Capitolo II

Five Points. Uno dei quartieri più degradati e malfamati di tutta la città, luogo dove chi veniva dall'oceano poteva sperare di trovare un tetto sulla testa.

Un tetto vecchio, puzzolente e che perde acqua, ma pur sempre un tetto. 

Non era proprio la cartolina di benvenuto che Agatha si era aspettata, con le sue strade maleodoranti e lerce, i bambini che giocavano nel fango, gli uomini ubriachi di ritorno da un turno massacrante di lavoro che si urlavano addosso impropri e le signore che lanciavano dai balconi ogni genere di sporcizia proprio sul marciapiedi. 

Le case, su più piani, erano addossate le une sulle altre, così vicine che affacciandosi alla finestra bastava semplicemente allungare una mano ed entrare nella casa di un altro. 

E l'odore, l'odore pungente di pipì era la cosa che aveva colpito subito Agatha e sapeva non sarebbe mai riuscita a toglierselo dalla testa. 

Eppure lei veniva dalla campagna, ed era abituata a sgradevoli olezzi. Ma non così forti e concentrati in uno spazio relativamente ristretto, da far venire il voltastomaco. 

Dopo aver attraversato un lago artificiale, anch'esso puzzolente e putrido,che sembrava dare un certo tipo di benvenuto ai nuovi arrivati, le era bastato fare solo due passi su Cross Road prima che un bambinetto impertinente le tagliasse la strada correndo e saltando su una pozzanghera di fango.

«Oh buon Dio misericordioso», esclamò lei esterrefatta mentre a testa china osservava la gonna del suo abito macchiata e sporca. 

Sua madre ebbe un attimo di smarrimento, ma si riprese in tempo per sorriderle e affermare, fiduciosa come non mai: «Non ti preoccupare, la puliremo... ci vorrà solo un po' di olio di gomito». 

Cercò di non farsi prendere dallo sconforto, rispondendo all'espressione ottimista di sua madre con un sorriso. 

Il primo incontro con i Five Points non era andato bene, ma era pronta a dare al quartiere un'altra possibilità. 

Si tirò su le gonne con le mani per evitare che toccassero terra, e tornò a camminare, seguendo il resto della famiglia lungo quella via trafficata e spericolata.

Di certo non perse tempo a sperare che la loro dimora fosse migliore di quelle che avevano visto, giusto per non rimanere troppo delusa. 

E infatti quando giunsero all'indirizzo che i Murray gli avevano dato, non rimase basita di fronte al grande e spaventoso palazzo di pietre scure dall'aria quanto meno poco stabile. 

Crepe lunghe metri e metri circondavano tutta la facciata, dando l'idea che non fosse molto sicuro vivere all'interno. 

Al terzo piano, la finestra che dava sulla strada era priva di vetro, forse rotto o magari mancante fin dall'inizio.

Di fronte, un palazzo quasi del tutto identico attirava subito l'attenzione, non tanto per la sua facciata - appunto simile alle altre - ma per le signorine maliziose che sostavano davanti all'entrata. 

Agatha cercò di non soffermarsi troppo sui loro abiti succinti, né sugli sguardi accattivanti che lanciarono a suo fratello, ma era più forte di lei.

Lo sguardo tornava a posarsi su quelle donne, con un po' di stupore ma senza giudizio. 

Il portone d'entrata del loro stabile era in legno, ma non di quelli buoni perché aveva preso così tanta acqua che si era allargato fino a toccare terra, ed era diventato difficile riuscire ad aprirlo. 

Fergus usò tutta la sua forza, aiutato perfino dal figlio, per riuscire a forzarlo e quando finalmente riuscì a creare uno spiraglio sufficiente per farli entrare, affermò, diretto a sua moglie: «Lo sistemeremo», sembrava volesse confortarla, farle capire che bastava solo una piccola ritoccata per rendere quel posto migliore. Ma si sbagliava di grosso. 

Non appena entrati nel palazzo, Agatha sperò di poter smettere di sentire quel forte tanfo e, invece, con suo grande rammarico, si rese conto che era ancora più pronunciato. Possibile che qualcuno avesse urinato lì dentro? 

Decise, per la sua salute mentale, che sarebbe stato meglio non farsi certe domande e cercó d'ignorare le pareti incrostate di muffa, sporco e qualche macchia indefinita, i ragni ad ogni angolo delle pareti, le crepe che continuavano ancora all'interno del palazzo e perfino un topo che, il più in fretta possibile, sgusciava via verso la sua tana sotto ad una scala che portava ai piani superiori.

Fergus bussò alla prima porta sulla sinistra, più volte, prima che la signora Murray andasse ad aprirgli. 

Famiglia Irlandese anche loro, Abigail Murray era una donna giunonica che non sembrava aver sofferto la fame dovuta dalla carestia, dalle guance sempre piene e rosse e l'impressione di essere sempre un po' alticcia. 

