Capitolo I
Due mesi dopo, New York,1846.
La prima cosa che fece Agatha Doyle non appena i suoi piedi toccarono la terra ferma fu ringraziare il Signore per averli portati fin lì.
La maggior parte di loro aveva perso qualcuno durante quel lungo ed estenuante viaggio, ma avevano affrontato l'ignoto conoscendo il rischio. E nessuno poteva dire il contrario.
Anche per questo si sentivano tutti uniti, perché non c'era una famiglia che non avesse perso qualcuno. I Murray avevano visto il padre chiudere gli occhi per sempre e loro si erano sentiti inermi di fronte agli ultimi ansimi di respiro del piccolo Timmy, troppo provato per resistere alla malattia.
Le notti, quando tutti in stiva dormivano, Agatha poteva ancora sentire il pianto rotto, e controllato, di sua madre. E spesso si era ritrovata a consolarla, ricordandole che il Signore aveva grandi piani per loro. Che li aveva sottoposti a quella dura prova solo perché consapevole che sarebbero stati in grado di superarla.
C'erano stati momenti in cui perfino lei stentava a crederci, ma aveva continuato a ripeterlo a sua madre. A dirle che tutto doveva avere un senso, perché era l'unica cosa che poteva fare.
Ed infatti erano lì. Sulle coste del nuovo continente, a guardare con gli occhi sognanti la brillante e piena di vita New York City.
Non era come se l'era immaginata, né come l'aveva vista dalle cartoline. Era meglio. Più luminosa, chiassosa, popolosa e più frettolosa di quanto si potesse intuire da una semplice foto. E soprattutto così diversa dalle campagne Irlandesi da dove veniva.
Il porto poi, era in totale fermento. Navi che partivano e lasciavano il posto ad altre che sbarcavano e dalle quali scendevano fiumi e fiumi di persone proveniente da ogni luogo.
Ad aspettarli, amici e parenti dietro ad una staccionata in legno posta proprio per rispettare i confini.
Le sembrava quasi di rivivere quel momento di due mesi prima, quando avevano salutato i loro zii, solo che era tutto al contrario.
Perché quel giorno nessuno si diceva addio. Quel giorno c'erano solo sorriso e abbracci di persone che non si vedevano da anni.
Almeno chi aveva la fortuna di avere qualcuno a New York. Perché poi c'era chi come la famiglia Dpyle, non era attesa da nessuno.
«Finalmente, non ce la facevo più con tutto quell'ondeggiare. Evviva la terra ferma. Un altro giorno in più e mi sarei buttato dalla prua della nave».
La voce squillante di Martin la fece destare dai suoi pensieri, costringendola a voltarsi per guardare l'amico e sorridergli.
«Non lo avresti mai fatto perché sei un fifone», lo prese in giro, facendogli una smorfia. Ma invece di offendersi, il ragazzo la guardò da tutto il suo metro e novanta e replicò: «E anche perché non so nuotare».
Scoppiarono a ridere di gusto, felici e appagati. Non potevano tenere nascosta la gioia di essere finalmente arrivati, lì dove avevano programmato un futuro diverso.
Con lo sguardo avrebbero voluto catturare ogni piccolo dettaglio di quel momento, consapevoli che tutto sarebbe cambiato.
In meglio, speravano. Ma la verità era che davanti ai loro occhi avevano un milione di possibili scenari, e nessuno sapeva se erano tutti positivi.
«Quindi adesso dobbiamo separarci», fece notare lei, con un sospiro sconfitto.
In quelle settimane Martin era diventato il suo migliore amico, il suo confidente e l'unica persona in grado di capirla veramente. Anime affini, ecco cos'erano. E sapeva già che avrebbe sentito la sua mancanza.
Ma lui non si fece trasportare dalla malinconia, anzi, con il suo solito sorriso, le prese le mani tra le sue e la costrinse a guardarlo.
«Non temere Agatha, io e te resteremo sempre amici. New York è grande ma noi non ci perderemo mai di vista».
Quando Martin parlava con quel tono così ottimista, Agatha non poteva fare altro che credergli, per questo si risollevò il morale, più fiduciosa.
«Vuoi dire che non ti dimenticherai della tua povera amica adesso che andrai a vivere con la contessa?», lo canzonò, prendendolo in giro sulle sue origini nobili.
«Non mi dimenticherei mai della mia bella amica rossa, neanche se lo volessi», civettò scherzando a sua volta, prima di scorgere, proprio alle spalle della ragazza, un uomo con indosso un vestito gessato.
Tutto impettito, a disagio in mezzo alla massa di gente, l'uomo guardava la fila di persone che scendevano con regolarità dalla nave, ed era evidente che non stava aspettando un semplice e povero immigrato.
«Credo mi stiano cercando», affermò Martin, intuendo subito che l'uomo era lì per lui. Agatha seguì il suo sguardo fino a posare gli occhi sul maggiordomo. Era il momento di separarsi.
