36. Cercheremo aiuto per te
"Kayden ha tentato il suicidio."
È la frase che continua a rintronare nella mia mente. Ha provato a farla finita, di nuovo. Ha provato ad andare via, senza nemmeno salutarmi.
Rido nervosamente sul bordo del letto, ripensando alla frase di prima. Salutarmi? A chi voglio prendere in giro? Noi non vogliamo salutare. Dire addio ad una persona è più difficile di quanto si pensi. Dire addio, è come superare un ostacolo, e noi non vogliamo che altre cose si mettano in mezzo, perché siamo già stanchi. Siamo già morti dentro e vogliamo semplicemente andare oltre.
Ha tentato il suicidio, ma non significa che lui... Dio!
Scuoto la testa, con le mani tra i capelli. Ho pianto così tanto, che ho pensato di stare per morire io. Sto tremando come una foglia pronta a staccarsi da un albero e cadere senza essere afferrata.
Andrà bene. Andrà tutto bene. Mi alzo, barcollo verso la scrivania e prendo il mio quaderno, cercando tra le pagine il foglio che Kayden ha scritto per me, ma che non ha avuto il coraggio di darmi.
Il foglio trema tra le mie dita e mi rendo conto di quanto faccia male. La sua calligrafia sembra strana, come se avesse scritto questa lettera con mano tremolante. Forse stava piangendo?
Mi scappa un singhiozzo leggendo la sua ultima frase.
«Oddio, no.» dico con voce strozzata. «No, no, no, no!» mi porto il foglio al petto e scoppio a piangere più forte. Avrei dovuto capirlo. Io avrei dovuto capire meglio le sue parole. Mi stava già dicendo addio. Lui aspettava soltanto il momento giusto.
Ho fallito.
Ho fallito per la seconda volta.
Stringo il foglio tra le mani e sussurro: «Mi dispiace... Ho fallito.»
Sento il freddo attraversarmi il corpo. Ho lo stomaco chiuso, le mani fredde, gli occhi appannati e le ossa mi fanno male.
No, no, no.
Non di nuovo. Rimetto il foglio nel mio quadernino e cado in ginocchio, con il corpo scosso dai singhiozzi. Poso la testa sulla sedia e cerco di abbracciarmi da sola.
Non ora, mi dico. Vorrei dire a colei che non mi molla un attimo, di non risvegliarsi. Ma mi ricorda che non è mai andata via, e che mi ha permesso soltanto di uscire dalla scatola nella quale ero chiusa, soltanto per prendere una boccata d'aria, prima di soffocarmi di nuovo.
La stanza inizia a girare. Tutto intorno a me sembra sfocato. Non capisco più niente. Sposto la sedia con la mano, facendola cadere, e striscio quasi verso la porta. Tutte le mie forze mi hanno abbandonata di colpo.
Sono di nuovo io. La felicità è andata via con un soffio.
E il dolore mi ricorda a chi appartengo davvero. Mi ricorda che non posso essere felice.
Avanzo verso la porta. Ho il fiato corto. Non riesco a rimettermi in piedi. Lascio cadere il mio corpo, mi giro di schiena e fisso il soffitto. Ripenso alla lettera, inizio a tremare, mi metto in ginocchio e vomito sulla moquette.
«Vai via.» cerco di gridare, ma in realtà lo dico in un bisbiglio. Non mi sento più le mani e tutto quanto inizia a vorticare intorno a me. Con il corpo tremante mi avvicino al bordo del letto e poso la testa sul materasso. Fisso il cellulare, che giace tra i cuscini, e mi sento male. Mi sento davvero male. È colpa mia.
Metà della colpa ce l'ho io. Hunter non doveva pensare a me. Non doveva trascurare Kayden. Io non avrei dovuto appoggiarmi ad un'altra persona perché sapevo che sarei crollata nuovamente.
Va sempre così.
La porta si apre di colpo e mio fratello viene nuovamente da me. «Cazzo, Hayra!» grida, preso dal panico. Posa le mani sulle mie spalle e mi scuote piano. «Hay, dimmi qualcosa. Ti senti male?»
Per mia madre sono soltanto un'adolescente che finge di stare male e che fa la ribelle. E quando beve, per lei soltanto una figlia ingrata, con dei problemi mentali.
