31. Sei l'arcobaleno che ammiro nei giorni di pioggia
Se c'è una cosa che odio più delle etichette e delle persone che ti additano, è quando la propria madre ti tratta allo stesso modo in cui ti trattano le persone che tu a stento riesci ad evitare.
A volte vorrei fare da genitore a me stessa, perché sicuramente sarei più serena e forse riuscirei a capirmi. È brutto quando i genitori si mettono a fare figli e poi non si prendono tutte le responsabilità. Nel mio caso mi sento un po' come se non fossi stata voluta veramente su questo mondo.
Inizio anche a pensare che forse mia madre mi abbia creata perfino per sbaglio. Cosa fai? Un figlio lo tratti bene soltanto finché ha il pannolino?
Con mia madre penso di aver perso un po' le speranze. Con gli adolescenti decisamente non se la cava. So che mia nonna non è stata una donna molto comprensiva ed empatica, spesso trascurava i figli, e penso che mia madre stia facendo la stessa cosa con noi.
Non mi aspetto di certo paroline dolci e complimenti, ma sarebbe bello se ogni tanto si interessasse davvero a me e non soltanto alla scuola e a ciò che potrebbe dire la gente. Mia madre è stata quasi sempre più interessata alla mia reputazione che a me e al mio stato emotivo.
A parte il fatto che inizia ad essere veramente incoerente, penso non si renda conto di quanto lei mi faccia stare male. È la prima ad alimentare il mio malessere e non lo sa.
Sono giorni che evita di parlarmi dopo quello che è successo alla festa. Non capisco perché sia rimasta così scandalizzata, non ero messa male. Ho saltato il coprifuoco perché stavo bene e non perché stavo facendo l'adolescente ribelle, come dice lei.
Anche questa volta mi ripeto che andrà bene, finché mamma non fa capolino nella mia stanza e dice: «Ha chiamato tuo padre, di nuovo. Ha detto di richiamarlo perché vuole parlare con te.»
«Ah, e cosa vuole dirmi?»
Mia madre emette una risata nervosa e poi risponde: « Questo te lo dirà lui. Io sono stanca di sentirlo nominare.» chiude la porta e se ne va, lasciandomi da sola senza alcuna spiegazione.
Resto seduta a letto a gambe incrociate e prendo il cellulare tra le mani, aprendo la rubrica e cercando il numero di papà. Lo guardo incerta, perché non so se chiamarlo o meno. È mio padre, lo so, ma certe volte mi viene l'ansia perché mi sembra di stare per parlare con uno sconosciuto.
Da quando papà si è rifatto la sua vita non l'ho cercato più così tanto e lui chiama sempre o la mamma o Ethan, ma non chiama quasi mai direttamente me.
Non ne comprendo il motivo. Spero che abbia una scusa plausibile al suo comportamento, ma ne dubito. È mio padre, ormai so più o meno com'è fatto. Pensa che i soldi che ci manda ogni mese valgano più di un ti voglio bene, di una visita o di una chiamata.
Mio padre pensa che sia quel genere di figlia alla quale bastano dei soldi per conquistare la sua simpatia.
Vorrei fargli capire che un cellulare dell'ultima generazione non sostituirà un ti voglio bene.
Vorrei fargli capire che una chiamata non prenderà il posto di un abbraccio.
Vorrei fargli capire che sono ancora sua figlia e non un cucciolo di cane da mantenere e basta.
È questo il buongiorno che mi dà mia madre, grazie a mio padre. E va bene così. Va sempre tutto bene.
Anche stanotte non ho chiuso occhio. Ho pensato a molte cose, come sempre. Vorrei esistesse un tasto per spegnere il mio cervello.
Prendo il mio zaino e scendo al piano di sotto. Mia madre sfoglia una rivista e mangia una fetta di pane e marmellata. Non oso mettere piede in cucina, non perché io non abbia il coraggio, ma perché so che mia madre mi rovinerebbe ulteriormente la giornata.
Faccio un passo indietro ma la sua voce mi blocca: «Vorrei dirti una cosa, perché non so se sono stata chiara l'ultima volta.»
Sento l'acido salirmi in gola e stringo i pugni, pronta a sorbirmi l'ennesima stronzata da parte sua, mentre cerca di fare la buona madre.