Una lacrima rischiò di rigarle il viso ma la cacciò via con un semplice gesto della mano, cercando di apparire forte di fronte al suo amico. Lo abbracciò con trasporto, ignorando le regole di buona educazione, tenendosi sulle punte dei piedi per cercare di raggiungere le sue spalle. E lui ricambiò il gesto di affetto con slancio e un sorriso dolce sulle labbra.
«Apresto, dolce Agatha», le sussurrò alle orecchie prima di lasciarla, prendere le sue valigie e allontanarsi da lei.
Nel guardarlo allontanarsi, sempre di più, non poté che tornare con la mente al loro primo incontro, al porto, mentre tutti i disperati in cerca di un futuro migliore stavano attendendo solo di essere imbarcati.
Lui era proprio davanti alla sua famiglia. Alto, slanciato e snello, completamente solo e con indosso un abito più costoso di tutti i loro messi insieme. Era evidente, anche ad un occhio inesperto, che non fosse lì per disperazione e povertà.
Gli altri Irlandesi lo osservavano con la coda dell'occhio, dubbiosi e anche un po' malfidati nei suoi confronti. Non sembrava una persona in grado di superare un viaggio così difficile.
Un pesce fuor d'acqua,ecco la prima impressione che Agatha ebbe di Martin.
Come si guardava intorno, spaesato ma allo stesso tempo sicuro di sé e del suo ceto sociale. Teneva stretto tra le mani due delle sue valigie, mentre le altre quattro lo circondavano quasi a formare una barriera tra lui e il resto del mondo, timoroso che qualcuno potesse rubargliele. E forse non aveva neanche torto a pensarlo.
Ma non poteva ancora immaginare che all'arrivo a New York si sarebbe ritrovato con meno della metà dei suoi bagagli.
Nonostante fossero così diversi, Agatha sentì anche di avere qualche affinità con quel ragazzo. Capiva che il suo attaccamento ai beni materiali era più che un mero vizio da fanciullo ricco e viziato.
Quelle erano le uniche cose della sua vita che aveva potuto prendere e portare via con sé. Ed erano le cose più care che possedesse. Come il capello che Agatha indossa,e teneva con una mano per paura che il vento lo potasse via, o la bambola di pezza chiusa nella sua valigia, che le ricordava un'infanzia ormai perduta.
E poi le faceva una gran pena vederlo lì tutto solo. Lei aveva la sua famiglia su cui contare e senza di loro sapeva che sarebbe stata persa. Ma quel piccolo nobile dal naso all'in sù e l'aria di chi vuole sembrare più grande gli anni che ha in realtà non aveva nessuno a fargli coraggio.
Per questo Agatha gli aveva rivolto la parola quel giorno: «Avete intenzione di portarvi tutti questi bagagli?».
La sua voce era giunta alle orecchie del ragazzo che, preso in contro piede, si era guardato intorno, stupendosi che si stesse rivolgendo a lui. Si era voltato e l'aveva guardata, con un espressione di stupore mista a noia.
«Non è nulla, in confronto a ciò che sto lasciando», un velo di malinconia aveva attraversato il suo viso, ma solo per qualche istante.
«Ma dall'altra parte dell'Oceano c'è una nuova vita che mi aspetta», si capiva da come guardava il porto che una parte di lui non era neanche convinto di riuscire a superare il viaggio. Ma proprio come tutti loro, compresa Agatha, ci sperava.
La speranza era l'unica cosa che avevano.
Agatha aveva fissato lo sguardo pieno di aspettativa, e con un pizzico di timore, del giovane davanti a lei, con la consapevolezza di avere la stessa espressione impressa sul volto.
«Agatha, che stai facendo? Muoviti, dobbiamo andare», la voce perentoria di Connor, suo fratello maggiore, che la chiamava a qualche metro di distanza, la destò dai suoi pensieri.
Si voltò nella sua direzione e li vide tutti lì, poco lontano dalla recinzioni, in attesa che lei li raggiungesse. La sua famiglia, le uniche persone sulle quali aveva sempre potuto contare e per le quali avrebbe fatto qualsiasi cosa.
Erano partiti insieme, e si erano ripromessi che insieme avrebbero affrontato ogni ostacolo. E questa era l'unica cosa che spingeva ogni membro della famiglia Doyle ad andare avanti, un passo dopo l'altro, nel nuovo ma sconosciuto mondo.
Agatha sorrise, fiduciosa, si sistemò l'abito migliore che aveva, stirando con le dita alcune piccole pieghe sulla gonna, e a passo svelto raggiunse gli altri..
«Ah eccoti qui», disse la madre, Maureen, allungando un braccio per protendersi verso di lei e circondarle le spalle teneramente: «Andiamo».
Si stava già chiedendo quali sarebbero state le loro prossime mosse, cosa avrebbero fatto nelle prime ore sbarcati a New York.