Soprattutto da quando il marito era morto durante il viaggio, non sembrava più in sé, finendo spesso per risultare una compagnia spiacevole. 

«Signor Doyle, entrate, benvenuti a casa», affermò facendosi da parte per poter permettere loro di entrare.

Il piccolo corridoio però era molto stretto e Fergus, come tutti gli altri compresa Agatha, furono costretti a stringersi tra la donna e il muro per riuscire a passare. 

Come aveva immaginato lei, quando le passò vicino, quasi a sfiorarla, poté sentire il suo alito che puzzava di birra e dovette trattenere un conato di vomito.

Appena riuscì a respirare di nuovo, Agatha si ritrovò di fronte ad un'unica stanza, anche abbastanza piccola. 

Un piccolo cucinino con il fuoco,il lavandino e quattro ante di una dispensa dovevano bastare per entrambe le famiglie. 

Al centro c'era un tavolo, grande ma dall'aria davvero logora. Si potevano quasi sentire le termiti che, silenziosamente e instancabilmente, mangiavano e rosicchiavano il mobilio dall'interno. O forse era solo una sua impressione. 

Nella parete opposta rispetto alla porta d'entrata, una scala in muratura conduceva alle stanze nel piano superiore. Era tutto lì. 

Il figlio maggiore dei Murray, Kale, si alzò dall'unica panca in legno della casa e gli andò subito incontro con la sua solita espressione da sbruffone. 

Si rivolse solo a lei, con un tono di voce che gli aveva sentito spesso. Non sapeva descriverlo, ma le dava i brividi: «Agatha, non siete contenta di vivere con noi?» il sorriso che le riservò era così ampio che sembrava quasi si stesse slogando la mascella. 

Ma lei non riuscì a ricambiare. Non poté non concentrarsi sulla sua espressione maliziosa mentre le faceva un inchino.

Non molto alto ma ben piazzato, Kale aveva le mani grandi e sembrava più grande dei suoi diciannove anni. 

In testa un cespuglio di ricci neri che non riusciva a domare neanche lui e spesso un odore pungente di sudore.Per certi aspetti assomigliava molto alla madre, soprattutto nei suoi modi bruschi e nella sua insistenza.

«Felicissima», rispose lei, mentendo spudoratamente. Non voleva creare un dispiacere a suo padre, che aveva fatto di tutto per trovare loro un tetto sopra la testa, perciò si era ripromessa che sarebbe stata un'ospite gentile.

Nella speranza di poter lasciare quell'appartamento, e la famiglia Murray, al più presto.

«Voi potrete dormire qui, al piano terra, mentre noi ci prendiamo il piano superiore», affermò poi, rivolto più a Fergus che a qualcun altro.

L'uomo non obbiettò, anche se si vedeva che aveva qualcosa da ridire. Ma Connor non riuscì a restare in silenzio: «Perché invece non ci dividiamo le stanze di sopra?».

«Perché siamo noi ad aver trovato la casa e noi prendiamo le camere. E poi i miei fratelli e Loran stanno già spostando le nostre cose», la secca risposta di Kale, mentre indicava con le braccia i loro miseri bagagli, lasciati ai piedi delle scale.  

Attirata dall'improvvisa rigidità del fratello, in piedi accanto a lei, abbassò lo sguardo e si rese conto che Connor aveva chiuso a pugno entrambe le mani, stringendo così forte da farsi venire le nocche bianche. 

La paura che potesse fare qualcosa di avventato preoccupò anche il padre che, prontamente prese di nuovo la parola: «Andrà benissimo anche qui, non è vero Connor?Ambiamo vissuto in luoghi peggiori, non sarà certo una piccola cucina a spaventarci» il suo tono di voce lasciava intendere che non avrebbe permesso al figlio di causare troppi problemi, mentre sorrideva affabile. 

I due si guardarono negli occhi per qualche istante, come se stessero comunicando senza il bisogno di altre parole. Alla fine Connor fu costretto a cedere, allentò la presa sui pugni e si rilassò un poco. 

Ma ad Agatha non sfuggì l'espressione di puro odio con il quale il fratello continuò a fissare il maggiore dei Murray. Comprendendo ciò che stava pensando, si avvicinò a lui con un piccolo passo laterale, allungò la mano e strinse la sua con amore. 

I due fratelli Doyle si scambiarono un'espressione di rassicurazione e vicinanza, un momento breve ma significativo. E per un'istante scorse perfino un leggero sorriso sul volto pallido di Connor. 

All'improvviso furono interrotti da un incessante bussare alla porta di casa, con una tale foga che sentirono il rimbombo. La prima cosa che fece Agatha, senza neanche pensarci troppo, fu quella di alzare gli occhi al soffitto, pregando che non le cadesse sulla testa. 