Entro in cucina, ma resto comunque all'entrata, nel caso volessi svignarmela in fretta.
Mia madre chiude bruscamente la rivista e assottiglia le labbra, puntando i suoi occhi stanchi su di me.
«Sono felice che tu abbia fatto amicizia con quei ragazzi di cui me ne hai parlato» inizia a dire, sollevando piano le sopracciglia. «Ma avere degli amici non ti dà il diritto di fare ciò che vuoi.»
Sospiro, con le parole che si disperdono nella mia mente. Non so nemmeno cosa dirle ancora.
Si passa la lingua sui denti e poi solleva l'indice in segno di avviso. «Non so davvero come venirti incontro. Pensavo che avere un fidanzato e degli amici ti rendesse felice, ma a quanto pare stai prendendo ancora la cattiva strada. Magari non sono le persone giuste, ma sono sicura che ne incontrerai di migliori in futuro. Tesoro, sono stata giovane anche io e-» sollevo una mano, impedendole di andare avanti.
«Sì, tutte le persone attraversano questa fase. Ciò che non capisci, però, è che la cosa è soggettiva, mamma. Se tu sei in un certo modo, non puoi pretendere che io sia come te. Vado a scuola.» sistemo lo zaino sulle spalle e faccio per uscire fuori, ma la sento dire: «Almeno stai studiando?» non perdo più tempo a rispondere, perché mi dirigo subito verso la porta.
Sento i miei passi sulla ghiaia man mano che mi allontano, la luce mi infastidisce e vorrei soltanto avere un posto tutto per me, dove non vengo giudicata per ogni mia cavolo di azione.
Aspetto Ethan, con le mani dentro le tasche della felpa e lo sguardo perso nel vuoto. Vedo mio fratello correre verso di me, con le chiavi della macchina in una mano e lo zaino che rimbalza contro la sua schiena.
«Andiamo, Hay.» dice e lo seguo verso la macchina. Prendo posto e mi metto la cintura di sicurezza. Guardo verso la finestra e vedo mia madre osservarci da dietro la tenda. Sposto lo sguardo e deglutisco.
«Hai litigato con la mamma?» chiede Ethan, nonostante sia già al corrente con la notizia. So che probabilmente avrà sentito me e nostra madre litigare, o forse lei gliene avrà parlato. La cosa che più detesto, è quando mia madre manda qualcuno per parlarmi.
«Non capisce mai niente. Non è colpa mia.» rispondo, contraendo la mandibola.
Ethan guida e si gira per pochi secondi verso di me.
«Mi dispiace, Hay. Lei è...» fa una pausa, storcendo il naso. «Ascolta, lasciala perdere, va bene? Fai ciò che ti rende felice, mi prenderò io tutte le responsabilità e le colpe.»
Inarco un sopracciglio, confusa. «Non c'è bisogno, Ethan.»
«Hai bisogno di aiuto, guardati. Per favore, non fare di nuovo lo stesso errore.» la sua voce è come un supplizio. Giro lo sguardo verso il finestrino e stringo gli occhi per non piangere.
Vorrei dirgli che ho già commesso di nuovo lo stesso errore e che probabilmente non imparerò mai, perché dal dolore impari qualcosa soltanto quando subentra la felicità e inizi a stare meglio con te stessa. Se il dolore continua a farsi spazio dentro di me, come se stesse preparando meglio la sua tana, come faccio a stare meglio e pensare positivo?
«Di che aiuto avrei bisogno, secondo te?» gli chiedo, la voce neutra.
«Devi parlare con qualcuno, di qualsiasi cosa... Hai così tanto bisogno di parlare, e ti capisco. Vorrei che lo facessi con me, ma sai che non ne sono capace. Io ti ascolto, il tuo dolore lo sento più di quanto immagini, ma non so come aiutarti. Il tuo umore è come un cubo di Rubik, non riesco a trovare una soluzione, non riesco a capire ed è difficile per me.» ammette, la voce gli si spegne un po'.
«Certe volte non serve soltanto parlare, Ethan. Serve anche la presenza di quella persona. Non voglio che sia presente soltanto con la mente, ma anche con il corpo. Se io mi sfogo e tu mi ascolti, cercherai di trovare una soluzione, le parole adatte per darmi conforto. Ma hai mai pensato che dopo uno sfogo basterebbe soltanto un abbraccio sincero per farmi stare meglio?» gli chiedo, stringendo con forza la cinghia dello zaino, come se stessi cercando di mantenere il controllo.