Per mio fratello sono soltanto la sua sorellina che ha provato ad ammazzarsi e che sa che vorrebbe rifarlo.
Per la società sono soltanto una ragazza con problemi. Una squilibrata. Una che non può sapere cosa sia il dolore vero, perché sono troppo piccola.
Devo essere adulta per essere presa sul serio.
Devo essere adulta per stare male.
Perché ora sono troppo piccola e se dico che sto male, loro si mettono a ridere.
Per Hunter sono soltanto... Depressa. Sono soltanto una copia di suo fratello.
«Mi dispiace tantissimo, Hay. Ti prego non stare male di nuovo. Ti prego.» mi stringe a sé, posa il mento sulla mia spalla e sento le sue lacrime bagnarmi il collo.
E vorrei chiedergli se lo sente anche lui questo freddo... Vorrei chiedergli se lo sente anche lui questo vuoto. Rimango in silenzio, fuori piove. La giornata sembra serena, ma piove. Fa così dannatamente freddo, nemmeno il calore del corpo di Ethan mi riscalda. Chiudo gli occhi e mio fratello mi stringe ancora più forte a sé.
«Mi porti da Hunter?» gli chiedo, la voce mi trema. Mio fratello scatta via come se avesse preso la scossa.
«Non penso sia una buona idea, Hayra.» mi prende le mani e vedo le lacrime sulle sue guance. Mio fratello ha pianto. Per una volta, ho visto mio fratello piangere.
Allungo la mano verso il suo viso e passo il pollice sul suo zigomo.
«Devo vedere come sta.» gli dico con un sorriso triste, dietro al quale nascondo tutta la mia voglia di farla finita anche io.
Mio fratello pensa per un paio di secondi, si asciuga le lacrime e si alza in piedi, tendendo la mano verso di me.
«Le notizie si diffondono in fretta... Andiamo all'ospedale.» gli stringo la mano e mi alzo anche io. Lo seguo fuori come un automa. È come se non vedessi e non sentissi più niente. Niente di nuovo per me. L'unica cosa nuova, di cui ho avuto la possibilità di assaporare, è stata la felicità. Dio, è così bello stare bene, anche se per pochi istanti.
Ethan prende le chiavi della mamma. Lei è sulla soglia della porta della cucina. Mi guarda e dice: «Eri amica anche di quel ragazzo che ha provato a togliersi la vita?»
Le sue parole dovrebbero farmi male. Sembra che stia dando la colpa a me, perché anche Adelaide era amica mia. E si è uccisa. Ma le sue parole si disperdono nel nulla. Niente mi tocca. Sono già a pezzi, cosa vuole distruggere ancora?
Mio fratello emette un ringhio di rabbia, tira un calcio nel mobiletto all'entrata e mi accompagna fuori, verso la macchina. Salgo dentro, non mi metto la cintura. Voglio... Dissolvermi.
«Hai freddo? Stai tremando? Accendo il riscaldamento?» chiede Ethan, ma non rispondo. Non sa che non si tratta di quel tipo di freddo. Starei tremando anche se mi mettesse tra le fiamme. Kayden non può aver fatto la stessa fine di Adelaide. Lui deve essere vivo. Sì è salvato, lo so.
Quando arriviamo all'ospedale, mio fratello parcheggia la macchina e mi prende dal braccio, guidandomi. Mi lascio trascinare come se non potessi più ragionare. Le mie gambe lo seguono e basta. Il cervello si è spento. È finita. Per me è finita, di nuovo.
Ho la nausea. Camminare nuovamente tra infermieri, odore di medicinali, persone che piangono e gridano, fa male. La mia testa sta male. Mi fermo nel corridoio, dove vedo Hunter seduto su una sedia, con la testa tra le mani.
Mio fratello mette la mano sulla mia schiena, esortandomi ad andare verso di lui. Non posso. Il senso di colpa mi mangia viva. Un'infermiera esce dalla stanza e lascia per poco la porta socchiusa. Intravedo Kayden sul lettino. I ricci sparsi sul cuscino bianco. La sua pelle pallida. Gli occhi chiusi e il battito debole sul monitor. L'infermiera parla con una donna. Ho la nausea. Mi viene da vomitare.