Ma non ebbe neanche modo di palesare la sua curiosità alla famiglia che il padre, Fergus, parlò: «Dobbiamo iscriverci all'accettazione e fare degli esami... Ma non preoccupatevi, è solo la prassi».
«Che tipo di esami?»chiese Molly, la sorella minore, un po' spaventata.
«Medici, per lo più»,fu la risposta secca del padre mentre il figlio maggiore farfugliava quasi in disappunto: «Vogliono assicurarsi che non siamo portatori di qualche strana malattia, certo».
L'ultima volta che Fergus e suo figlio avevano avuto una discussione, in Irlanda, era stata proprio a causa del viaggio, e Agatha conosceva bene suo fratello da sapere che non era bastato mettere un oceano di distanza tra loro e la vecchia vita per far dimenticare tutto a Connor.
Ancora si chiedeva cosa aveva spinto il fratello a cambiare idea, dopo che aveva annunciato di non voler lasciare l'Irlanda.
«Io non vengo con voi», era stato perentorio, rivolgendosi a entrambi i suoi genitori: «Ho una vita qui, una fidanzata e un lavoro. Se voi volete attraversare l'oceano per seguire un sogno irrealizzabile, non potete pretendere che io vi segua».
Era stato inamovibile, perfino davanti alle lacrime della madre, inconsolabile. Per mesi ne avevano parlato, ma alla fine Agatha aveva visto la sconfitta negli occhi del padre.
«Lascia che faccia di testa sua, Maureen. Non si può ragionare con i muli», aveva detto, alzandosi dalla tavola e sbattendo la porta mentre usciva di casa.
Entrambi troppo fermi nelle loro idee per riuscire ad avere una discussione diplomatica. E non si erano parlati per molto, mentre la famiglia organizzava il viaggio.
Connor aveva messo il muso, trattando tutti come se fossero dei traditori per l'unico fatto di aver deciso di lasciare la terra dove erano nati. E il padre non aveva ceduto neanche di un passo. Fino alla mattina della partenza.
I due uomini di casa si erano parlati, si erano abbracciati e detti addio. Ma all'ultimo Connor li aveva raggiunti al porto, dopo aver raccolto poche cose importanti in una valigia e con un'espressione affranta e scontrosa.
Agatha gli aveva chiesto più volte cosa gli avesse fatto cambiare idea ma lui non le aveva mai dato una risposta. E lei aveva finito per annoverare anche quella faccenda tra i tanti misteri del suo fratello maggiore.
Pensavano che la cosa fosse finita nel momento in cui Connor aveva preso la decisione di seguirli. Invece più si allontanavano dall'Irlanda più il suo umore diventava nero. E della famiglia Doyle era l'unico davvero sofferente all'idea di dover stare su quella nave.
Spesso era così difficile stargli vicino, perché portava il malumore ovunque si aggirasse e Agatha aveva fatto molta fatica a non farsi condizionare troppo dall'atteggiamento negativo di suo fratello.
Anche in quel momento, in fila ad attendere il proprio turno per le visite, non era facile stare accanto a lui che si agitava, sbuffava e alzava gli occhi al cielo. Intollerante perfino al sole che picchiava sulla sua testa.
Cercò di prestare più attenzione agli altri, le persone che non conosceva ma che, insieme a lei, stavamo aspettando di iniziare una nuova vita.
Nessuno cercava di pensare all'Irlanda in quel momento. Troppo difficile, troppo doloroso ricordare tutto ciò che avevano lasciato. E si concentravano su ciò che potevano trovare lì.
«Dove andremo dopo?», si chiese Agatha, curiosa come sempre. La cosa che più la preoccupava era proprio non sapere il loro futuro immediato. Erano partiti, lasciando casa e lavoro per avventurarsi in un paese straniero senza una dimora o soldi.
Ma il padre aveva già organizzato tutto: «Ho parlato con i Murray, ci aspettano all'uscita. Loro hanno un amico che gli ha trovato un appartamento e sono disposti a dividerlo con noi».
«Grazie a Dio esistono ancora persone pure di animo come i Murray», aveva aggiunto la moglie, mentre i due figli maggiori si fissavano con sguardo disgustato.
Dividere la propria casa con i figli della signora Murray era l'ultima cosa che Agatha voleva fare, ma d'altronde non avevano molta scelta.
Si finse così contenta di fronte al padre, solo e unicamente per non deluderlo, e continuò a ripetersi che in fondo sarebbe potuta andare molto peggio.
Finire a vivere sotto ad un ponte, per esempio, non sarebbe stata una bella prospettiva.
E poi, comunque, era solo una situazione temporanea. O almeno era quello che credeva.
Spazio autrice:
Buonasera, come promesso, ho pubblicato il primo capitolo.
Il prossimo aggiornamento sarà lunedì e, oltre a conoscere un po' meglio i membri della famiglia Doyle, faremo la conoscenza anche della famiglia Murray.
A lunedì,
Chiara😘
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