Ethan stringe il volante e poi parcheggia la macchina nel primo posto disponibile che trova lungo la strada.
Tira il freno a mano e si gira verso di me, le narici dilatate e le labbra assottigliate. «Scendi dalla macchina.» ordina, scendendo lui per primo.
Lo guardo con timore e il cuore inizia a battermi come impazzito, ma faccio come dice. Scendo e chiudo piano lo sportello, guardando mio fratello con preoccupazione.
«Mi dispiace se non ti dico mai che ti voglio bene.» inizia a dirmi.
«E mi dispiace se ti sono capitato io come fratello maggiore. Probabilmente sono io quello più incasinato, quello di cui nostra madre dovrebbe vergognarsi. Non sei tu il problema. Non lo sei mai stata.» dice, sfregandosi una mano sulla guancia coperta da un velo di barba.
«Dovrei esserci per te sempre, lo so. In realtà ho paura di starti troppo appiccicarti e rischiare di soffocarti. Quindi ho deciso di comportarmi come sempre, per farti sentire normale. Volevo che avessimo lo stesso rapporto di sempre, così non ti saresti sentita osservata e tenuta sotto controllo.» confessa, facendo un passo verso di me. La sua solita espressione menefreghista che indossa ogni giorno, questa volta non c'è più.
«Non te lo dimostro spesso, ma sei la cosa più preziosa che ho. E mi dispiace se non ti abbraccio quasi mai, ma sono umano anche io, e se lo facessi so che piangeresti e io piangerei con te. Perché quando tu piangi, vorrei aiutarti e dirti che andrà tutto bene, ma ti sei sentita dire così tante volte questa frase che ora non ci credi più.» i suoi occhi diventano lucidi, così come i miei.
«Vorrei saperti al sicuro. Vorrei che dormissi serena. Vorrei che fossi felice. Vorrei essere un fratello migliore per te, ma guardami, scappo da tutto perché non so come affrontare certe situazioni. Mi dispiace se sono un disastro. A quanto pare i fratelli Mason sono bravi solo a combinare casini, eh?» tenta di scherzare, ma io sto già piangendo e non so come fermarmi. Ma Ethan questa volta lo sa. Smette di parlare e mi abbraccia. E mi stringe così forte come se potesse recuperare tutti gli abbracci mai dati.
Affondo la testa nella sua felpa, aggrappandomi alle sue braccia e stringendolo forte.
Vorrei dirgli che oggi il mio salvagente, che mi tiene a galla durante la tempesta, è lui.
«Ti voglio bene.» sussurra al mio orecchio e sorrido contro la sua spalla, con le lacrime che continuano a rotolare sulle mie guance.
«Andiamo, abbiamo scuola.» dice, arruffandomi i capelli. Gli tiro uno schiaffo sul dorso della mano e ridacchia.
Mi asciugo le lacrime e mio fratello mi regala un sorriso mezzo triste e imbarazzato. Ma i suoi occhi mi guardano con fierezza. E sento ancora una volta di aver fatto un altro piccolo passo verso la felicità.
Non mi piace molto camminare nel corridoio, quando c'è il cambio di aula.
Non so se sia meglio avere sempre gli stessi compagni nella stessa classe oppure conoscere sempre persone nuove.
Il punto è che vedere sempre le stesse facce, ogni singolo giorno, durante ogni singola ora scolastica, penso sia un po' fastidioso e anche noioso.
Ma vedere sempre facce diverse, senza sapere come approcciarti agli altri e sentirti sempre osservata, fa schifo.
Ecco, ora, dopo aver resistito alle prime tre ore di lezione, mi sono rifugiata in biblioteca, perché la mia mente ha bisogno di silenzio.
Appoggio gli avambracci sul tavolo, vedo Vanessa andare via con un libro tra le mani, ma prima mi scocca un'occhiata carica d'odio. Non mi rivolge la parola e ultimamente non mi infastidisce. Sono felice, perché vorrei che capisse che non le ho rubato il posto, se è ciò che pensa.