«Che ci fai qui?» sento la voce di Hunter, quasi arrabbiata. Ma io guardo Kayden. Lo guardo e mi sento male. Urlo nella mia testa. E non posso. Ha ragione lui, non posso togliere le manette ai miei pensieri. Non posso essere felice. Lui non lo è stato. Io nemmeno. Lui non è Adelaide.
Mi prendo la testa tra le mani. Intorno a noi succede il caos. L'infermiera che grida qualcosa. L'altra donna che esce fuori dalla stanza. Il suono prolungato sul monitor. Quel suono che indica soltanto una cosa: il suo cuore ha cessato di battere.
«Mamma?» è la voce di Hunter. Non ce la faccio a vederlo così.
«Mi dispiace, tesoro», risponde la donna. «Hanno fatto il possibile.»
Inizio a indietreggiare. Sento Hunter piangere. Piange forte. Grida. Tira calci alla sedia. È fuori di sé. Ma è il dolore. È lui che si manifesta in questo modo. È lui che vuole essere al centro dell'attenzione.
Vorrei sopprimere il mio. Ho rubato gli ultimi attimi di Kayden insieme a suo fratello. Mi aveva detto che l'ho abbandonato anche io.
E solo ora capisco che aveva ragione. È colpa mia. Vorrei andare da Hunter e abbracciarlo. Quell'abbraccio che io non ho ricevuto quando ho perso la mia migliore amica. L'abbraccio in cui il dolore si fonde e trova un attimo di pace. Non posso. Non ci riesco.
«Hayra.» mio fratello mi chiama a voce alta. Forse perché mi sono estraniata di nuovo? Mi alieno sempre nella mia mente. Sparisco. Sparisco spesso, perché non voglio stare male. Eppure io so cosa succederà.
Hunter alza lo sguardo su di me. Il dolore lo devasta. Gli è saltato di sopra e lo divora. Poco a poco, lo intrappola tra i suoi artigli. Fa male, lo so. Fa sempre male quando ti prende anche contro la tua volontà.
Il dolore violenta tutti, prima o poi. A volte lo fa piano, altre volte ti segna a vita. Ti ruba tutte le emozioni belle e ti lascia sull'orlo del precipizio. E devi decidere tu cosa fare.
Indietreggio con i loro sguardi puntati su di me.
Non mi guardate come se fossi la prossima, vorrei dire.
Non mi guardate come se avessi sbagliato.
Non mi guardate come se dovessi sentirmi in colpa di essere ancora in vita.
Non è colpa mia. Io non volevo questo. Sono stata egoista. Ho rubato la felicità ad un'altra persona.
Hunter continua a piangere, fa dei passi verso di me, io mi allontano. Stupida ed egoista, ecco cosa sono.
E mi dispiace tanto, per tutto.
«Non sarei dovuto essere con te.» mi dice tra i singhiozzi. E come posso dargli torto? Ha ragione. Lo so. Vorrei rispondere, dirgli qualsiasi cosa. Ma le mie labbra nemmeno si schiudono.
«Hunter! So che stai male, ma non farlo.» lo ammonisce mio fratello.
E io invece vorrei dirgli di farlo, se ciò lo fa sentire bene.
Lui è troppo buono per soffrire. È troppo perfetto per una come me.
E, invece, non lo fa. Si copre gli occhi e continua a piangere. Mio fratello lo abbraccia. È così che fanno i migliori amici. Condividono il dolore... Rimangono uno accanto all'altro.
È così che dovrebbe essere... Ma non per me.
Indietreggio così tanto finché non mi metto a correre nel corridoio, lasciandomi alle spalle le grida di mio fratello.
Esco dall'ospedale, corro senza sapere in quale direzione io stia andando. Non so dove voglio arrivare. Si può correre verso il paradiso e basta?
Piove e va bene così. In fondo, noi siamo pioggia. Uno è caduto e l'altro sta per cadere.
E il sole è rimasto dietro le nuvole, anche oggi.
Le gocce di pioggia colpiscono la mia pelle e io mi sento bene. Mi sento viva. I miei vestiti piano piano mi si appiccicano al corpo.
Sento il rumore della pioggia e sorrido. Noi quando cadiamo non facciamo rumore, la pioggia sì.
