettere di dover accettare l'aiuto di un Murray.

«Dalle mie parti si dice "grazie"», fu la risposta di Loran, prima di superarlo e riavvicinarsi a Kale, chiudendo così ogni possibile conversazione.

Padre e figlio rimasero per qualche istante dietro di loro, isolati. Fergus fissò Connor con rimprovero e, senza la minima comprensione, lo avvertì: «Noi dovremmo fare una chiacchierata, un giorno di questi».

Eppure Connor non riuscì a sentirsi in colpa per le parole dette a Kale. Se le meritava dalla prima all'ultima. E se voleva sistemare i conti, lui era pronto in qualsiasi momento.

Quando finalmente raggiunsero ai Five Points, e videro all'orizzonte il loro palazzo, Connor si sentì più felice che mai. 

La cosa più importante per tutti loro era potersi fare un bel bagno caldo e mettere qualcosa sotto i denti. Ma ad attenderli, davanti al portone del loro stabile, c'era Agatha. 

Appoggiata al muro, senza preoccuparsi di potersi sporcare il vestito, fissava la strada e loro. Non appena le fu vicino, Kale ammiccò nella sua direzione, lanciandole un bacio dall'aria disgustosa che lei evitò di prendere al volo. 

Si scansò perfino quando lui le passò a fianco ed entrò. Loran, invece, rallentò il passo proprio mentre le stava di fronte, allungò un bracciò e le sfiorò una ciocca di boccoli rossi: «Buonasera, Agatha».

Lei non rispose, ma rimase immobile, lasciandosi toccare da lui per qualche istante. Poi, come era arrivato se ne andò, passando oltre.

«Qualcosa non va, bambina mia?», le chiese Fergus, una volta raggiunta.

«No, padre, sto solo prendendo un po' d'aria. Come è andata la prima giornata di lavoro?».

«Non male, piccola, non male».

Fergus non riuscì a non trattenere un sorriso soddisfatto mentre entrava nel palazzo. Ma quando Connor tentò di seguirlo, sua sorella lo prese per un braccio e lo bloccò.

«Posso parlarti?».

Spazio autrice:

Buona Pasquetta! Spero abbiate passato queste feste, per quanto possibile, in serenità. 

Il prossimo capitolo lo pubblicherò mercoledì, ma credo che già abbiate capito di cosa vuole parlare Agatha. Quello che forse è più interessante, ma che probabilmente si comprenderà con il tempo, è perché lei abbia scelto di parlarne con il fratello. 

Curiosi?

A mercoledì,

Chiara 😘

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