Picchietto piano le dita sul tavolo e guardo fuori dalla vetrata. Sento i brividi in tutto il corpo, ripensando a tutto ciò che mi è successo ultimamente. Cosa sto combinando?
Perché nonostante tutto non riesco a godermi la felicità? Perché mi sento lo stesso come se qualcosa mi stesse opprimendo?
Qualcuno mi copre gli occhi da dietro. «Indovina chi è.» imita la voce dei chipmunk.
«Ciao, Hunter.» sorrido, spostando le sue mani dalla mia faccia. Si siede davanti a me e mi sorride a trentadue denti.
«Mi sei mancata un sacco.» la sua confessione mi fa imbarazzare e sento le mie guance riscaldarsi.
«Ci siamo visti ieri.» mormoro, abbassando lo sguardo.
«E quindi? C'è un limite di tempo per poter sentire la mancanza di una persona? Mi potresti mancare anche ora, mentre parlo con te.» afferma, allungando una mano verso la mia.
«Ma sarebbe impossibile. Come potrei mancarti dato che sono davanti a te?» rido goffamente.
«Mi manca baciarti, per esempio.» ammette, sfacciatamente. Io sento di stare per prendere fuoco da un momento all'altro.
«Come elimini la voglia di vedere una persona, quando ti manca?» mi chiede, poi.
«Andando da lei e vederla?»
«E come si elimina la voglia di baciarti?» il suo sorriso dice tante cose, e mi vergogno ad ammettere di averle capite tutte.
«Eliminando la distanza, magari?» dico innocentemente. Hunter annuisce e si piega sul tavolo, avvicinando il viso al mio. «Sei bellissima anche se hai pianto.» sussurra, passando il polpastrello sul cerchio scuro che evidenzia il mio scarso riposo. E ha capito che ho pianto, anche se a distanza di ore.
«Perché non mi baci e basta?» gli chiedo, con tutto il coraggio che ho.
«Perché di solito mi piace ammirare l'arte, prima di immergermi in essa.» sorride ad un palmo del mio viso. Chiudo gli occhi e aspetto il suo tocco, che non arriva. «Vorrei che ti guardassi come ti guardo io, adesso e tutte le volte che passi nel corridoio o che ti siedi a qualche posto più lontano da me.» dice, ma non ho il coraggio di aprire gli occhi.
«Vorrei che ti piacessi come piaci a me...» afferra la mia mano e fa intrecciare le nostre dita, appoggiando la fronte contro la mia. «Perché a me piaci un sacco.» e poi posa la sua bocca calda sulla mia e sento una lacrima ribelle fermarsi tra le nostre labbra, facendo da spettatrice al nostro bacio. Hunter mi accarezza la guancia con il palmo della mano e sento il mio corpo tremare leggermente.
Dopo un po' si separa da me e blocca con il polpastrello l'altra lacrima che sta per scendere. Si porta il dito alle labbra e se lo bacia, regalandomi un sorriso colmo di... amore? Che sia amore quello che vedo?
«Come fai...» dico, cercando di non spezzarmi così facilmente davanti a lui.
«A fare cosa, Masy?» chiede in un bisbiglio. La sua voce è il suono più dolce che io abbia mai sentito in vita mia.
«A farmi stare così paurosamente bene.» continuo a tremare e lui sfrega una mano sul mio braccio, cercando di calmarmi.
«Non voglio che tu abbia paura di essere felice. Non con me.» mi bacia il dorso della mano.
«Ma io sono solo-» dico, cercando di trovare le parole giuste.
«Come ti descriveresti, Masy? Guarda dentro di te e lascia che le parole escano liberamente dalla tua bocca. Non avere paura.» stringe le mie dita tra le sue, rassicurandomi.
«Mi sento esattamente come... come una rosa nera in un campo di margherite», dico, la voce mi trema un po'. «Una rosa nera, appassita, trascurata, ma con ancora le spine pronte a proteggerla, anche quando qualcuno vorrebbe raccoglierla così, consumata com'è. Mi sento una rosa morta, ma con ancora la forza di difendermi dagli altri. E so che potrei rovinare la bellezza degli altri fiori, perché in confronto a me sembrano più vivi e colorati. So anche che rovino il paesaggio, ma mi sento in questo modo, e non posso farci niente.»