Le mie scarpe calpestano con forza il suolo, l'acqua schizza, aumento il passo. Corro fra le persone che cercano di ripararsi dalla pioggia. Corro con le lacrime agli occhi e l'anima che fluttua sull'asfalto.
Poi mi fermo davanti a quel palazzo. Tremo ad ogni gradino, ma non mi fermo. Salgo su finché non raggiungo il tetto.
Rimango vicina alla porta e guardo il cornicione, nella parte dov'era seduto Kayden. Ho registrato tutto con gli occhi, ho creato un film nella mia testa e ora non faccio altro che guardarlo e riguardarlo. E davanti agli occhi mi passa sempre la stessa scena.
Mi avvicino al cornicione, ci salgo e apro le braccia, tenendo lo sguardo puntato verso il cielo.
E la pioggia cade. Continua a cadere senza fermarsi.
Faccio avanti e indietro sul cornicione. Non mi vede nessuno, anche perché chi diavolo ci farebbe caso ad una come me? Guardo le luci che tengono la città sveglia e il mio corpo trema così tanto, che per un secondo ho avuto paura di perdere l'equilibrio.
Non così. Volare è bello, ma non così.
«Noi siamo pioggia, Kay... E cadiamo senza farci male.» mi siedo e lascio penzolare le gambe nel vuoto. Chiudo gli occhi e piango insieme al cielo. La notte lo ha preso con sé. Lo ha portato via. Prendo il ciondolo che ho al collo e lo stringo tra le dita. Ero il suo puntino bianco. E ha avuto ragione lui. Mi sono semplicemente mischiata al suo nero e sono rimasta intrappolata lì.
«Mi dispiace tanto.» e poi grido. Grido forte, tanto da quassù nessuno mi sente, se non il cielo. Nessuno è con me, a parte la pioggia.
E batto i pugni sul cornicione, le nocche si sbucciano, ma non importa. Il dolore fisico non è forte come quello a livello mentale. Non è mai forte come la perdita di una persona a cui sei affezionato.
E batto i pugni finché non mi sento più le mani. Scendo giù dal cornicione, cammino verso la porta e me ne vado Il sangue cola fra le dita, la pioggia se lo porta via e nella mia mente canticchio Doomed, la sua canzone preferita.
Mi stringo nella giacca ormai zuppa e cammino verso casa, che di casa non ha nulla.
Una famiglia che è caduta a pezzi.
Mia mamma che ha quasi un crollo mentale.
Mio papà che sta in un hotel sperando di parlare con sua figlia e dirle del matrimonio.
Un fratello che probabilmente mi sta cercando.
E una figlia che vorrebbe soltanto sparire nel nulla.
Ovvero me. Perché esisto?
Arrivo a casa, fradicia dalla testa ai piedi. Apro la porta e mi muovo esattamente come se non fossi più umana. Io un'anima non ce l'ho più.
«Hayra, possiamo parlare un attimo?» mi chiede mia madre. La ignoro e salgo lentamente le scale.
«Mi dispiace, tesoro. Cercheremo aiuto per te...» e come si fa a salvare qualcuno che non vuole più essere salvato?
"Cercheremo aiuto per te"... Cosa sono diventata?
Incespico nei miei stessi piedi, arrivo nella mia stanza e trovo il mio cane sul letto. Puzza, qui dentro. Devo pulire la moquette, ma non adesso.
Mi sdraio a letto, sotto le coperte, e il mio cane viene accanto a me. Lo abbraccio ed emette un guaito.
Ore più tardi la mia camera è distrutta. Sono al centro della stanza, con le ginocchia tirate al petto e il caos che regna intorno a me.
Mia madre grida sulla soglia della porta e poi sparisce.
Mio fratello è tornato a casa dopo avermi cercata per ore. Mi dispiace di averlo fatto preoccupare.
L'unica cosa che probabilmente non ho distrutto è il mio quadernino.
Dio, fa così male.
Ethan entra nella mia stanza e sta attento a dove mette i piedi. Si inginocchia davanti a me e mi prende le mani doloranti tra le sue.
«Che cosa hai fatto...» sussurra, guardando le mie ferite.
«Volevo sbarazzarmi di lui...» sorrido tra le lacrime.