La signora Murray andò ad aprire, come aveva fatto qualche istante prima, e fece entrare, senza chiedere neanche chi fosse, un uomo alto e dai tratti marcatamente Irlandesi. 

Agatha l'osservò bene perché quando entrò rese l'atmosfera tagliente e inquietante con la sua presenza. Prepotentemente prese tutto il posto libero, costringendo gli altri a farsi da parte. 

Indossava degli abiti che, ad una prima occhiata, potevano sembrare eleganti e costosi. Un po' come quelli che la sua famiglia metteva durante la messa domenicale. 

All'apparenza sembravano fatti su misura per lui, con stoffe e tessuti di prima qualità, ma più si osservavano i dettagli più si comprendeva che erano solo una facciata. 

Prima di tutto non erano affatto della sua taglia, anzi, controllando bene si poteva intuire che il vero proprietario era di parecchi centimetri più basso e tozzo. E poi lungo tutto il completo c'erano molto pezze laddove l'abito si era strappato.  

Cercava di apparire di classe, con un cappello a cilindro, che aveva tolto non appena entrato in casa, e un bastone. Ma Agatha ne aveva visti di ricchi e di nobili e sapeva riconoscerli da lontano. E lui non lo era. 

Il suo viso poi, con una mascella squadrata e molto mascolina, aveva un che di arcigno. Forse a causa della sua espressione, delle sue sopracciglia – molto folte – o forse a causa ancora di una piccola cicatrice che gli impediva di sorridere normalmente. 

Infatti, ogni volta che cercava di tirare su le labbra sembrava piuttosto che stesse facendo una smorfia divertita e inquietante. 

Si presentò, con un inchino, facendo il baciamano alla madre di Agatha, quella più vicina: «È un piacere darvi il benvenuto ai Five Points... Io sono Malone O'Neel, il custode di questi quartieri. Se c'è bisogno di aiuto la gente viene da me e dai miei ragazzi».

In teoria le sue parole non avevano nulla di sbagliato, anzi, poteva quasi sembrare una gentile offerta di aiuto da parte di chi ormai viveva a New York da molto tempo.

Qualcuno avrebbe potuto perfino pensare che il signor O'Neel fosse stato alquanto premuroso nel presentarsi a casa loro, di persona. 

Eppure alle orecchie di Agatha sembrò tutto strano. Forse perché continuava a regalare loro quel sorriso poco rassicurante, forse perché non smetteva di fissarli ad uno ad uno, come se fossero prede da valutare. 

O forse fu proprio il tono di voce che usò. Come se dietro a quelle semplici parole ci fosse ben altro. 

Un brivido di terrore attraversò la schiena di Agatha nell'istante in cui una vocina interiore le consigliava di starle alla larga da quell'uomo. E di non chiedere mai e poi mai un aiuto da lui. 

Sensazione che si confermò quando fu il suo turno di essere scrutata con intensità e quasi molestia.

Una parte di lei avrebbe voluto darsela a gambe, ma le era impossibile visto che l'uomo si trovava proprio ad occupare la sua unica via di fuga. 

Si soffermò più del dovuto sulle sue grazie, senza neanche nascondere un sorriso di apprezzamento, sempre con la sua solita smorfia.

Uno sguardo che non passò inosservato agli occhi di Fergus. 

Si fece avanti, quasi oscurando la vista di Agatha al loro ospite, rigido come lo era stato poco prima suo figlio, e porse la mano all'uomo: «Grazie mille per l'accoglienza, messere, ma ce la caveremo da soli». 

Il signor Doyle non era tanto bravo come il suo interlocutore nell'arte dell'ambiguità, perciò fu chiaro anche ai più sordi ciò che stava comunicando. Da uomo semplice, di campagna, non andava molto per le lunghe. 

In tutta risposta O'Neel ricambiò il gesto della mano, abbassò leggermente la testa come a volersi dimostrare remissivo, ma quando rialzò il capo aggiunse: «Se qualcuno vi da fastidio, non esitate a contattarmi... La legge qui sono io». 

Continuò a fissare il signor Doyle ancora per un po', come a voler rimarcare le sue parole. Quando se ne andò la strana sensazione d'inquietudine rimase, impregnata nell'aria. 

E anche la seconda impressione dei Five Points per Agatha non fu molto rassicurante. 

Spazio autrice:

Buonasera! Come va?

In questo secondo capitolo abbiamo conosciuto anche una parte della famiglia Murray, ma non tutta ancora... Ma soprattutto un personaggio che non fa proprio una bella prima impressione. 

Siamo solo all'inizio ma già diciamo che alcuni personaggi si inizia subito a comprendere un po' il loro carattere e il loro modo di reagire. 

Nel prossimo capitolo, che posterò mercoledì, la famiglia Doyle inizierà a confrontarsi con la quotidianità della loro nuova vita. 

Grazie per aver letto,

Chiara. 

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