Lo sguardo di Hunter si addolcisce e si prende un paio di secondi, prima di dire: «Allora permettimi di essere il pezzo di terra che ti tiene ancora in piedi. Lascia che sia io a raccogliere i tuoi petali quando cadranno, oppure lascia che sia io a prendermi cura di questa rosa e ridarle un po' di vita.»
«Ho una paura fottuta di questo, Hunter, che non ti immagini nemmeno. E tu sei così...non so nemmeno spiegarlo. Riesci a guardare oltre le apparenze, riesci a scavalcare tutte le mie difese, nonostante di giorni insieme non ne abbiamo passati così tanti per potermi conoscere così bene.»
«Ora ti cito Cesare Pavese: non si ricordano i giorni, ma si ricordano gli attimi. » abbozza un piccolo sorriso. «Quindi amo ogni singolo attimo passato insieme a te. Sono gli attimi che contano, Masy.»
«Allora ricordati di questo attimo.» dico e mi sporgo verso di lui per baciarlo. Sorride contro la mia bocca e poi appoggio la fronte alla sua e ci guardiamo negli occhi. «Non farmi male.» gli dico.
«Solo se poi rifletti il tuo colore su di me e non ti dissolvi nel grigio.» risponde, accarezzandomi il labbro inferiore.
«Posso dirti una cosa?» gli chiedo, appoggiando la mano sulla sua guancia. I suoi occhi marroni brillano di una strana luce.
Annuisce e sorrido. «Mi son presa una gran bella cotta per te.»
Lui scoppia a ridere e poi mi afferra il collo della maglietta e mi attira di più verso di sé, non curandosi delle persone che potrebbero vederci. «Ma cosa dici, Masy? Devo dirti di nuovo una bugia?» chiede, alzando un sopracciglio.
Lo guardo con un cipiglio e chiedo: «Che bugia?»
Lui sorride e scuote piano la testa. «Che non sei il mio tipo. Proprio per niente.»
All'improvviso mi tiro indietro e lo guardo sorpresa.
«Aspetta, quando all'inizio mi dicevi che non ero il tuo tipo, cioè in realtà eri attratto da me?»
«Complimenti, Masy, dopo mesi ci sei arrivata.» scoppia a ridere, gettando la testa all'indietro. Vorrei rispondere, ma sorrido mentre ammiro la bellezza del suo sorriso e mi beo del suono della sua risata.
«Vuoi che ti dica una bugia?» gli chiedo, alzandomi in piedi.
«Sentiamo...» diventa serio, schiarendosi la gola.
«Ti odio.» affermo in tono serio e poi inizio ad indietreggiare.
Hunter impallidisce. «Aspetta, se è una bugia, questo significa che mi ami?» chiede, sgranando gli occhi.
Faccio spallucce e sorrido tra me e me, dandogli la schiena e incamminandomi verso l'uscita.
«Masy, non osare lasciarmi con il dubbio!» mi minaccia e mi giro per guardarlo. Si alza e viene rapidamente verso di me, ma mi affretto ad uscire fuori e aumento il passo mentre sfreccio nel corridoio, tra le persone, e vado dritta verso il mio armadietto.
Hunter afferra il mio braccio e mi intrappola tra il suo corpo e l'armadietto. Sorride e mi guarda negli occhi.
Mi dà un bacio sulla fronte e prima che vada via, mi dice: «Sei l'arcobaleno che ammiro nei giorni di pioggia.» rimango incantata dalle sue parole e lo guardo andare a lezione. Ogni tanto si gira verso di me e mi sorride. Quel sorriso che regala solo a me. Mi sento speciale, perché lui mi fa sentire così. Le sue parole, le sue azioni, i suoi sguardi, riescono sempre ad ammaliarmi. Lui è la poesia più bella che riesco a leggere e capire e, soprattutto, sentire mia. Rimango incatenata tra i suoi versi e ci ritroviamo tra le parole; quelle parole che gli altri fanno fatica a capire.
Mentre rileggevo il capitolo, mio nipote è venuto da me e con faccia triste mi ha detto: perché sei triste?
Spesso quando scrivo qualcosa del genere lui lo capisce, si rattrista e viene ad abbracciarmi. 😭❤️ Alla fine della storia forse dovrà stare accanto a me con i fazzoletti 😂😂
Piango ogni volta che finisco di scrivere una storia, lol😭
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