«Lui chi?» domanda e faccio spallucce. Mi mordo il labbro fino a sentirlo sanguinare e rispondo: «Il dolore. Non va mai via.»
«Tutto questo non finisce mai.» affermo, ad occhi chiusi. E ci rinuncio. Il mio corpo si affloscia sul pavimento. Il mio battito rallenta. E lei si attorciglia come un serpente intorno alla mia gola.
Mi soffoca.
Mi toglie tutto.
Lei e la sua maestria nel tenermi imprigionata non la supera nessuno.
La depressione è così.
E per gli altri siamo soltanto adolescenti che fingono di stare male, quando in realtà fingiamo di stare bene.
Già... Perché noi siamo quelli che chiamano matti e vengono guardati con occhi diversi.
Siamo quelli che sognano in grande, e che dentro si sentono piccoli.
Siamo quelli bravi a dare consigli, ma sempre incapaci di aiutare noi stessi, perché abbiamo il brutto vizio di crollare sempre o di aspettare che qualcuno ci aiuti.
Siamo quelli che desiderano il mondo, ma che vivono in un mondo dove non è permesso essere umani.
Siamo quelli un po' così, pieni di incertezze con zero sicurezze; quelli che vogliono il meglio, ma continuano a ricevere il peggio.
Siamo quelli che "Per imparare a volare devi prima cadere". Ma come insegni a quelli come noi a volare, se le ali non le abbiamo mai avute?
Quelli come noi non spiccano il volo. Quelli come noi si rimboccano le maniche e combattono giorno dopo giorno, su due gambe. Perché non sempre chi è in alto è il più forte. A volte chi resta in basso, come un puntino insignificante ignorato da tutti, ha il mondo nelle mani e la forza nel cuore.
«Sorellina...» mi dice Ethan. Mi riprendo soltanto per pochi secondi.
«Starò bene, Ethan. Ti voglio bene.» ha gli occhi lucidi. Si alza e va verso il mio armadio. Mi prende dei vestiti puliti e poi mi dice di andare in bagno. Non mi alzo. Non ce la faccio.
«Devi farti una doccia calda, Hay... Ti prego, andrà tutto bene.» annuisco, ma sappiamo entrambi che non è così. Mi prende in braccio e mi porta in bagno. Mi siedo sul bordo della vasca mentre Ethan regola l'acqua calda.
«Ho sbagliato una volta. Questa volta non ti mollo, e non mi importa se abbiamo una famiglia che fa schifo, ma sono tuo fratello e sei la mia sorellina. Mi prendo cura di te, perché-» trattiene le lacrime e mi toglie la felpa. Forse dovrei vergognarmi. Già, il proprio fratello che mi spoglia, è un po' imbarazzante. Rimango in intimo e mi metto dentro la vasca, rannicchiata. Ethan sposta il getto d'acqua calda sul mio corpo e poi mi insapona i capelli. Io continuo a piangere e mio fratello continua a prendersi cura di me. Le ferite sulle mani bruciano.
«Ora esco e tu ti cambi, va bene? Sarò proprio dietro la porta.» prima di uscire, però, prende la chiave con sé. Ha paura che io rimanga chiusa dentro. Mi asciugo con un telo velocemente e cerco di vestirmi. Fa freddo.
Esco dal bagno e mio fratello e mi segue nella mia stanza. Mi siedo sul bordo del letto, lui prende un paio di calzini e me li mette, poi prende le bende e viene a fasciarmi le mani.
«Hunter ti ama, lo sai. È solo che sta male, ma è comprensibile. Non è colpa tua. Non è nemmeno colpa sua. Andrà bene.» finisce di fasciarmi le mani e mi mette sotto le coperte. Si siede accanto a me e mi abbraccia forte.
«Non lasciarmi sola stanotte... ho paura.» dei miei pensieri, vorrei aggiungere.
«Non avevo intenzione di farlo.» e rimango abbracciata a lui per tutta la notte, cercando inutilmente di addormentarmi.
E il dolore è come se se ne stesse in un angolino della mia stanza, come un'ombra, a fissarmi. E mi ricordo del discorso che scrissi sul mio quadernino.
Devo imparare ad amarlo, il dolore. Devo farlo e starò meglio.
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